I rinvii di un governo allo sbando, le pressioni europee, lo schianto della Grecia
I conti non tornano. Peggio, i conti non possono tornare. Ma all’Europa – su questo sono tutti d’accordo – non si può dire di no. Impossibile però anche un sì: in quel caso, infatti, sarebbero i calcoli politici dell’attuale governo a saltare definitivamente.
Ecco allora che s’avanza, coraggiosa, la ferma linea del nì. I «manovratori» sono in affanno e chiedono tempo. Il rinvio, non più il decisionismo, la fa da padrone.
Silvio Berlusconi l’ha spiegato a Giulio Tremonti: con la sua politica del rigore il governo va alla disfatta, occorre prendere tempo, magari giovandosi di un accordo con Sarkozy in sede europea. Il piccolo Napoleone parigino non è messo tanto meglio del Paperone di Arcore, ha le elezioni presidenziali nel 2012 ed un deficit statale da tagliare. Anche per lui meglio un rinvio. L’ipotesi sarebbe quella di rimandare la data teorica del pareggio di bilancio dal 2014 al 2016. Peccato che l’Unione Europea (Germania in primis) non sia per niente d’accordo.
Ma torniamo in Italia, dove l’esilarante risposta della maggioranza governativa ai risultati del referendum e delle amministrative è stato il rilancio del tormentone fiscale. Il tema del fisco è da sempre il cavallo di battaglia di Berlusconi. In realtà, in tanti anni di governo, la destra è riuscita ad attenuare il principio della progressività dell’imposizione, non certo il prelievo fiscale. Questa linea, nella sostanza largamente condivisa dal centrosinistra, ha portato ad un fisco da un lato ancora più iniquo e dall’altro sempre più pesante.
Senza dubbio, e lo schema proposto da Tremonti è lì a dimostrarlo, se il governo riuscirà a mettere mano al fisco sarà solo per proseguire su quella strada: far pagare di meno ai ricchi con l’ulteriore appiattimento delle aliquote Irpef, far pagare di più le fasce popolari con l’aumento indiscriminato dell’Iva. Ma riusciranno a mandare in porto una simile (contro)riforma? C’è da dubitarne, anche perché lo stesso Tremonti ha dichiarato che «non si può fare la riforma fiscale in deficit».
Del resto, non appena il governo ha cominciato a parlare di «riforma fiscale», che – al di là dell’iniquità – per avere sostanza abbisogna comunque di 15-20 miliardi secondo una simulazione eseguita in base alle bozze che circolano, l’Europa ha detto subito la sua, con un richiamo che non lascia spazio a dubbi. Leggiamo il Bollettino mensile della Bce, pubblicato ieri:
«L’aggiornamento del programma di stabilità italiano prevede una riduzione del rapporto disavanzo/Pil dal 4,6% del 2010 al 3,9% nel 2011. In seguito, tale rapporto scenderebbe ulteriormente a un livello inferiore al 3% nel 2012. Il debito in rapporto al Pil dovrebbe rimanere sostanzialmente stabile attorno al 120% fino al 2012 e poi diminuire».
Qui gli estensori della Bce non si sono spinti oltre, ma è ben noto che il piano di rientro al 60% del Pil costringerebbe l’Italia a tagli di 47 miliardi annui per 20 anni. E questo solo per ridurre il debito accumulato, senza considerare le nuove esigenze che inevitabilmente sorgeranno e i ricorrenti «aggiustamenti» che in Italia hanno ormai una cadenza semestrale.
Ma veniamo al richiamo formale della Bce all’Italia:
«Il programma indica che, al fine di conseguire l’obiettivo di un pareggio di bilancio entro il 2014 vanno ancora specificati per il 2013-2014 ulteriori interventi per un importo cumulato pari a circa il 2,3% del Pil». Tradotto in euro si tratta di una cifra attorno ai 40 miliardi. Sono esattamente quei 40 miliardi attorno ai quali il governo sta giocando al rinvio, con l’intento neppure troppo nascosto di lasciarne l’onere a chi verrà dopo.
Potrà funzionare una simile «furbata»? Stando alle dichiarazioni ufficiali il governo ne sembra convinto, tanto che il piano sarebbe quello di adottare misure per tre miliardi per il 2011, sei miliardi per il 2012, lasciando la parte più consistente al 2013, meglio al 2014, sconfinando così con assoluta certezza nella prossima legislatura.
Conti economici e calcoli politici non sembrano però poter andare d’accordo. Non fosse altro per l’incertezza sui tassi dei titoli del debito pubblico. Se fino a poco tempo fa i responsabili economici dell’UE non volevano neppure sentir parlare del possibile default greco, oggi questo tabù appare assai indebolito. La verità è che la Grecia va ormai verso l’insolvenza. Se le lancette del default verranno spostate ancora un po’ in avanti, sarà soltanto per permettere alle banche francesi, tedesche ed inglesi di scaricare finché possibile i bond ellenici che hanno ancora in pancia.
Si pensa forse che il default greco non avrà pesanti conseguenze sui tassi dei titoli degli altri paesi più indebitati dell’area euro (i cosiddetti PIIGS, più il Belgio)? A chi lo pensa ricordiamo che solo ieri (16 giugno), mentre i bond decennali di Atene superavano i 1.500 punti base di differenza sugli equivalenti tedeschi (1.500 punti base significa un differenziale, il cosiddetto spread, del 15%), quelli irlandesi schizzavano a 862, quelli portoghesi a 790, mentre quelli spagnoli salivano a 280 e quelli italiani si attestavano sopra i 200.
In questo quadro, e tenuto conto della gigantesca offerta di titoli prodotta dall’enorme disavanzo Usa (circa 1.600 miliardi di dollari in più in un anno), ma anche da quelli in crescita di Giappone, Gran Bretagna e Francia – perché mai la grande finanza internazionale dovrebbe continuare ad investire sui titoli italiani ai tassi attuali? – non è difficile prevedere un consistente aumento dei tassi dei titoli emessi dal Tesoro. Dopo di che buonanotte ai conti e ai conterelli dei nostrani ragionieri.
Non sappiamo per quanto tempo la riluttanza di un Berlusconi politicamente alla disperazione potrà prevalere sulle pressioni che vengono dall’Europa. Quel che sappiamo è che quello che si va preparando è un autentico disastro sociale. Quali sono, infatti, le misure che il governo va comunque approntando? Per quel che ne sappiamo si tratterà dell’ennesimo attacco alle pensioni, ai salari, alla sanità ed al welfare in genere.
Sulle pensioni, com’era ampiamente prevedibile, la mossa sarà quella dell’aumento dell’età per ottenere la pensione di vecchia per le donne del settore privato, portandola da 60 a 65 anni. Sui salari si prevede di estendere ulteriormente il blocco di quelli del comparto pubblico, con evidenti riflessi anche su quelli del settore privato. Sulla sanità si indicano i risparmi generati in prospettiva dal «federalismo», ma si andrà certamente ad interventi ben più concreti. In ogni caso la somma di tutti i provvedimenti di cui si parla (oltre a quelli che abbiamo indicato ve ne sono altri di minor consistenza) consentirebbe di raggranellare solo una parte della cifra richiesta dall’UE.
A questo punto il quadro è chiaro quanto fosco. E se il governo attuale danza pericolosamente sull’orlo del precipizio, i leader di quello che presumibilmente gli succederà paiono ancora più intenzionati ad allinearsi ai diktat europei. D’altra parte – lo abbiamo detto tante volte – qui il punto decisivo non è tanto la giustezza o meno di questo o quel provvedimento, quanto la scelta di restare in questa Europa dei banchieri o di venirne fuori, uscendo dall’euro e riconquistando la sovranità monetaria.
Il punto è il che fare, da un lato rispetto alla dittatura delle oligarchie europee, dall’altro sul peso insostenibile del debito pubblico. Chi non capisce che il punto è questo è fuori dalla realtà. Guardiamo alla Grecia: dopo tagli, sacrifici e privatizzazioni il debito è ancor più fuori controllo. Con ogni probabilità i greci avranno così sacrifici e insolvenza. Se il governo di Atene un anno e mezzo fa avesse deciso per il default, oggi il Paese vivrebbe già una diversa situazione. Sacrifici vi sarebbero stati comunque, ma in misura inferiore e, soprattutto, con una nuova prospettiva di ricostruzione sociale davanti.
E’ difficile capire che sono questi i veri nodi anche per l’Italia? Spesso nei cortei si gridano slogan su chi debba pagare la crisi. Bene, il debito pubblico è di gran lunga lo strumento principale attraverso il quale le classi dominanti scaricano il costo della crisi sulle classi popolari. E le istituzioni europee sono i controllori di questo perfido meccanismo. Almeno chi continua a parlare di lotta di classe dovrebbe capire che è qui che si gioca la partita. Se non lo capirà, lo comprenderanno forse i milioni di persone la cui vita di lavoratori, disoccupati e pensionati è sempre più nel tritatutto delle politiche europee.
Nel frattempo i «manovratori» continueranno nel loro mestiere, ma senza alcun consenso sociale, solo con la forza di una presunta «ineluttabilità». Quelli oggi al governo appaiono confusi come non mai, quelli che verranno faranno presto a bruciarsi. Il tempo delle illusioni sta per finire.