In difesa della teoria marxiana del valore (prima parte)

Premessa

Ho studiato, con l’attenzione che meritava, l’intervento di Ennio Bilancini e Giacomo Zuccarini sulla legge del valore dal titolo “Perché la teoria di Marx non funziona” pubblicato il 15 giugno come risultato del seminario interno di Scuola Umbra. Scopo ultimo del loro intervento è dimostrare “matematicamente” che la teoria del valore di Marx è fallace, visto che, secondo loro «i prezzi delle merci [che per i nostri sono meri sinonimi dei valori] non sono proporzionali al valore-lavoro né per quanto concerne la merce singolarmente considerata, né in aggregato». Siccome «… i capitalisti comprano e vendono ai valori di scambio [prezzi], non ai valori-lavoro», i nostri, con sibillino eufemismo, ne deducono, che «… è problematico tentare di determinare il saggio di profitto a partire dai valori-lavoro».

Col che la teoria economica marxiana, dal momento che non spiegherebbe né cosa costituisca il valore della merce, né da dove venga il profitto del capitale, va letteralmente a farsi friggere.

Chi abbia letto la loro critica, avrà notato che essa insiste sull’argomento classico (svolto per primo dal marginalista Bohm-Bawerk nel 1896) per cui le equazioni contenute nel Terzo libro de Il Capitale, al capitolo sulla “Trasformazione dei valori in prezzi” destituirebbero di fondamento la teoria del valore trattata nel Primo e nel Secondo libro. Per i nostri infatti «Le equazioni di Marx sono incapaci di stabilire una connessione logicamente coerente tra il valore-lavoro contenuto in una merce e il suo prezzo in un’economia capitalistica», e quindi “andrebbe abbandonata” la spiegazione marxiana sulla formazione del saggio di profitto.

A questo punto, temendo che anch’io mi metta a disquisire di modelli matematici, temo che i nove decimi dei lettori saranno già scappati. Fermi tutti! Non seguirò i nostri sulla strada dei segni e dei numeri, ovvero della rappresentazione simbolica dei fenomeni sociali. Mi atterrò invece a questi ultimi, ma dividerò la mia risposta in due parti: nella prima proverò a spiegare quali siano i presupposti filosofici, il paradigma teorico e l’apparato cognitivo e metodologico scelti da Marx, senza comprendere i quali non è possibile capire cosa sia la teoria del valore. Nella seconda mi soffermerò sulla teoria vera e propria, e in che senso si possa parlare di legge.

Che scienza è quella economica?

Da tempo è defunta, tanto più nel campo della scienze sociali, l’idea che possa esistere una scienza neutrale, obiettiva, che cioè restituisca come risultato la realtà e i fatti sociali “così come essi sono”. Siamo dunque al noumeno kantiano sull’inconoscibilità della cosa in sé? Per niente. I fenomeni sociali sono invece intelligibili, a condizioni di utilizzare, questo è quello che pensava Marx, e noi siamo con lui, l’unica logica che possa effettivamente afferrarli nel loro incessante divenire, ovvero quella dialettica. Siamo piuttosto al rifiuto che la conoscenza sia un mero rispecchiamento della realtà (errore in cui anche Lenin era incappato), che se fosse così la teoria sociale giusta sarebbe quella che meglio rispecchia, senza interferenze soggettive, il reale storico. Pretesa aleatoria, visto che ogni indagine, prima ancora che un’inferenza, è un’interferenza, un vivisezionare i fatti, uno strappargli tutti i veli fenomenici. A differenza della realtà fisica quella sociale è segnata dal conflitto tra classi, per cui ogni classe è portatrice di una concezione del mondo, tende a rappresentare la società a partire dal proprio angolo visuale. Ogni atto conoscitivo è insomma un incontro dialettico in cui il soggetto conoscente svolge un ruolo attivo e non meramente passivo.

L’economia non sfugge a questa regola aurea. Volendo stare a Kant, per il quale gli oggetti dell’esperienza conoscitiva rinviano a strutture sintetiche a priori, universali e necessarie, potremmo affermare che gli enunciati degli economisti, per quanto questi ultimi vestano i panni sacerdotali dello scientismo, presuppongono sempre l’assunzione di modelli e protocolli a priori, la cui fondatezza scientifica non dipende solo dal loro rigore logico formale, ma dalla efficacia con cui spiegano le cause dei fenomeni sociali, le loro leggi interne, la loro destinazione. Gli economisti, com’è ovvio, non negano che essi posseggano dei modelli, negano che questi loro modelli abbiamo un segno di classe, spacciano i loro enunciati come imparziali, obiettivi. Questa pretesa è falsa: ogni atto conoscitivo è figlio del tempo, dell’ambiente sociale e delle idee in esso dominanti, esso è anche un atto partigiano. Un’equazione matematica o un’inferenza logica possono sì non avere un segno di classe, ma i modelli e i paradigmi che esse sottendono no.

«Se e in quanto tale critica [la sua propria dell’economia politica borghese, Nda] rappresenta una classe, può rappresentare solo la classe la cui funzione storica è il rovesciamento del modo capitalistico di produzione, e, a conclusione, l’abolizione delle classi: cioè il proletariato». [K.Marx, Il capitale, p.24, Editori Riuniti 1973]

Definiamo per l’intanto l’oggetto della nostra indagine, l’economia. Stiamo parlando di una sfera specifica, quella che riguarda la produzione, lo scambio e la distribuzione e quindi il consumo di beni la cui qualità è quella di soddisfare i molteplici e mutevoli bisogni di una determinata comunità umana. L’economia è quindi un processo storico sociale, non appartiene alla natura, per quanto anche quest’ultima conosca un ricambio organico tra mondo vegetale e animale, tra le specie.

L’economista indaga dunque i meccanismi, ed eventualmente svela le leggi, per mezzo dei quali la società produce, scambia, distribuisce e consuma i beni e come questa produzione incessante crei a sua volta bisogni sempre nuovi.

C’è tuttavia un fondamento su cui poggia l’economia che pretende di essere scienza. La domanda prima a cui essa deve rispondere e che mette alla prova la sua plausibilità scientifica è la spiegazione dell’origine della ricchezza, ovvero da dove provenga il surplus.

Ebbene, proprio nella risposta a questa domanda essenziale le strade degli economisti si dividono in maniera antitetica: per gli economisti borghesi è il Capitale la fonte da cui sgorga la ricchezza sociale, per i marxisti, al contrario, questa è costituita dal lavoro e solo dal lavoro. Da due secoli queste due scuole, armate dei loro rispettivi modelli, si combattono senza sosta e tutti i tentativi di mediazione, compreso quello nobile di Sraffa, andati ramengo. Ma da dove viene questa irreconciliabilità se non appunto dall’antagonismo di classe che costituisce il sostrato della società capitalistica? Alla fine il capitalista, e con lui la pletora degli economisti accademici, resta convinto che il profitto che intasca è la giusta remunerazione del suo investimento, mentre i marxisti riterrànno che quel profitto è l’equivalente del plusvalore prodotto dai lavoratori salariati, del lavoro eccedente che essi sono costretti, pena la fame, a fornire gratuitamente. Insomma, quello che per il capitale è uno scambio tra eguali, per il lavoratore è uno scambio diseguale.

Da Aristotele a Marx

Bilancini e Zuccarini sulla falsariga dei marginalisti, abbordano la questione del valore partendo dai prezzi, ovvero dall’atto finale del processo economico, dal consumo. In questo approccio, se ne avvedano o meno, essi compiono già una scelta di modello teorico, non solo quindi metodologica ma gnoseologica. Compiono cioè il percorso inverso rispetto a quello scelto da Marx, che scendeva a valle partendo dal monte, dal luogo ove la ricchezza sociale viene creata, dalla produzione, e che scoprono? Scoprono che in questo tragitto i conti non gli tornano, che la tesi per cui il valore delle merci dipende dal lavoro socialmente necessario (o astratto) in esse incorporato non ha validità scientifica.

È palese che non si possa giungere alle medesime conclusioni di Marx, usando un altro modello teorico, così come non si può condividere la validità di un enunciato considerate fallaci le sue premesse logiche. In termini matematici: la soluzione di un’equazione dipende sempre dal valore dei fattori che figurano nell’equazione.

Ma qual è il modello teorico adottato da Marx? Egli, pur considerando il ciclo economico un processo circolare (produzione-scambio-circolazione-consumo) non sceglie a caso di iniziare la sua indagine dal suo momento iniziale, dalla produzione, invece che dal consumo o dai prezzi, ovvero dalla sua conclusione. Lo fa sulla scia dei grandi filosofi europei, da Aristotele fino a Hegel. Egli assume quattro proposizioni metodologiche ed epistemologiche decisive. La prima, che potremmo definire genetica, per cui l’analisi deve sempre partire dall’origine causale di un fenomeno (nel nostro caso la produzione); la seconda, per cui ogni oggetto, tanto più se questo è un fenomeno sociale, possiede una sua sostanza; la terza è che questa sostanza non si manifesta quasi mai limpidamente all’osservazione, nella sua forma fenomenica; la quarta è che scienza è solo quella che scarnifica l’oggetto d’indagine, superando il velo fenomenico per svelarne la sua sostanza.

Queste quattro proposizioni fanno quel che si dice un modello teorico.

Il paradigma marxiano

Il punto di partenza della concezione storico-materialistica di Marx è la sua concezione dell’uomo, che egli, contro le robinsonate in voga nel Settecento, riprende direttamente da Aristotele: «L’uomo è nel senso più letterale del termine un animale politico, non solo un animale sociale, bensì un animale che può isolarsi solo nella società. La produzione dell’individuo isolato all’esterno della società è una assurdità pari al formarsi di un lingua senza che esistano individui che vivano e parlino assieme». [K. Marx, Grundrisse, p.6]

E sono proprio il lavoro, la produzione materiale o “processo lavorativo” per soddisfare i propri bisogni che in prima istanza fanno dell’unico bipede anche un animale politico e sociale. Lavoro come attività produttiva, come prassi finalistica, messa in moto per soddisfare bisogni non più solo naturali o biologici ma sociali, non solo materiali ma immateriali. Una prassi che per estrinsecarsi implica non solo una comunità vivente, una vita associata, una divisione del lavoro, ma pure che esistano mezzi e strumenti di produzione che non gli sono stati consegnati dalla natura, ma che sono risultato di un’autoproduzione comunitaria.

«Il primo atto storico di questi individui, attraverso cui si distinguono dagli animali, non è che pensino, bensì che si mettano a produrre i loro mezzi di sussistenza». [K.Marx, L’ideologia Tedesca, in “Sulle società precapitalistiche”, p. 99, Feltrinelli 1970]

Questo affermava il giovane Marx, nel momento in cui si stava liberando del materialismo naturalista feuerbachiano. E non è un caso che Marx abbia cancellato questa frase dal suo manoscritto. Ma chiediamoci: come possono gli uomini produrre i loro mezzi di sussistenza senza prima immaginarli e pensarli? Come può darsi prassi creatrice senza prima essere stata pensata? Che prassi è quella che non muove da uno scopo e che non è sorretta da teoria?

Così, vent’anni più tardi, proprio ne Il capitale, Marx si sentì in dovere di tornare sulla questione (perdonatemi la lunga citazione ma la considero imprescindibile:
« In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo per mezzo della propria azione produce, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa facoltà che in questa sono assopite e assoggetta il giuoco delle loro forze al proprio potere. Qui non abbiamo da trattare delle prime forme di lavoro, di tipo animalesco e istintive. Lo stadio nel quale il lavoro umano non s’era ancora spogliato della sua prima forma di tipo istintivo si ritira nello sfondo lontano delle età primitive, per chi vive nello stadio nel quale il lavoratore si presenta sul mercato come venditore della propria forza-lavoro.
Il nostro presupposto è il lavoro in una forma nella quale esso appartiene esclusivamente all’uomo. Il ragno compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera.
Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nell’idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente. Non che egli effettui soltanto un cambiamento di forma dell’elemento naturale; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà… Una volontà conforme allo scopo». [K- Marx, Il capitale, volume primo pp. 195-96, ibidem]

Abbiamo qui, io penso, il paradigma a cui è ancorata la concezione materialistica della storia, il presupposto ontologico della arcinota e pur precedente Introduzione del 1959. Non abbiamo un filosofema, una speculazione idealistica sull’essenza umana: il pensiero è sì l’elemento che contraddistingue l’uomo, ma solo nella misura in cui dischiude una prassi finalizzata ad un scopo, dove la madre di ogni prassi è appunto il lavoro, la produzione finalizzata a realizzare dei bisogni sociali. Non una metafisica della natura umana, in quanto attraverso la prassi gli uomini cambiano la loro stessa natura. È in questo senso che si deve affermare che la natura umana è una natura storica.

Quanto Marx scrisse nel Capitale l’aveva anticipato qualche anno prima:

«Nello stesso atto produttivo mutano non solo le condizioni oggettive, ad esempio il villaggio si trasforma in città, la boscaglia in terreno arativo ecc., ma mutano anche i produttori in quanto estrinsecano nuove qualità, sviluppano e trasformano se stessi attraverso la produzione, creano nuove forze e nuove concezioni, nuovi modi di traffico, nuovo bisogni e un nuovo linguaggio». [K. Marx, Grundrisse, p. 474, Einaudi 1976]

E ne Il capitale precisa:

«Quindi il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile, è una condizione d’esistenza dell’uomo, indipendentemente da tutte le forme della società, è una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura, cioè la vita degli uomini». [K.Marx, Il capitale, volume primo, p. 55, ibidem]

Ecco quindi il paradigma che Marx pone alla base della sua teoria del valore: quale che sia la formazione sociale o il livello di sviluppo delle sue forze produttive, fatta salva la natura, il lavoro è una costante, è comunque e sempre la fonte della ricchezza sociale, quale che sia la forma specifica in cui essa si presenta, quale che sia il criterio con cui viene ripartita nella società.

Produzione e lavoro, non certo il consumo, sono dunque i fondamenti del processo economico, di cui i prezzi non sono che l’epifenomeno. In questo Marx non compie alcuna rivoluzione copernicana, egli si limita a salire sulle spalle di chi l-aveva preceduto. In altro consiste la sua rivoluzione nel campo delle scienze economiche (lo spiegheremo nella seconda parte). E’ vero semmai che la teoria marginalista, ponendo il consumo finale e le preferenze del consumatore a base del valore delle merci, compie una vera e propria controrivoluzione copernicana.

Alla fine le tesi sviluppate da Ennio e Giacomo si riducono a questo: che se guardiamo a come si formano i prezzi sul mercato, non c’è traccia di plusvalore, e quindi il profitto non nascerebbe da pluslavoro, da lavoro non pagato, ma dalla facoltà del capitalista di incorporare nel prezzo finale, al fine di assicurarsi la propria remunerazione, una frazione supplementare rispetto ai costi di produzione. Salta così la categoria stessa di sfruttamento: il capitalista ottiene il suo reddito, l’operaio il suo.

In verità i nostri concludono, che la loro critica «… non implica affatto abbandonare l’idea che i lavoratori siano sfruttati (del resto lo erano anche gli schiavi senza che esistesse il profitto e il capitalismo). Significa però riformulare la teoria dello sfruttamento in termini diversi. Il profitto può sempre essere pensato come reddito tolto ai lavoratori in modo illegittimo, basta mostrare che i capitalisti riescono ad imporre ai lavoratori di ricevere un salario inferiore rispetto al loro contributo alla produzione (cosa, a pensarci bene, non troppo complicata, vista l’asimmetria in termini di potere contrattuale a causa del possesso dei mezzi di produzione da parte dei capitalisti)».

Da qui, non me ne vorranno, si capisce che i nostri non solo non hanno studiato attentamente l’opera di Marx, ma che sono prigionieri di una concezione della storia molto lontana da quella materialistico-rivoluzionaria. I nostri commettono lo stesso grave errore degli economisti borghesi, da Smith in poi: essi non vedono la differenze specifiche, sostanziali, che distinguono il modo capitalistico di produzione da quelli che l’hanno preceduto, eterizzano il capitalismo, non ne colgono la natura storica determinata e transitoria, non sono quindi in grado di coglierne le specifiche leggi di movimento.

Ecco come Marx inquadra il problema:

«Il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale l’operaio sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, gli costa certo lavoro, dispendio di forza-lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa, e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il plusvalore è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice lavoro oggettivato. Solo la forma per spremere al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; p. es. la società della schiavitù da quella del lavoro salariato». [K. Marx, Il capitale, volume primo, pp 236-37, ibidem]

Per essere più precisi:

«Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento, tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, sia esso nobile ateniese, teocrate etrusco, vicis romanus, barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno o capitalista» [K. Marx, Il capitale, volume primo pp.255-56. Editori Riuniti 1973]

Solo col capitalismo la produzione di merci diventa dominante, generale; solo col capitalismo i mezzi di produzione diventano capitale, e solo col capitalismo la creazione del valore di scambio, fino a prima relegato a parte infima o minoritaria, diventa il vero e proprio motore del processo economico. Ergo: solo cogliendo le ragioni di questo salto qualtitativo si può comprendere la specificità del modo capitalistico di produzione, mettendo in luce le sue peculiari leggi di movimento. Il modello fatto loro da Bilancini e Zuccarini ha infatti questo difetto principale, che esso non spiega cosa sia il capitale, quale sia la sua determinatezza storica. Capitale non e’ ogni somma di denaro, che se ne puo’ star fermo, tesaurizzato in maniera improduttiva, ma solo quella che mette in moto il processo produttivo per creare valori di scambio, quella cioè che si valorizza grazie al lavoro salariato. Come non si può confondere il lavoro prestato da uno schiavo o da un servo della gleba con quello del proletario moderno, così non è lecito considerare capitale l’aratro del contadino babilonese o gli attrezzi di lavoro del fabbro ateniese.

(fine prima parte)