Non ci piacciono i giri di parole: la Freedom Flotilla 2 è stata un insuccesso, una sconfitta per chi vi ha lavorato per un anno, un esito negativo per i palestinesi, in particolare per quelli di Gaza.
Sia chiaro, sapevamo tutti del rischio che le imbarcazioni venissero bloccate a terra, ma il modo in cui l’operazione è stata gestita ha trasformato questo scenario in una disfatta. Se l’impegno e la determinazione di centinaia di attivisti presenti in Grecia non vanno certo sminuiti, la direzione politica che si è affermata è stata semplicemente disastrosa.

A qualcuno questa critica potrà sembrare eccessiva, ma noi abbiamo il dovere di guardare in faccia la realtà, di capire gli errori, di avviare un bilancio serio come base necessaria per il rilancio dell’iniziativa a sostegno della causa e della resistenza palestinese. Speriamo che anche altri lo facciano, magari con analisi diverse dalla nostra, ma senza nascondere la polvere sotto il tappeto. Avendo preso parte fin dal primo istante alla Freedom Flotilla 2 (FF2) questo dovere lo sentiamo, anche perché qui non si tratta di polemizzare con questo o quello, quanto di interrogarci sulle prospettive future.

Già agli inizi di giugno avevamo segnalato (vedi Freedom Flotilla 2: un sostegno incondizionato, una critica doverosa) i problemi presenti sia nella coalizione internazionale che in quella italiana. Scrivevamo allora in premessa che «Affrontare i problemi è l’unico modo noto di risolverli. Discuterne apertamente è il modo migliore per affrontarli». Quel che valeva allora, vale a maggior ragione oggi.

Come si è arrivati al blocco della FF2

Chi abbia seguito le mosse di Israele nei mesi scorsi, di cui questo sito ha ampiamente parlato, si sarà reso conto di una manovra a largo raggio, tendente a far schierare tutti i paesi occidentali, l’Onu, ed alla fine la stessa Turchia. Israele sapeva di non poter ripetere l’azione dello scorso anno, ed allo stesso tempo non intendeva certo far arrivare la FF2 a Gaza. Dunque, l’unica linea vincente per il governo Netanyahu era quella di impedire alla Flottiglia di salpare. Una linea che ha avuto via, via, l’avallo americano ed europeo, quello di Ban Ki Moon e del «Quartetto per il Medio Oriente», fino ad arrivare al governo di Ankara.

Qual è stata la risposta del direttivo internazionale della FF2 a queste manovre? Semplicemente non c’è stata. Si è ribadito, giustamente, il diritto di salpare come quello di arrivare a Gaza, ma senza prendere le dovute contromisure di fronte alla manovra a tenaglia che si è venuta sempre più dispiegando. I piani concepiti nell’estate 2010 non hanno subito modifiche, come se si fosse stati convinti che almeno il diritto a salpare non sarebbe stato cancellato. Alla fine – e qui si è raggiunto veramente il colmo – ci si è chiusi irresponsabilmente nel «fortino» greco, come se non fosse evidente che la Grecia, per le ben note vicende economiche, era l’ultimo paese a poter emettere un benché minimo segnale di autonomia e di sovranità politica rispetto agli Usa ed all’Unione Europea.

Non si vincono le guerre con i piani di battaglia della guerra precedente. Non si poteva sfuggire alla manovra sionista senza ridisegnare una linea capace di rispondervi. In altre parole: lo schema definito un anno fa andava quanto meno adattato alla nuova situazione, tanto più dopo il dietrofront turco ufficializzato a metà giugno.

Qualcuno dirà che la partenza sarebbe stata comunque impossibile, vista la forza e l’ampiezza dello schieramento avverso. E’ possibile che sia così, ma certamente la prima contromossa da fare – e chi scrive lo ha sostenuto insieme ad altri, ma senza successo, nel coordinamento italiano della FF2 – sarebbe stata quella di spostare le navi nei principali paesi europei. Da lì, non dalla Grecia, farle partire sfidando i governi italiano, spagnolo, francese, tedesco ed inglese. Forse il blocco sarebbe stato comunque imposto, ma per questi governi sarebbe stato comunque un po’ più doloroso perdere la faccia alla maniera di Papandreu.

In ogni caso, di fronte al blocco, ben diversa avrebbe potuto essere la mobilitazione per rimuoverlo. Si sarebbe chiamata in causa la responsabilità politica di diversi governi e la stessa dignità nazionale di diversi stati. Ben più partecipate sarebbero state le manifestazioni di protesta, anche perché – diciamolo chiaramente – la protesta contro il governo di Atene è stata sì sacrosanta, ma anche un po’ curiosa, dato che era del tutto evidente che la Grecia era solo l’ultimo, debolissimo, anello della catena di comando che ha trasmesso gli ordini del governo sionista che occupa la Palestina.

Si poteva dunque fare assai meglio. Ma qui la critica non è di tipo tecnico, bensì politico, dato che dietro a tanto immobilismo si celava in realtà una precisa concezione politica. Quella che (vedi articolo già citato) abbiamo definito del «basso profilo».

Il «basso profilo» che a niente è servito

Scrivevamo agli inizi di giugno che: «Abbassare il profilo della FF2, imbarcare una delegazione “politicamente corretta”, non è soltanto inaccettabile, il che è ovvio; è anche totalmente sbagliato dal punto di vista delle prospettive future del movimento a sostegno della causa palestinese». Quel che denunciavamo in concreto, e che ci ha portato alla dissociazione dal coordinamento italiano, era la chiara volontà di emarginare la componente antimperialista ed antisionista, nonché quella delle comunità palestinesi e musulmane.

Questa linea opportunista e perdente non è stata tanto il frutto delle varie componenti italiane – tutte con scarso peso nella coalizione – quanto piuttosto la conseguenza dell’egemonia del Free Gaza Movement nel direttivo internazionale. Ed è il Free Gaza, che ha avuto la direzione effettiva della FF2, il principale responsabile tanto del suo fallimento, quanto del profilo politico imposto ad una coalizione nel suo insieme assai più radicale ed antisionista. Dentro questa linea hanno trovato spazio posizioni chiaramente islamofobe, a riprova di come il «politicamente corretto», anche nella sua versione di «sinistra», sia sempre subalterno al pensiero ed all’ideologia dominante.

I fautori più spinti di questa tendenza sono arrivati a proporre l’imbarco della Tv israeliana. Questa proposta è stata respinta, ma il fatto che se ne sia seriamente discusso è già un indicatore piuttosto preciso. Altrettanto illuminante è stata la vicenda di Amira Hass, la giornalista di Haaretz che avrebbe dovuto imbarcarsi sulla FF2 (vedi L’indifendibile Amira Hass).

Nei caldi giorni della seconda metà di giugno la Hass firmava un articolo contenente delle gravissime accuse nei confronti di due tra i principali organizzatori della FF2. Questa provocazione (si parlava, tra l’altro, di armi chimiche a bordo) veniva da una portavoce dell’esercito israeliano. Ma la Hass se da un lato evitava ogni commento, dall’altro non si degnava neppure di dare il diritto di replica agli accusati. E sì che la stessa Hass li aveva perfino incontrati alla conferenza stampa della FF2 ad Atene!

Il suo ruolo era così chiaro che gran parte degli attivisti presenti in Grecia non l’avrebbe  più voluta a bordo. E questo era il minimo che ci si potesse attendere. D’altro parere invece il direttivo internazionale, mentre una componente del coordinamento italiano si arrogava il diritto di attaccare la corrispondenza di Moreno Pasquinelli da Corfù, che sul caso Hass aveva il gravissimo torto di porre la seguente domanda: «Vi pare possibile che chi dà una simile coltellata alle spalle alla FF2, inventando di sana pianta una pesantissima accusa, possa continuare a far parte della FF2?».

Questa domanda, che sarà parsa perfino ovvia a qualsiasi persona normale, risultava invece inammissibile per i gestori del sito italiano della FF2, i quali non si erano invece degnati di difendere chiaramente i bersagli dell’articolo di Haaretz, tra i quali Mohammad Hannoun, presidente dell’ABSPP (Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese) e dell’API (Associazione Palestinesi d’Italia), due associazioni senza le quali la nave italiana non sarebbe semplicemente esistita.

Se la gravità di questo atteggiamento si commenta da sola, il «basso profilo» – basso verso i sionisti, quanto aggressivo nei confronti degli antimperialisti – non è servito a niente. Il blocco era deciso e niente poteva servire, ma in questo modo Israele ha bloccato non solo le imbarcazioni ma anche la necessaria solidarietà politica con la popolazione di Gaza assediata.

A ulteriore dimostrazione di quanto andiamo dicendo, bisogna ricordare la vicenda della «Dichiarazione» richiesta ad ogni passeggero della FF2. Con questa dichiarazione si intendeva impegnare ognuno «a non rispondere, a nessuna condizione, all’eventuale aggressione da parte dei soldati israeliani, che non deve reagire ai soldati anche se viene pestato con brutalità» (vedi Così è…ma non ci pare). Ovvio che la missione della FF2 fosse di natura non-violenta; insensato invece voler imporre un documento che arrivava a negare l’universale principio della legittima difesa.

A questo si è arrivati, ma a niente è servito: vogliamo trarne qualche lezione o preferiamo mettere la testa sotto la sabbia?

E ora?

Fin qui i fatti ed il giudizio su di essi. Ma è al futuro che bisogna guardare. Ogni iniziativa, ogni manifestazione, ogni missione a sostegno della causa palestinese va misurata in base ai risultati. Da qui il dovere della critica e dell’autocritica. Non sempre si è responsabili dei propri insuccessi. Vi sono casi in cui i rapporti di forza non lasciano scampo. E tuttavia è sempre sbagliato non guardare in faccia i propri errori. Se poi, oltre agli errori si è di fronte anche ad una linea politica non condivisibile, è chiaro che – almeno per quanto ci riguarda – occorre cambiare strada.

Continuiamo a leggere in questi giorni comunicati trionfalisti sulla FF2. C’è chi sembra accontentarsi di aver fatto parlare di Gaza per qualche giorno. Non possiamo condividere questo atteggiamento. Anzi, esso ci segnala la volontà di persistere su una linea che si è rivelata assolutamente perdente. Per noi il sostegno alla Palestina deve produrre dei risultati, pratici e politici. Se non siamo in grado di produrne di pratici, che almeno si lavori su quelli politici. Cosa che nella FF2 è stata impossibile dato il carattere quasi «apolitico» che si è voluto imporre.

Scrivevamo un mese fa che: «Quale sia il nodo politico ce lo dicono i nostri avversari, che alla fine sanno usare un argomento e soltanto quello. Qual è questo “argomento”? Che a Gaza governa Hamas ed Hamas è un'”organizzazione terroristica” sulle liste nere americana ed europea.
Si può rispondere a questo argomento facendo finta che non ci riguardi? Noi pensiamo che sia assurdo, peggio opportunistico ed in definitiva ridicolo oltre che controproducente».

Assurdo, opportunistico ed anche ridicolo, eppure è proprio quel che è avvenuto. Lo abbiamo denunciato per tempo, pur continuando a sostenere la FF2 per il suo valore intrinseco, per le aspettative che aveva suscitato, per portare a termine nel migliore dei modi un’impresa che nel nostro piccolo abbiamo contribuito a costruire. Ora, però, è il momento di cambiare strada.

Il cambiamento – e qui ci riferiamo in maniera specifica all’Italia – potrà venire solo con un bilancio sereno ma serio sulla FF2; con la costruzione di una nuova coalizione, larga, ma sedimentata a partire da una piattaforma chiaramente antisionista; con l’individuazione dei terreni di azione per il prossimo futuro.

Se sul primo punto c’è poco da aggiungere a quanto già scritto, se il secondo dipende da come si svilupperà la discussione nell’insieme delle forze filo-palestinesi, è sul terzo che ci sentiamo di dire due cose. La prima è che bisogna individuare i modi per far sentire la solidarietà concreta al popolo di Gaza, che rimane l’epicentro dell’oppressione sionista, il luogo simbolo in cui bisogna sconfiggere Israele arrivando alla fine dell’assedio. La seconda è che occorre rilanciare il sostegno alla Resistenza palestinese, non dimenticandosi mai che Gaza è assediata proprio per aver scelto democraticamente le forze della Resistenza anziché quelle della capitolazione.

Non siamo per niente convinti che si debba continuare con le flottiglie. Esse richiedono molto tempo, denaro ed un impegno spropositato che darebbe risultati migliori se speso in altre direzioni. E’ possibile pensare ad azioni di sostegno continuativo a Gaza, sia attraverso la presenza nella Striscia che con l’invio di convogli terrestri? Noi pensiamo di sì. I fatti ci dicono di sì, anche se sarebbe sbagliato sottovalutare le difficoltà.

Di questo dovremo discutere con tutti quelli che avvertono l’esigenza di rilanciare l’iniziativa al più presto. Non fermandosi all’aspetto umanitario, ma legandolo agli obiettivi politici: la fine dell’assedio, la cancellazione delle liste nere, il riconoscimento del legittimo governo di Hamas. Obiettivi necessari per dare un futuro alla lotta di liberazione del popolo palestinese.

Questo è quel che pensiamo, ma saremo ben felici di confrontarci con altre idee, altre proposte. L’importante è che si impari dagli errori, che si aprano nuove strade, che si costruisca una nuova unità. Per la liberazione della Palestina, unica e indivisibile; contro l’inganno dei «due stati» che serve solo a coprire l’espansione del mostro sionista; per il pieno sostegno alla Resistenza, senza la quale lo stato razzista di Israele avrebbe già portato a termine la sua opera di annientamento.