Nella carta a fianco il puzzle delle etnie nel Sudan

Abbiamo scritto più volte sulla complessa vicenda del Sudan. Chi ha avuto modo di leggere i nostri articoli sui numerosi focolai di conflitto di questo immenso stato africano, sa che non abbiamo creduto che l’indipendenza formale del Sud Sudan, sancita col referendum del gennaio scorso, avrebbe davvero portato la pace in questo paese martoriato. Martoriato sì dalle lotte intestine tra i diversi gruppi etnici, tra le svariate tribù, ma sul cui fuoco soffiano le grandi potenze imperialistiche, allo scopo di spoliare il paese delle sue grandi risorse, non solo petrolifere.

La nostra tesi è questa: queste potenze non si accontenteranno di aver staccato il Sud da Khartoum. Esse puntano a frantumare il paese in piccoli e deboli staterelli vassalli. Per questo, dicevamo, continueranno a sostenere non solo le guerriglie nel Darfur, ma pure quelle del Kordofan, dei Monti Nuba, del Nilo Blu, come pure delle province orientali che si affacciano sul Mar Rosso.

Questo è il disegno strategico, che però deve tener conto, non solo della resistenza del regime sudanese, ma pure delle fratturazioni vistose nel campo dei nemici di al-Bashir. Infatti, tra il referendum per l’indipendenza del Sud e la cerimonia ufficiale con cui si è dato vita a questa nuova surreale entità nazionale (il 9 luglio scorso), svariati incidenti sono esplosi tra milizie sudiste contrapposte. A febbraio, quando erano ancora in corso i festeggiamenti per la vittoria schiacciante dei Sì al referendum per l’indipendenza, scontri armati avevano opposto i soldati del Sudan People’s Liberation Army (SPLA), e le milizie dello scissionista George Athot (Time world del 12 febbraio 2011). Nel SPLA, così come nel nuovo stato, l’etnia dei Dinka è quella decisamente egemone, e ciò causava e continuerà a causare attriti molto forti. La posta in palio è alta: le ricchezze petrolifere del paese e come esse andranno distribuite. Tutte le etnie e le tribù non Dinka, ognuna delle quali ha la propria milizia, denunciano di essere discriminate dai Dinka e, in barba ad un sentimento patriottico di fatto inesistente, hanno continuato in questi mesi a dare battaglia. Durissimi scontri erano riesplosi nel marzo, anche nello stato dell’Alto Nilo (Al-Jazeera del 12 marzo 2011).

A questo si aggiunga che a cavallo del nuovo confine vivono da secoli tribù nomadi di linga araba. Tribù dedite all’allevamento e alla pastorizia e dunque obbligate alla transumanza, a spostarsi in base alle stagioni delle piogge, ai pascoli e alla disponibilità di acqua (che qui non è meno preziosa del petrolio). I nuovi confini, mettendo a repentaglio la sopravvivenza delle mandrie e di queste popolazioni, sono fattore di conflitto permanente tra i nomadi, sostenuti da Khartoum, e le popolazioni nere sedentarie dedite all’agricoltura sostenute dal SPLA. Nell’aprile scorso, dopo varie scaramucce, gli scontri tra le tribù causarono decine di morti e centinaia di feriti. (BBC News, 25 aprile 2011). Scontri che si sono ripetuti a più riprese. Si tenga conto che le regioni di attrito per pascoli e acqua tra i nomadi arabizzati e le tribù sedentarie dedite all’agricoltura, sono le stesse della provincia contesa di Abyei, nel cuoi sottosuolo ci sono i maggiori giacimenti petroliferi, nonché i pozzi da cui esso fluisce verso il Mar Rosso.

Proprio ieri, 23 agosto, il governo del Sud Sudan ha ufficialmente annunciato che dopo giorni di furiosa battaglia (si parla di 600 morti e 750 feriti) i soldati del SPLA hanno messo in fuga le milizie ribelli che avevano occupato la città di Kaka, nell’Alto Nilo. La città era stata conquistata una settimana prima da una coalizione di guerriglieri di cui il SPL ha fatto nomi e cognomi: Younis Akec, Olony, Gordon Koang, George Athor, Ayuok Ogad, Abdel Bagi Ayii. (Sudan Tribune, 23 agosto 2011).

Juba, ovvero il governo del Sud Sudan, ha accusato il regime di Khartoum, di sostenere militarmente le milizie messe in fuga. Segno che la separazione consensuale del gennaio scorso, non ha posto fine davvero al conflitto e che questo dissidio potrà essere rialimentato dalla potenze occidentali, le quali non cessano nemmeno di far leva sui gruppi armati del Darfur, il Jem (Movimento per la Giustizia e l’Eguaglianza) anzitutto, entrato in una fase di difficoltà a causa della guerra civile in Libia. L’esito del conflitto libico avrà infatti delle inevitabili conseguenze sulle sorti di quelli in Sudan. Come da noi segnalato la guerriglia darfuriana ha sempre goduto dell’obliquo sostegno del regime di Gheddafi, su questo fronte allineato con gli imperialisti contro Khartoum. Di qui, di converso, il sostegno che il governo di al-Bashir ha fornito e continua a fornire alle forze islamiste che fanno parte della coalizione dei “ribelli” libici. Solo negli ultimi mesi Tripoli, in questo complesso gioco strategico regionale, aveva aggiustato il tiro, togliendo la propria sponsorizzazione al Jem e quindi ponendo di fatto agli arresti domiciliari il leader del Jem, Khalil Ibrahim, da tempo residente in Libia. C’è chi sostiene che in questo modo Gheddafi ha voluto ricattare le centinaia di guerriglieri darfuriani che da mesi combattono coi lealisti libici, nel tentativo di contrastare le diserzioni crescenti.