O fuori dall’Europa, o nel vicolo cieco di una recessione senza sbocchi
A proposito di una manovra pasticciata quanto antipopolare
La famosa manovra è stata dunque partorita. Prima della sua approvazione parlamentare verrà certamente limata, ma la sua fisionomia non dovrebbe mutare di molto. Come al solito il governo è stato abile nel confondere le acque. Gli interventi sulla spesa pubblica sono talmente sparpagliati che si rischia di perdere di vista l’essenziale. Giusto per fare un esempio, fa quasi più notizia un provvedimento secondario come la cosiddetta tassa sui Suv – a proposito, siamo stati davvero tranquillizzati dalla notizia che la Porsche Cayenne non la dovrà pagare! – che non del nuovo assalto alle pensioni, ben più pesante di quel che sembra.
Per meglio confondere le idee il governo ha usato due trucchetti. Il primo è quello della «manovra telefonata», di provvedimenti che si dice verranno approvati entro luglio, ma che in buona parte produrranno i loro effetti negli anni a venire, ed in maniera più consistente nel biennio 2013-2014. Il secondo si chiama «riforma fiscale», in realtà una controriforma volta a favorire le fasce di reddito medio-alte, che rimane comunque avvolta in un mare di incertezze. Quali saranno gli scaglioni di reddito? Quali le detrazioni cancellate? Quale l’aumento dell’IVA? Nessuno lo sa e lo deciderà il governo dopo apposita legge delega. L’unica cosa certa sembra l’ennesimo regalo agli evasori, denominato questa volta «concordato preventivo».
Le stesse cifre della manovra appaiono oscure. A fronte degli obiettivi dichiarati (1,5 miliardi di euro nel 2011, 5,5 nel 2012, 20 nel 2013 ed altrettanti nel 2014), assai incerto appare il contributo dei singoli interventi. Si parla di poco meno di 10 miliardi che dovrebbero arrivare dai tagli agli enti locali, di una cifra simile che dovrebbe essere ottenuta con quelli alla sanità, mentre il contributo previsto dagli altri provvedimenti non risulta affatto chiaro.
Siamo dunque di fronte all’ennesima finanziaria antipopolare, ma anche ad una manovra che ben difficilmente soddisferà le richieste dell’Unione Europea. Qualcuno l’ha definita «bomba ad orologeria», altri «manovra elettorale», nel senso che gli effetti più pesanti verranno scaricati sulla prossima legislatura.
E’ un fatto che l’agenzia di rating Standard&Poor’s non ha atteso neppure 24 ore dal passaggio della manovra in Consiglio dei ministri per sparare il suo siluro: l’annuncio della prospettiva del declassamento del debito italiano, al pari di quanto già fatto da Moody’s. La cosa è talmente seria, che la stessa Consob ha convocato le due agenzie di rating per chiedere spiegazioni sulla sfiducia mostrata verso i conti pubblici e quella evidenziata da Moody’s verso 16 banche italiane, più Enel, Eni, Terna, Finmeccanica e Poste Italiane.
Come noto, le agenzie di rating sono tutto fuorché enti imparziali, ma questo non significa che i loro cannoni sparino a salve. Anzi, in genere le loro bordate anticipano i grandi movimenti speculativi pilotati dai centri nevralgici della finanza internazionale. Dato che il famoso e mitico «mercato» così funziona, adottando per un attimo il linguaggio dominante dovremmo dire allora che «i mercati hanno bocciato la manovra».
Vista dalla prospettiva dei centri del potere economico, la finanziaria berlusconian-tremontiana-bossiana appare in effetti come un autentico pasticcio. Del resto, chi potrebbe mai credere che si possa ridurre il debito – come esige perentoriamente l’Europa – ed abbassare nel contempo la pressione fiscale? Così facendo i tagli alla spesa pubblica dovrebbero essere giocoforza ancora più pesanti, ma a forza di tagliare (gli altri PIIGS, Grecia in primis, insegnano) si va sempre più in recessione. E se dalla recessione non si esce il gettito fiscale declina, facendo riaumentare il debito pubblico ed alimentando così un circolo vizioso senza fine.
Sembrerebbe una prospettiva da incubo. In realtà è la fotografia della situazione attuale, dal momento che tra il 2005 ed il 2011 il Pil/pro-capite è diminuito dello 0,9%, e tutti sanno che – anche nella più rosea delle previsioni – occorreranno comunque diversi anni per recuperare i livelli pre-crisi 2008-2009. E tutti gli indicatori ci dicono che la ripresa della «crescita» è di là da venire, ha voglia la Marcegaglia di invocarla come un mantra ad ogni convegno del sabato mattina!
Se questa è la situazione, la domanda da porsi è la seguente: la manovra-pasticcio varata giovedì scorso è figlia solo del disperato tentativo di sopravvivenza di una maggioranza di governo alla frutta, o c’è dell’altro? In altre parole: si tratta solo di una «furbata», o rispecchia anche la difficoltà di rispondere in maniera adeguata ad una situazione alla quale non si sa come far fronte? Come direbbe il comico, «la seconda che hai detto».
La verità è che, come già si era visto nella finanziaria dello scorso anno, si sta raschiando il barile. Da qui la difficoltà a mettere in campo una politica organica, con i relativi interventi strutturali. Restano allora i provvedimenti alla rinfusa, molto spesso perfino contraddittori. Si aumenta la pressione fiscale, ma poi ci si accorge che è troppo alta; si tagliano le spese, ma poi si constata l’inevitabile effetto recessivo; si incentivano le energie rinnovabili, per poi lamentarsi della ricaduta sulle bollette, e si potrebbe continuare.
In questo bailamme spesso si assiste a delle vere e proprie farse. Quest’anno quella più invereconda si è svolta sui cosiddetti «costi della politica». Prima hanno detto di volerli tagliare, poi hanno deciso di non poterlo fare perché i parlamentari mai avrebbero votato contro i loro privilegi… In questa baraonda l’unico punto fermo è la natura di classe delle misure governative. Su questo non c’è governo, di destra o di centrosinistra che sia, che si sbagli: la crisi va fatta pagare alle classi popolari.
Ed ovviamente la finanziaria 2011 non fa eccezione. Se non è difficile capire su chi ricadranno i tagli agli enti locali ed alla sanità, nonché l’allungamento del blocco dei salari nel pubblico impiego, un discorso specifico va fatto sulle pensioni. Per sua natura la previdenza dovrebbe essere un qualcosa di abbastanza stabile, in modo da dare certezze per la stagione più incerta della vita umana, la vecchiaia. Ma così non è. Dopo aver varato – dal 1992 in avanti – una controriforma dietro l’altra, ora siamo al peggioramento costante, anno dopo anno, in dosi solo apparentemente omeopatiche.
Cosa ci riserva in questo campo la manovra economica del governo? Diverse cose, e tutte peggiorative. In primo luogo viene anticipato di un anno l’avvio della revisione dell’età pensionabile in base all’aspettativa di vita, il che significa che già dalla fine del 2013 il momento del pensionamento verrà allungato di almeno tre mesi. In secondo luogo si prevede l’aumento dell’età pensionabile per le lavoratrici del settore privato da 60 a 65 anni. E’ vero che i tempi di questo passaggio sono parecchio diluiti negli anni, ma stabilito il principio non sarà difficile tornarci sopra per accelerare la tempistica. In terzo luogo si prevedono tagli (da precisare) alle pensioni di reversibilità. In quarto luogo, nel biennio 2012-2013, vi sarà un blocco alla rivalutazione delle pensioni in base all’inflazione. Si è detto che questo blocco opererebbe solo sulle cosiddette «pensioni d’oro», una mistificazione facilmente smontabile. Una falsità così evidente che perfino il Corriere della Sera (vedi titolo del 2 luglio) riconosce che la rivalutazione verrà tagliata per le pensioni che superano la soglia di 1428 euro.
Di fronte a questa manovra del governo, come risponde la finta opposizione parlamentare? Certo, essa si lamenta del fatto che gli effetti più consistenti vengano rinviati alla prossima legislatura, ma per il resto ha buon gioco Tremonti a chiedergli quali idee abbia. In effetti non ne ha: le richieste dell’Unione Europea sono dogmi ai quali adeguarsi, punto e basta. I poveretti provano allora a farfugliare qualcosa sul fatto che il governo opera solo tagli senza pensare alla «crescita». In realtà, sanno perfettamente che riduzione del debito e crescita non possono sposarsi, sanno benissimo che il debito altro non è stato che un modo per drogare la crescita. Lo sanno, ma devono fingere di non saperlo, almeno fino a quando non torneranno al governo.
Non cadiamo dunque nel tranello della falsa alternativa tra «finanziaria di destra» e «finanziaria di sinistra», tra «manovra equa» e «manovra iniqua», tra «rigore senza sviluppo» e «rigore con sviluppo». Formule vuote dietro cui ci si trincera per schivare le questioni reali. Il vero bivio che abbiamo davanti è un altro: o fuori dall’Europa, o nel vicolo cieco di una recessione senza sbocchi.
Qualcuno comincia a capirlo, anche nel nostro Paese. Per ora con tanta, troppa, prudenza. Ma è il segno che stiamo arrivando al dunque. Voler restare a tutti i costi nella UE, oltretutto quando è chiaro che l’Unione non potrà reggere a lungo gli effetti della crisi, significa non solo rinunciare ad una politica economica autonoma e sovrana, significa anche impiccarsi ad un debito pubblico totalmente insostenibile.
Le classi dominanti del nostro Paese, così come quelle degli altri paesi maggiormente investiti dalla crisi del debito, hanno scelto di restare agganciate alle oligarchie finanziarie internazionali. Non sanno e non possono fare altrimenti. Ma le classi popolari perché dovrebbero scegliere la strada che le condanna ad un tremendo peggioramento delle proprie condizioni di vita?
L’uscita dall’Unione Europea e l’azzeramento del debito pubblico – un azzeramento, lo ripetiamo a scanso di equivoci, pilotato politicamente per tutelare il piccolo risparmio e l’economia nazionale – sono i due passaggi decisivi per disegnare un’alternativa politica e sociale.
Senza questi passaggi non potrà esserci alternativa alcuna. Chi pensa che si tratti solo di gridare più forte sbaglia. La Grecia insegna che le lotte sindacali, per quanto dure, estese e compatte possano essere, non solo non hanno alcuna possibilità di condurre alla vittoria, ma neppure di limitare i danni per le classi popolari se non sono inserite in un progetto politico di alternativa socialista.
Viva le lotte, dunque, ma quel che serve è una vera rivoluzione democratica che, mettendo al centro una nuova prospettiva socialista, ponga da subito gli obiettivi chiave dell’uscita dall’Europa, dell’azzeramento del debito, della nazionalizzazione delle banche e dei settori strategici dell’economia. Il resto potrà venire solo di seguito.
Se la pasticciata manovra di un governo politicamente allo sbando serve solo a cercare di impedire il boom dei tassi dei titoli di prossima collocazione – e non è affatto detto che ci riesca -, chi ancora crede di poter difendere le condizioni materiali delle classi popolari nell’ambito dell’Europa e di un debito mastodontico da dimezzare, non è meno pasticcione e pericoloso del governo.
Quale sia il futuro per i lavoratori italiani, restando nel quadro europeo e del capitalismo globalizzato, lo scrive proprio Standard&Poor’s: «Alla luce del debole tasso di crescita italiano, riteniamo che saranno necessarie riforme micro e macroeconomiche ben più incisive per incentivare gli investimenti privati e adeguare i livelli salariali alla produttività». Dunque, sacrifici ben più duri e meno salario.
O si esce dall’Europa delle oligarchie o sarà questa la medicina da ingoiare. Tutto il resto è chiacchiera inutile. Il bivio è questo ed occorre scegliere.