Lo scontro interno ai «bengasini» nel momento della massima difficoltà, per loro e per la Nato

A 48 ore dall’annuncio della sua uccisione, è arrivata la versione ufficiale del Cnt (Consiglio Nazionale transitorio) di Bengasi: Abdel Fatah Younes (foto) sarebbe stato ucciso da un gruppo di «ribelli» andati ad arrestarlo. Questo è quanto ha dichiarato alla stampa un altro membro del Cnt, Ali Tarhouni. Secondo questa ricostruzione, i miliziani sarebbero stati inviati a Marsa el-Brega per condurre Younes a Bengasi, dove sarebbe dovuto comparire davanti a quattro magistrati per essere interrogato su non meglio precisate «questioni militari».

Younes era il capo militare dei «bengasini», un personaggio di primissimo piano passato con i rivoltosi della Cirenaica dopo una vita vissuta a fianco di Gheddafi, di cui era stato ministro dell’interno – in pratica il numero due del regime – fino al febbraio scorso. Se la versione del Cnt lascia comunque aperti molti interrogativi, una cosa appare certa: la morte di Younes cade in un momento di grande difficoltà per le forze filo-Nato, rivelando anche una significativa frattura interna ad esse.

Il Cnt non dice per quali motivi era stato deciso l’arresto di Younes, né spiega il perché sarebbe stato ucciso. Si dice che il generale fosse sospettato di tenere, in qualche modo, contatti con Tripoli. Forse di aver iniziato una vera e propria trattativa con Gheddafi. Fatto sta che anziché finire davanti ai magistrati è stato spedito direttamente al cimitero. Forse non sapremo mai il perché di questa esecuzione, ma di sicuro la spiegazione del Cnt fa acqua da tutte le parti.

Secondo Tarhouni, il capo dei miliziani avrebbe «confessato», attribuendo però tutta la responsabilità dell’accaduto ai suoi luogotenenti, guarda caso tutt’ora latitanti. Ora, le truppe bengasine sono quanto di più disorganizzato si possa immaginare, la loro incapacità è palese, ma come si può credere ad una simile ricostruzione? Se la volessimo prendere sul serio, avremmo che: a) il Cnt manda ad arrestare il proprio capo militare un gruppo di miliziani, si suppone scegliendoli tra i più sicuri e capaci; b) il gruppo riesce nell’arresto, ma c) una parte dei miliziani lo uccide. Se così fossero andate davvero le cose, avremmo che il gruppo incaricato dell’operazione era del tutto inaffidabile non solo nei confronti del Cnt, ma anche del proprio comandante. Un po’ troppo anche per dei combattenti assai improbabili come quelli dell’esercito «bengasino».

In tutta evidenza i casi sono due: o l’ordine di uccidere Younes è partito direttamente dal Cnt, o è venuto quantomeno da una parte di esso. In un caso come nell’altro quel che viene fuori è la frattura interna al consiglio di Bengasi. Rottura politica o semplice spaccatura per linee tribali? Forse l’una e l’altra cosa insieme, senza escludere per niente un ruolo delle forze imperialiste che stanno bombardando la Libia.

La tribù Obeide, alla quale apparteneva Younes, sembra in rotta con la leadership di Abdel Jibril, quest’ultimo risolutamente contrario a negoziati ed impegnato invece a convincere la Nato ad intensificare i bombardamenti. Membri della tribù degli Obeidi – una delle più grandi della Cirenaica –  hanno accusato esplicitamente Jibril per la morte del loro leader, i cui funerali si sono svolti in un clima di grandissima tensione.

A dare corpo all’ipotesi di un ruolo delle forze Nato, c’è il fatto che il rivale più acerrimo di Younes è stato in questi mesi il generale Khalifa Hifter, fuggito negli Usa nel 1987 – cioè subito dopo il bombardamento americano di Tripoli dell’aprile 1986 – e universalmente considerato un uomo della Cia.

Comunque siano andate le cose il caos nelle forze bengasine sembra al massimo. E’ un caos militare, basti pensare ai continui annunci di offensive e conquiste di cui non c’è riscontro. E’ un caos politico perché il fallimento della «marcia su Tripoli» mette in difficoltà la Nato, che vuol vincere la guerra, ma senza arrischiare l’azione terrestre, determinando così una situazione senza sbocchi, che gli aggressori vorrebbero sbloccare con l’omicidio di Gheddafi, che non a caso hanno ripetutamente tentato.

A questo è arrivata la guerra che il segretario generale della Nato, Rasmussen, dice di voler proseguire «fino a quando Gheddafi continuerà a minacciare i civili». Siamo ormai alle frasi fatte, frasi alle quali nessuno crede, frasi senza alcun riscontro con la realtà. Intanto ieri tre giornalisti sono morti, ed altri 15 sono stati feriti, in un bombardamento della Tv libica a Tripoli…

La confusione regna in Libia ed ogni previsione rischia di essere rapidamente smentita. Se lo scenario somalo sembra avvicinarsi, in questo momento il caos sembra però assai più forte nel campo dei «bengasini» piuttosto che in quello dei sostenitori di Gheddafi. L’aggressione occidentale ha risvegliato uno spirito nazionale ed anticoloniale, mentre tra le milizie della Cirenaica – che si erano illuse di poter conseguire una facile vittoria grazie ai bombardamenti della Nato – il morale è a pezzi.

La faida che ha portato all’uccisione di Younes va inquadrata in questo contesto, di fronte ad un dato che parla da solo: dall’inizio dell’attacco Nato il territorio controllato dai «bengasini» è diminuito del 20%. Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi!