In risposta alle critiche di E. Bilancini e G. Zuccarini alla teoria del valore-lavoro
Il dibattito sulla teoria marxiana del valore (IV)
Gli interventi precedenti: [1] Un’introduzione alla critica della teoria del valore-lavoro di Marx – di Ennio Bilancini e Giacomo Zuccarini. [2] In difesa della teoria del valore – di Moreno Pasquinelli. [3] Storia e scienza in Marx – di Moreno Pasquinelli.
Premessa
Le tesi sviluppate Bilancini e Zuccarini (B. e Z.) nel loro documento sul «Un’introduzione alla critica della teoria del valore-lavoro di Marx. Valore-lavoro prezzi e profitto: Perché la teoria del valore di Marx non funziona» rappresentano una pedissequa riproposizione della teoria neoricardiana degli sraffiani Pierangelo Garegnani e Claudio Napoleoni [1] i quali, sulla base del testo ben noto del loro maestro “produzione di merci a mezzo di merci” —che non voleva essere affatto una critica a Marx ma semmai ai marginalisti, Marx nel testo è citato solo una volta— deducono un modello che smentirebbe Marx e conferma invece le critiche avanzate, già alla fine dell’Ottocento, da Bohm Bawerk, Achille Loria, Samuelson e Bortkiewicz. Qual’era la sostanza di queste critiche? Che la teoria del valore non funziona in quanto c’è una contraddizione insanabile tra il primo e il terzo volume del capitale ed errata sarebbe l’equazione della trasformazione dei valori in prezzi. Venendo a cadere la legge del valore-lavoro crolla tutta l’impalcatura del “Capitale” e quindi la spiegazione marxista del meccanismo di funzionamento del sistema capitalistico. I nostri pensavano di essere andati in brodo di giuggiole al solo pensiero di aver spuntato allo spettro di Marx l’arma fondamentale della sua critica al capitalismo. Ma come vedremo questo presunto attacco al cuore si rivelerà solo una chimera, condita però di un retrogusto amaro, avendo avuto pure la pretesa di scrivere che lo stesso Marx si era accorto delle contraddizioni della sua teoria del valore e in quattro righe avrebbe gettato alle ortiche tutto il suo contributo teorico. [2]
Per quanto riguarda le critiche a Bohm Bawerk e Achille Loria rimandiamo alle repliche di R. Hilferding e F. Engels. [3] Io qui mi devo occupare di rispondere alle Tesi di B. Z. Prima di affrontare “la teoria della trasformazione dei valori in prezzi” però voglio porre una prima domanda irriverente a B. Z.: Avete mai studiato il Capitale di Marx? Da ciò che scrivete sembrerebbe di no. Come si può avere allora la pretesa di dare l’assalto ad un genio senza averlo studiato a fondo, senza averlo letto e riletto? Che serietà è quella di portare un affondo così temerario ad un grande pensatore sulla base della lettura superficiale di alcuni suoi critici contemporanei che vanno per la maggiore nell’ambiente accademico, senza peraltro cimentarsi nello studio delle critiche al Neoricardismo? [4]
Il salario
La conferma di questo mio presentimento arriva subito da quanto affermate a proposito del salario:
«Per quanto riguarda i salari invece, l’idea di Marx (e dei classici) è che la loro evoluzione non sia un fenomeno da spiegare tramite una teoria del valore di scambio. I salari sono considerati da Marx un dato da cui la teoria parte, cioè un dato empirico che non si cerca di spiegare (ovviamente per dar conto dei salari si può pensare alla teoria della lotta di classe o a quella malthusiana, ma siamo in ogni caso fuori dalla teoria del valore di scambio)»- [Dal documento di B. e Z.]
Niente di più falso. Marx è stato il primo a fornire una descrizione completa e scientifica della dinamica dei salari sia nel primo volume del Capitale che nei due testi meno famosi “Salario, Prezzo e Profitto” e “Lavoro Salariato e Capitale”. Sarebbe stato veramente paradossale che il più grande filosofo, politico ed economista delle classi subalterne non avesse spiegato la dinamica delle retribuzioni del proletariato. Ecco come l’autore del Capitale risolve la questione del salario attraverso la teoria del valore-lavoro: il salario non è altro che il valore della forza-lavoro determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione dei beni di sussistenza dei lavoratori. Il livello della retribuzione salariale, questo nocciolo duro della sussistenza, è una variabile che dipende in basso dai bisogni fisici sotto i quali un operaio non può scendere, e in alto dalle tradizioni storiche di ogni nazione e dall’evoluzione della lotta di classe; ma questo è proprio il dato empirico da cui Marx astrae non certo dalla sostanza e dal contenuto del salario come espressione monetaria del valore della merce forza lavoro.
In verità è negli schemi di Sraffa e dei suoi seguaci che manca una teoria del salari che vengono rimpiazzati dai beni di consumo dei lavoratori, un po’ come si potrebbe includere nei costi di produzione il foraggio per il bestiame. Se per Marx il livello reale della retribuzione può essere conosciuto al momento in cui viene contrattato il salario, perché dipende dai prezzi dei beni di consumo dei lavoratori, per gli Sraffiani la quantità, la composizione e i prezzi dei beni-salario sono dati presupposti. Inoltre viene a mancare negli schemi la caratteristica che fa del salario una componente Variabile del capitale ossia il valore di una forza produttrice vivente che in parte lavora per riprodurre il valore dei suoi mezzi di sussistenza e in parte per valorizzare il denaro anticipato dal capitalista. Non è una distinzione di poco conto: i salari, concepiti come foraggio per il bestiame, non valorizzano il capitale, il Capitale variabile si. I salari sono semplice equivalente monetario della retribuzione di chi lavora, il capitale variabile è valore della forza-lavoro che valorizza il capitale, è espressione monetaria di una componente viva ed umana del capitale; è quindi un rapporto sociale di sfruttamento. Checche ne dicano B. Z. il loro modellino a Grano e Ferro maschera e mistifica lo stesso sfruttamento di classe dietro una terminologia neutra, facendo arretrare la critica dell’economia politica ad una fase prericardiana (altro che neoricardiana!!!)
Marx fa lo stesso rimprovero a Smith:
“La definizione del capitale variabile in contrapposizione al capitale costante viene seppellita in Smith sotto la definizione secondo cui la parte del capitale sborsata in forza-lavoro, per quanto riguarda la rotazione, appartiene alla parte circolante del capitale produttivo. Il seppellimento viene completato considerando come elemento del capitale produttivo al posto della forza-lavoro i mezzi di sussistenza del lavoratore….Con ciò è seppellito di un colpo il fondamento per la comprensione del movimento reale della produzione capitalistica e perciò dello sfruttamento capitalistico”. [5]
Il profitto
Quando si passa dal salario al profitto il secondo errore di analisi del documento di B. e Z. è ancora più grave:
«Questo secondo obbiettivo (spiegare il profitto come proveniente dal plusvalore e quindi dallo sfruttamento) è impossibile da raggiungere a meno di definire in altro modo le grandezze in gioco (prezzi, profitti e valore-lavoro). Tuttavia questo non significa affatto abbandonare l’idea che i lavoratori siano sfruttati (del resto lo erano anche gli schiavi senza che esistesse il profitto e il capitalismo). Significa però riformulare la teoria dello sfruttamento in termini diversi. Il profitto può sempre essere pensato come reddito tolto ai lavoratori in modo illegittimo, basta mostrare che i capitalisti riescono ad imporre ai lavoratori un salario inferiore rispetto al contributo alla produzione (cosa a pensarci bene non troppo complicata, vista l’asimmetria in termini di potere contrattuale a causa del possesso dei mezzi di produzione da parte dei capitalisti)».
Qui siamo di fronte ad un ossimoro. Siccome a livello aggregato i prezzi di produzione totali non sono uguali ai valori totali (al contrario di ciò che pensa Marx) allora per B. Z. non si può neanche dire che il profitto è una quota del plusvalore, ossia dell’espressione monetaria delle ore di lavoro non pagato fornite dagli operai ai capitalisti —cosa su cui era d’accordo anche Ricardo…..ma non eravate neoricardiani?) Ma subito dopo si ravvedono sentenziando che comunque lo sfruttamento esiste in quanto i capitalisti tolgono illegittimamente del reddito appartenente ai lavoratori.
E’ una contradictio in adjecto. Delle due l’una o il profitto è una giusta remunerazione dell’imprenditore come pensano i marginalisti e allora non è frutto dello sfruttamento di classe, oppure, come dice Marx, è un prelievo sul plusvalore, a prescindere dal fatto se questo prelievo è calcolato ai prezzi di produzione o ai valori. Il fatto che il profitto sia calcolato ai prezzi di produzione anziché ai valori potrebbe far deviare il suo calcolo di qualche punto percentuale ma non ne mette in dubbio la natura. B. Z. nel tentativo di fare un bricolage tra marginalismo neoricardianesimo e marxismo sono incappati nella più classica delle contraddizioni, che viola il primo principio della logica aristotelica (se A è uguale ad A non può essere uguale a NON-A). Ma la motivazione ideologica che è alla base di questo ossimoro è che gli accademici maestri di B. e Z., anche concedendo che il profitto è risultato dello sfruttamento, devono comunque separarlo dalla categoria marxiana di plusvalore.
In realtà, nello schemino di B. Z. il profitto appare come il risultato di tutte le componenti del capitale. Prezzo del grano, prezzo del ferro e salari sembrano tutti e tre concorrere a determinare il sovrappiù. In questo modo il rapporto capitalistico risulta di nuovo mistificato. [5)] La vera fonte del plusvalore mascherata. Per Marx invece il capitale anticipato è scomposto in capitale costante e capitale variabile cioè in una parte C (lavoro morto costituito dai macchinari e dalle materie prime) che si ammortizza nel valore finale senza aggiungere valore e in una parte variabile V (lavoro vivo) che riproduce il suo valore e contemporaneamente aggiunge valore al capitale grazie al potere valorizzante della viva forza- lavoro del salariato.
Come corollario il modello B. Z. presenta un’altra grave incongruenza. Se il profitto deriva da tutto il capitale C+V e non da V (posto C+V =100) qualsiasi cambiamento della composizione organica del capitale (C/V) da come risultato lo stesso saggio di profitto, mentre sappiamo che in Marx un aumento del composizione organica a parità di saggio di plusvalore tende a far scendere il tasso medio di profitto, fatte salve le tendenze contrastanti. Insomma ecco come si spiega che il modellino a grano e ferro è un a priori kantiano che presuppone un sovrappiù costante e sempre positivo come categoria metafisica. Esso non solo non spiega il “noumeno” del valore ma neanche il “noumeno” della dinamica del saggio generale di profitto e delle conseguenti crisi economiche che attraversano l’intera storia del capitalismo.
Nella formula D-M-D? il possessore di denaro compra le merci al loro valore, le vende al loro valore eppure alla fine del processo produttivo riesce a trarne più valore di quanto ne abbia immesso. Perché ciò sia possibile il capitalista deve trovare sul mercato una merce il cui valore d’uso possiede la peculiare facoltà di essere fonte di valore e tale merce specifica è la forza lavoro. Il processo di consumo della forza lavoro è insieme processo di produzione della merce e processo di valorizzazione del capitale, poiché il valore prodotto dal lavoro è maggiore del valore della forza lavoro. Questa specifica differenza si chiama plusvalore che a sua volta si ripartisce in profitti, rendite, imposte. Il profitto è solo una delle componenti del plusvalore destinata al consumo del capitalista e all’investimento.
«Finché conserveremo il calcolo del valore non potrà mai verificarsi il caso che si dimentichino l’origine e la natura del profitto quale detrazione dal prodotto del lavoro sociale. Il calcolo del valore facilita grandemente la traduzione delle categorie monetarie in categorie sociali. In breve il calcolo del valore ci dà il modo di poter considerare, al di sotto dei fenomeni superficiali della moneta e delle merci, le sottostanti relazioni tra le persone e le classi. Il calcolo del prezzo, d’altro lato finisce col nascondere le relazioni sociali fondamentali esistenti in condizioni di produzione capitalistica. Poiché il profitto è calcolato come un guadagno sul capitale totale, sorge inevitabilmente l’idea che il capitale come tale sia in qualche maniera produttivo. Le cose appaiono dotate di un indipendente potere proprio. Dal punto di vista del calcolo del valore, è facile rendersi conto che ciò non è altro che una manifestazione di feticismo, mentre, dal punto di vista del calcolo del prezzo, ciò appare naturale ed inevitabile». [6]
Il denaro e il valore
Come in un abracadabra il valore sparisce dalle equazioni di B. Z. perché non serve più a determinare i prezzi e al suo posto intervengono le quantità fisiche moltiplicate per i prezzi. Il circolo vizioso dei prezzi che determinano i prezzi sarà posto in evidenza nel prossimo paragrafo.
Ad un lettore attento degli schemi di trasformazione di B. Z. non può sfuggire che essi compiono una vera e propria soppressione del soggetto a favore del predicato. Per Marx “non è il rapporto in cui due merci si scambiano che determina il loro valore ma è il loro valore che determina il rapporto in cui si scambiano”. [7] La grandezza di valore della merce espressa in denaro dipende dalla sostanza di valore espressa in tempo di lavoro socialmente necessario. Gli sraffiani eliminano la sostanza di valore e lasciano che la grandezza di valore, cioè il valore di scambio si identifichi con il rapporto quantitativo con cui le merci si scambiano tra di loro. 1 kg di grano non vale perché esprime la fatica del contadino ma solo perché si scambia con 10 Kg di ferro. Il capitale e il valore che per Marx sono rapporti sociali, per gli sraffiani diventano pure relazioni matematiche, fantasmi, figure spettrali, dove l’elemento umano, apparentemente presupposto, in realtà è cancellato con un colpo di spugna. Non è questo il regalo più bello fatto al sistema capitalistico che sacrifica l’uomo alle cose, ai numeri e al Dio denaro? Non è questa la dote portata alla razionalità strumentale che riduce la complessa realtà sociale a quantità indifferenziate, algoritmi, equazioni?
Ma andiamo oltre. Sopprimendo la sostanza di Valore per determinare i rapporti di scambio tra le merci gli B. e Z. non hanno più bisogno neanche del denaro. Il ferro e non il denaro diventa la misura del valore del grano. Ma quale dovrebbe essere il prezzo del ferro misura dei valori? Avremmo la determinazione del prezzo del grano e di tutte le altre merci ma non quella del ferro. Siamo di nuovo in un circolo vizioso da cui se ne potrebbe uscire solo introducendo il denaro nello schema della riproduzione mercantile e capitalistica, poiché il denaro solo può essere scala dei prezzi in quanto non ha un prezzo esso stesso. La misura astratta del tempo di lavoro socialmente necessario si condensa nella figura astratta del denaro come equivalente di tutti i valori di scambio. Gli sraffiani eliminano l’uno e l’altro e passano dal concreto al concreto (dai prezzi ai prezzi) senza la mediazione dell’astratto (sostanza di valore e denaro).
Se indico il prezzo del ferro come misura dei valori di tutte le merci non faccio altro che dire: il rapporto di scambio di tutte le merci si materializza nel valore di scambio del ferro. Ma il valore di scambio del ferro non è come una manna che cade dal cielo, è cristallizzazione di tempo di lavoro sociale.
Rispetto alla materializzazione uniforme dello stesso lavoro (il lavoro che produce ferro) tutte le merci presentano solo differenze di carattere quantitativo. Avremmo potuto usare l’oro al posto del ferro, come misura di tutti i valori (cosa peraltro attuata nella storia del capitalismo vedi gli stessi accordi di Bretton Woods) compreso il valore della moneta e allora ha di nuovo ragione Marx:
«Quella stessa relazione progressiva per la quale si presentano come valori di scambio l’uno per l’altro, esprime il tempo di lavoro contenuto nell’oro come tempo di lavoro generale, di cui un dato quantitativo si esprime in quantità differenti di ferro, grano, caffé etc, in breve nei valori d’uso di tutte le merci, ossia si svolge direttamente nella serie infinita degli equivalenti-merci”…. “l’oro diventa misura dei valori soltanto perché tutte le merci stimano il proprio valore di scambio in esso oro. La generalità di questo riferimento progressivo, dalla quale soltanto nasce il suo carattere di misura, presuppone però che ogni singola merce si misuri in oro in proporzione del tempo di lavoro contenuto in entrambi, che quindi misura reale tra merce e oro sia il lavoro stesso”…… “il valore di scambio delle merci espresso in tal modo come equivalenza generale e allo stesso tempo come grado di questa equivalenza in una merce specifica, è il prezzo. Il prezzo è la forma mutata nella quale appare il valore di scambio delle merci in seno al processo di circolazione”….. “quindi mediante il medesimo processo con cui esprimono i propri valori come prezzi in oro, le merci esprimono l’oro come misura dei valori e perciò come denaro”……. “presupposto il processo per il quale l’oro è diventato la misura dei valori e il valore di scambio è diventato prezzo, tutte le merci nei loro prezzi ormai non sono che immaginarie quantità d’oro di grandezza diversa”….. “le merci non riferendosi più l’una all’altra come valori di scambio da misurarsi mediante il tempo di lavoro, bensì come grandezze di eguale denominazione, misurate in oro, l’oro da misura dei valori si trasforma in scala dei prezzi». [8]
Insomma la merce ha la sua misura nel valore di scambio, il valore di scambio ha la sua misura nel prezzo, il prezzo ha la sua misura nel denaro, il denaro ha la sua misura immaginaria
nel valore dell’oro e l’oro ha la sua misura nel tempo di lavoro necessario a produrlo. Ritorniamo quindi alla fonte del prezzo di tutte le merci che è sempre il tempo di lavoro. Chi ha il denaro ha il potere di comandare lavoro sociale. Il denaro è il simbolo, la registrazione di questo potere e allora ha senso dire che i prezzi in quanto denaro possono essere analizzati a prescindere dal potere a cui da diritto questo denaro?
La fine degli accordi di Bretton Woods (che imponevano la convertibilità dei dollari in oro), e l’insistenza con cui molti stati li reclamano di nuovo, attesta semplicemente che il biglietto di denaro, fosse anche il dollaro (parametro di misura per tutti gli scambi internazionali) ha bisogno a sua volta di essere misurato e pesato in oro, proprio per evitare che gli Stati Uniti inondino il mercato monetario di dollari deprezzando la moneta simbolo degli scambi internazionali e quindi tutto il loro debito estero contratto in dollari. Una teoria dei prezzi come quella Sraffiana che prescinde dal denaro e dalla sua misura in Oro, in realtà è una scatola di numeri che potrebbe essere svuotata dallo stesso deprezzamento della moneta.
Il dogma sraffiano che gli scambi possono fare a meno del denaro e l’analisi dei prezzi può fare a meno dell’analisi del valore-lavoro presuppone una società socialista in cui il lavoro particolare dell’individuo privato diventa lavoro immediatamente sociale, senza la mediazione del valore di scambio. Presuppone quindi una società di individui associati che fa a meno del mercato e ripartisce i prodotti nel suo ambito in quanto semplici valori d’uso, come fa una azienda quando divide e distribuisce il lavoro tra i suoi differenti reparti. [9]
Le merci nel capitalismo, siccome sono frutto di lavori privati ed indipendenti, per confermarsi come lavoro sociale e come valore d’uso utile alla società devono alienarsi nel processo di scambio e acquisire la forma astratta del denaro, cioè mutarsi nel proprio opposto.
Se non ci fosse la merce-denaro come misura di tutte le merci non ci sarebbe ne la produzione mercantile semplice M-D-M (che non funzione come un baratto M-M) ne tanto meno quella capitalistica che come espresso nella formula D-M-D’, dal denaro prende avvio e al denaro approda per poi ricominciare in un processo continuo e allargato. Al capitale in fondo non interessa una teoria del valore basata sulla misura dei rapporti quantitativi tra le merci e i loro prezzi. Al capitale interessa la teoria del valore di Marx, interessa sapere di quanto si valorizza il denaro anticipato attraverso la mediazione del lavoro astratto. Al capitale è indifferente sia l’utilità concreta del bene che vende (grano o ferro) sia la forma determinata del loro processo lavorativo. Al capitale interessa la potenza universale del denaro valorizzata dalla potenza astratta del lavoro.
Perché l’ipotesi sraffiana non funziona
Valore, lavoro denaro. Il sistema di Marx è ricco di determinazioni storiche e concettuali che ci permettono di comprendere la dinamica del reale. Quello degli sraffiani fa a meno di queste categorie e si riduce esclusivamente a pochi rapporti tecnici input-output che non ci possono orientare ne in una analisi dei prezzi, ne in quella del modo di produzione.
Nel sistema di equazioni di Sraffa sono fissate sia le quantità prodotte che gli input utilizzati per la produzione di ciascuna industria. «E’ in base a queste quantità date che egli può costruire i suoi sistemi e calcolare i suoi prezzi. Un mutamento di queste quantità provocherebbe dunque un conseguente mutamento delle equazioni del suo stesso sistema con un diverso risultato dei prezzi, in quanto questi dipendono dalle quantità prodotte e utilizzate nella produzione. E’ quindi il cambiamento di queste quantità a provocare il mutamento dei prezzi. Al contrario noi sappiamo che nella realtà la produzione e le tecniche produttive mutano continuamente” e anche solo variando queste quantità, la produttività e la qualità dei prodotti da un ciclo all’altro, varierebbero anche i prezzi». [10]
La stessa simultaneità dei prezzi degli input e degli output, fissata a priori nel sistema di equazioni, è un dogma che non ha nessuna conferma nel movimento reale della produzione capitalistica. E’ noto infatti che una industria può acquistare degli inputs ad un prezzo e vendere gli outputs ad un prezzo differente da quello immaginato o prefissato solo perché variano le tecniche produttive nel lasso di tempo in cui l’azienda ha acquistato e rivenduto le sue merci.
Insomma perché il sistema di equazioni di Sraffa e di B. e Z. sia risolvibile è necessario presupporre una situazione di equilibrio statico in cui la produttività del lavoro non cambia, i prezzi degli inputs sono calcolati simultaneamente a quelli degli outputs, il denaro non esiste, i prezzi sono fissi e prefissati in base alle quantità prodotte e utilizzate nella produzione, il lavoro diventa lavoro immediatamente sociale senza la mediazione dello scambio, la proporzione delle quantità prodotte e richieste dai vari settori è fissa e garantita ex-ante. Perché le equazioni siano risolvibili bisogna far astrazione dall’essenza stessa del capitalismo, da tutte quelle peculiarità che fanno del capitalismo un sistema storicamente determinato. Bisogna fare del modo di produzione capitalistico un sistema universale e metastorico.
Prezzi, crisi, filosofia della scienza
Veniamo al problema di natura ontologica sollevato da B. Z., che può essere così ribattezzato: siccome nella realtà del capitalismo avanzato le merci si scambiano ai prezzi di produzione e non ai valori lavoro, e neanche a livello aggregato i valori complessivi coincidono con i prezzi complessivi (come era nell’ipotesi di Marx), allora gettiamo alle ortiche la teoria del valore-lavoro e dedichiamoci ad una ben più realistica teoria dei prezzi.
Come calcolare i prezzi in base ad una teoria del valore-lavoro si chiedono B. e Z.? E’ quasi impossibile perché la merce è diventata una merce mondiale; e come calcolare le ore di lavoro a produttività media di una merce che ha componenti che giungono da 10 paesi del pianeta ognuno dei quali con produttività diversa? Se questo è già difficile per una merce si immagini quanto sia complicato per il calcolo del totale del valore delle merci mondiali. Ergo sostituiamo la teoria del valore-lavoro con una più pratica teoria dei prezzi e dei costi di produzione che ci consente di calcolare il valore di scambio di ogni merce in base alla sommatoria dei prezzi di produzione di tutte le sue componenti moltiplicata per un saggio medio di profitto.
Magico risultato o pura tautologia? Scegliete voi. Determinando i prezzi in base ai prezzi, escludendo il calcolo delle ore di lavoro, si cade in un plateale circolo vizioso. E’ chiaro che se noi facciamo dei prezzi la misura di altri prezzi non facciamo che spostare la difficoltà perché a loro volta gli altri prezzi hanno bisogno di essere determinati. Parafrasando Marx «Espresso nella sua forma più astratta questo significa che il prezzo è determinato dal prezzo e questa tautologia significa in realtà che del prezzo non sappiamo niente». [11]
Ma vediamo la questione anche da una prospettiva filosofica. Seguendo il ragionamento dei critici di Marx e usando le categorie di Spinoza, avremmo degli attributi (i prezzi) senza sostanza (i valori). Con Hegel avremmo delle forme senza alcuna essenza mentre secondo le categorie kantiane avremmo dei fenomeni (i prezzi) con un noumeno inconoscibile (il valore).
Ricorrendo invece alla metafora di Platone con la teoria dei prezzi neoricardiana saremmo immersi nel buio più totale della caverna. I suoi abitanti, incatenati alla roccia, potrebbero vedere solo le ombre (i prezzi) proiettate sulla parete senza mai scorgere le figure reali di cui sono riflesso. Per i cavernicoli le ombre sono l’unica realtà conoscibile. Compito del filosofo sarebbe per Platone quello di entrare nella caverna per liberare gli individui dalle catene che imprigionano i corpi e la conoscenza. E’ il primo atto della filosofia della prassi.
Per Marx filosofo e scienziato non si da scienza e conoscenza ove la forma (il prezzo) coincide con la sostanza (il valore). Compito dello scienziato è quello di svelare il contenuto reale dietro le apparenti e spesso devianti forme fenomeniche. A tale scopo occorre abbracciare il metodo dell’astrazione dialettica il quale consente di scoprire i nessi e le leggi che muovono la totalità concreta, depurandoli dalle infinite perturbazioni. Solo così si arriva a delineare il concreto reale che è sintesi di molteplici determinazioni concettuali. Dall’astratto al concreto non ci si allontana ma ci si avvicina alla realtà.
B. e Z. usando il loro metodo formalistico-quantitativo (opposto a quello di Marx dell’astratto qualitativo) non solo rimangono prigionieri delle apparenze ma cadono vittima altresì della seconda trappola fenomenologica concettualmente delineata da Marx: il feticismo della merce. La società capitalistica diventa un’immensa raccolta di merci, di prezzi, di azioni, di titoli e di obbligazioni che possono essere computati matematicamente, mettendoli in relazione gli uni con gli altri, senza mai riferirsi ai rapporti sociali e al lavoro umano di cui sono emanazione. Siamo in piena economia degli spettri. Nella produzione dominata dai valori di scambio e dai prezzi, le relazioni sociali si presentano all’occhio dell’analista come qualità specifica della cosa prodotta. Per B. e Z. nel prezzo si riassume tutto il segreto dell’economia politica.
Computando, pesando e perimetrando la massa dei dati gli economisti volgari e marginalisti presumono di aver elaborato una grande scienza economica traboccante di formule e grafici. Pensano con ciò di aver trovato la pietra filosofale ma in realtà non spiegano nulla e si muovono come ciechi nella nebbia più totale. Ne volete la conferma? Basta vedere come hanno reagito alla crisi mondiale di questi mesi: sono rimasti basiti e attoniti, rendendosi conto che la loro “scienza” non solo non gli ha consentito di prevederla ex-ante ma neanche di spiegarla ex-post.
Il metodo formalistico-quantitativo non ci consente di penetrare concettualmente il funzionamento della società capitalistica più di quanto la cronaca televisiva dei fatti quotidiani ci permette di capire la realtà.
L’alienazione che è una precondizione della trappola feticistica può essere cosi sintetizzata: più noi contempliamo le apparenze meno viviamo. Più accettiamo di riconoscerci nelle immagini, negli algoritmi e nei prezzi, meno comprendiamo la nostra esistenza e il nostro destino.
Sraffa ci ha intitolato pure il libro: Produzione di merci a mezzo di merci. Togliendo di mezzo il processo di lavoro e il denaro e dipingendo un modello economico dove le merci producono merci e le cose producono cose, ha dipinto un bell’affresco del concetto di feticismo in Marx.
La formula del movimento economico nel modello B. e Z. è M-M (merce- merce), Siamo al baratto. Ne più e ne meno. Le merci vengono prodotte a mezzo di merci. La merce grano non viene in realtà scambiata con Denaro per poi essere di nuovo scambiata con ferro come nella produzione mercantile semplice (M-D-M). Niente affatto: la merce grano ha già una destinazione assicurata prima dello scambio e il prezzo è fissato a priori in base alle quantità con cui il grano di converte in ferro. Ma tutti sanno che la formula del capitale è D-M-D1 (denaro-merce-denaro valorizzato). Il denaro con cui il capitalista da avvio al processo di accumulazione può anche non incontrarsi e scambiarsi con merci e le merci prodotte possono non incontrarsi e realizzarsi in denaro. Questa possibilità del non-incontro, spiegabile attraverso la dinamica di evoluzione del saggio di profitto e l’anarchia che governa il mercato, da luogo alla Crisi, quell’oggetto misterioso che Sraffa esclude a priori dalle sue equazioni, oscurando l’equivalente generale e presupponendo un equilibrio a priori.
E’ vero: anche Marx, nel secondo volume del Capitale, elaborando i modelli di riproduzione semplice ed allargata, presuppone un equilibrio ex-ante senza intervento del denaro, dove la proporzione tra i settori è sempre assicurata, in un processo di espansione all’infinito. Ma lui voleva dimostrare che nella realtà l’equilibrio è sempre precario e si realizza al prezzo di violente crisi, guerre di conquista, repressioni, ristrutturazioni, distruzione di forze produttive. Se Marx si fosse fermato all’equilibrio presupposto dei modelli di riproduzione non si sarebbe differenziato da un Quesnay, o da un falso apologeta del libero mercato come Walras. I modelli li ha fatti lavorare con l’ipotesi della caduta del saggio di profitto, della svalorizzazione e della sproporzionalità realizzando un insieme teorico che ancora resiste all’usura del tempo.
La teoria della trasformazione dei valori in prezzi in Marx non è un assioma
— come pensano B. e Z.— da cui Marx vuole dedurre tutte le leggi della realtà capitalistica. Quindi dimostrato falso l’assioma possiamo dire che la legge del valore e del plusvalore e della caduta del saggio di profitto sono deduttivamente non vere. Niente affatto. La trasformazione è un ipotesi concettuale astratta come quella degli schemi della riproduzione di Marx (ma anche del modello di Sraffa e di B. e Z.) che non vediamo nella realtà concreta ma ciononostante ci aiuta a capire perché i prezzi di produzione, pur non coincidendo quasi mai con i valori, a livello aggregato e tra molteplici oscillazioni tendenzialmente vi corrispondono.
Come ipotesi è analoga alla teoria di Einstein della curvatura dello spazio tempo causata dalla forza gravitazionale. Un occhio umano vede tutto in modo rettilineo e non potrebbe mai accorgersi della curvatura dello spazio tempo, ciononostante se spariamo un fascio di luce verso un punto x a centinaia di migliaia di Km noi sappiamo di non poterlo trovare li perché esso viene curvato dalla forza gravitazionale. Persino Galileo era giunto alla teoria della caduta dei gravi (due oggetti come una piuma e una palla di piombo se non ci fosse la resistenza dell’aria arriverebbero a terra contemporaneamente) senza alcun esperimento, attraverso una intuizione del pensiero che astraeva dalle perturbazioni della resistenza atmosferica. L’ipotesi di Galileo fu confermata in laboratorio solo nel xx secolo e nessun occhio umano era riuscito ad immaginarla fino ad allora osservando empiricamente la caduta degli oggetti. Marx usa lo stesso procedimento: trova i nessi dei fenomeni sociali, formula una ipotesi o legge tendenziale astraendo da ogni possibile perturbazione (per esempio assume sempre che il tasso di plusvalore è sempre uguale al 100% o che si realizza un tasso medio di profitto cosa che in realtà non si verifica mai) e mette a lavoro le sue categorie spiegando la molteplicità del reale.
B. e Z. potrebbero calcolare in modo statico e rettilineo il prezzo di ferro e grano di una nazione deducendolo dai costi di produzione e non dai valori ma se in un’altra nazione l’aumento della forza produttiva del lavoro fa crollare il prezzo medio mondiale di ferro e grano il loro calcolo va a farsi friggere, e sarebbero costretti a far rientrare dalla finestra quella legge del valore che hanno sbattuto fuori dalla porta.
Supponiamo che la mia azienda oggi compra un capannone pagandolo 100. Se 10 giorni dopo, l’aumento della produttività del lavoro fa scendere il prezzo a 80, la mia azienda deve computare il prezzo medio di ottanta sul bilancio patrimoniale di fine anno (alla voce costi) e non quello di 100. Il modello neoricardiano quindi non tiene conto della dinamica temporale di svalorizzazione del prezzo ai fini stessi della definizione di un bilancio economico. E’ un modello statico e non dinamico.
Quando diciamo che i prezzi di produzione cambiano in modo inversamente proporzionale alla produttività del lavoro non facciamo altro che vincolare il calcolo dei prezzi all’analisi del tempo di lavoro. Il prezzo è una variabile dipendente del valore e non il valore una variabile dipendente del prezzo.
Per il teorema del matematico Ghodel se c’è un caso in cui la formula (trasformazione dei valori in prezzi) non è vera non vuol dire che l’ipotesi (la legge del valore) è sbagliata. E’ una replica alla tesi di Popper che se c’è un cigno nero allora vuol dire che è sbagliato assumere che tutti i cigni sono bianchi. Tra prezzo di produzione e valore singolo del bene non c’è sempre un legame stretto e necessitante. I prezzi di produzione possono divergere dai valori non solo per la tendenza al livellamento del saggio medio di profitto ma anche per la presenza di una rendita differenziale o di un monopolio. In un mercato monopolistico o oligopolistico ad esempio l’azienda può decidere di tenere alti i prezzi dei suoi beni nonostante l’aumento della produttività del lavoro. In questo caso il prezzo reale è superiore non solo al valore ma anche al prezzo di produzione. Di conseguenza l’azienda realizza un sovrapprezzo e un sovrapprofitto. Ma la differenza tra il sovrapprezzo e il prezzo di produzione non rappresenta creazione di nuova ricchezza sociale, non può essere computata tra le componenti attive del PIL di una nazione ma è solo ricchezza sottratta ai consumatori o a altri capitalisti.
La realizzazione del prezzo di produzione e del sovrapprezzo, attuandosi nella sfera della circolazione, non crea nuova ricchezza ma può solo redistribuirla.
La ricchezza reale di una nazione, quindi il valore complessivo del suo prodotto, si crea nella sfera della produzione. La trasformazione dei valori in prezzi di produzione si svolge invece nella sfera della circolazione delle merci e del capitale. Come nel teorema di Levoisier essa non crea e non distrugge ricchezza, non aggiunge valore, ma può solo ripartirlo tra le diverse sfere dei capitali. La legge del valore ci da il computo della ricchezza creata e valorizzata, la legge della trasformazione ci da il computo della ricchezza realizzata e ripartita. Per questo non potrà mai esserci un qualsivoglia errore di calcolo della trasformazione che possa inficiare la legge che opera a monte della trasformazione, nella sfera della produzione della ricchezza.
Per Marx la sfera della circolazione delle merci ha un’autonomia relativa rispetto a quella della produzione e ciò spiega perché i prezzi possono sistematicamente differire dai valori eppure allo stesso tempo essere regolati da esso.
B. e Z. sulla scorta di Garegnani e Napoleoni sostengono che la “trasformazione di Marx” è una astrazione lontana dalla realtà, uno schema concettuale imposto ad essa. Ma i prezzi di produzione del modellino grano e ferro, che assumono un saggio medio di profitto costante nel tempo, la simultaneità dei prezzi input output, la proporzionalità tra settori, non sono a loro volta uno schema imposto alla realtà? Non ricorrete anche voi ad un saggio medio di profitto che nella realtà non si realizza mai perché ostacolato da numerose perturbazioni (monopoli, rendite, tassi di cambio, imperialismo, guerre etc.) e non esiste da nessuna parte un mercato di concorrenza perfetta? I prezzi effettivi di mercato non deviano sistematicamente dai prezzi di produzione del modello grano e ferro? Allora che senso ha assumere i vostri prezzi di produzione (determinati attraverso ipotesi false e inadeguate al capitalismo) come centro attorno a cui gravitano i prezzi effettivi di mercato? Non sarebbe più utile assumere i valori come centro di gravità degli stessi?
Ma voglio essere generoso con B. e Z. Assumiamo per ipotesi che “la trasformazione” di Marx presenta errori dal punto di vista del calcolo matematico. Ciò significa che il modello non spiega perfettamente come la ricchezza viene ripartita. Ma quale matematico quale esperto di econometria potrebbe avere la pretesa di creare la matrice perfetta, l’algoritmo miracoloso che spiega come la ricchezza creata in un economia integrata su scala mondiale sia ripartita tra innumerevoli settori di produzione, nazioni con differenti economie di scala, differenti livelli di produttività etc etc? Semplicemente non può esistere, nessuno l’ha mai creata e nessuno potrà mai inventarla perché occorrerebbe una matrice con tante variabili quanti sono i settori dell’economia mondiale e con tante altre quanti sono i livelli di produttività. In più ci sarebbe anche da calcolare, come in tutti i fenomeni sociali, il fattore tempo e l’elemento della imprevedibilità delle decisioni.
Per il geniale Ghodel ci sono equazioni paradossali prive di soluzione e qui la sua intuizione cade a pennello. Possiamo solo creare un modello astratto, come quello di Marx, che depura il movimento economico della trasformazione da mille fattori perturbativi ma esso non ci darà mai una chiave per rappresentare tutto il complesso e mutevole movimento dei prezzi mondiali.
Einstein sognava di escogitare la formula universale che illustra i nessi e il funzionamento di tutto l’universo fisico. Non ci riuscì e nessuno credo potrà mai trovarla. Se ciò è vero nel mondo fisico lo è ancor più nel mondo sociale e storico dove i mutamenti sono più rapidi e spesso imprevedibili per la presenza di un’eterogenesi dei fini e della frequente imponderabilità delle decisioni umane.
Ecco perché le leggi economico-sociali di Marx sono leggi tendenziali. In natura la legge chimica e fisica si realizza istantaneamente ed in modo costante nel tempo. 2 atomi di idrogeno e un atomo di ossigeno fusi insieme mi daranno istantaneamente e non tendenzialmente una molecola di acqua. In economia la legge economica può realizzarsi solo in ultima istanza perché può essere ostacolata da molte controtendenze messe in atto dall’attore sociale, che possono addirittura temporaneamente annullarla o rovesciarla.
Paradossalmente non è possibile neanche formulare un equazione che spieghi il comportamento razionale di ogni singolo consumatore, perché dovremmo calcolare una molteplicità di fattori che possono mutare nel tempo anche in base alla sua evoluzione psicologica e culturale.
Ma voglio essere ancora generoso con B. e Z. Assumiamo che dopo un infaticabile lavoro teorico si possa giungere a trovare la matrice perfetta che calcola tutti prezzi e tutte le percentuali in cui essi si discostano dai valori. E chi se ne frega!!!! Ha qualche utilità per la scienza economica e per la lotta di classe sapere perché un vaso di fiori presenti un prezzo trasformato che diverge del 3% dal suo valore reale? Ha qualche utilità sapere che i prezzi determinano i prezzi? Ebbene si ha lo stesso significato teorico della scoperta dell’acqua calda oppure che l’equilibrio tra domanda ed offerta ci da un prezzo di equilibrio. Ha la stessa valenza teorica della geniale trovata, su cui sono stati scritti fiumi di inchiostro, che un consumatore consumando sempre di più un bene ne ha sempre meno bisogno (teoria dei rendimenti marginali decrescenti). La teoria degli Sraffiani e quella dei marginalisti hanno in comune di aver prodotto un grande sforzo intellettuale per non scostarsi di un centimetro dalla superficie dei fenomeni.
La trasformazione dei valori in prezzi
Nel primo volume del capitale Marx sviluppa la sua analisi come se i valori regolassero direttamente i prezzi di produzione. Il che è giusto fintantoché assumiamo che la composizione organica dei capitali (rapporto tra capitale costante e capitale variabile indice dello sviluppo delle forze produttive) è uguale in tutti i settori. Ma siccome nella realtà questa ipotesi viene a cadere perché ogni sfera di produzione presenta differenti composizioni organiche del capitale, Marx per calcolare i prezzi ricorre ad un modello di trasformazione che fa perno sulla formazione del saggio medio di profitto. L’emigrazione dei capitali da una sfera all’altra alla ricerca del massimo profitto determinerebbe una situazione di equilibrio caratterizzata dall’eguaglianza dei saggi di profitto in tutte le industrie del sistema. Marx su questo fu molto chiaro: “a prescindere dalle differenze non essenziali, accidentali e reciprocamente compensantesi, non vi è dubbio che una differenza nel saggio medio di profitto nei vari rami dell’industria in realtà non esiste e non potrebbe esistere senza abolire tutto il sistema di produzione capitalistico”. [12]
Riprendiamo il modello di Marx della trasformazione a tre settori, ove C capitale costante, V capitale variabile e PL plusvalore, R saggio medio di profitto, P prezzo di produzione, D differenza tra prezzo di produzione e valore.
I settore 80C + 20V + 20PL = 120 R=30 P=130 D = +10
II settore 70C + 30V + 30PL = 130 R=30 P=130 D = 0
III settore 60C +40V + 40 PL = 140 R=30 P=130 D = -10
Per Marx i tre settori con differente composizione organica del capitale (C/V) alla fine realizzano un uguale prezzo di produzione a causa della tendenza alla perequazione del saggio di profitto. Ciò che il terzo settore a più bassa composizione organica perde guadagna il primo settore a più alta composizione. Solo il secondo settore che produce con produttività media realizza un valore = al prezzo di produzione. Poiché in questa maniera si distribuisce in modo diverso tra i tre settori la stessa quantità di plusvalore (PL =90), Marx sostiene che “nella società la somma dei prezzi di produzione delle merci prodotte è pari alla somma dei valori”.
B. e Z. scrivono che il modello non funziona perché Marx calcola i prezzi di produzione e il saggio di profitto sulla base dei valori ma si sa che i capitalisti acquistano gli input di capitale costante e variabile ai prezzi di produzione e non ai valori. E siccome il saggio di profitto nella realtà è calcolato fuori dal sistema dei valori ne consegue che le equazioni di Marx sono sbagliate e a livello aggregato solo per una coincidenza casuale la somma dei prezzi può essere pari la somma dei valori. Procedono quindi a trasformare i valori della parte destra dell’equazione in prezzi di produzione moltiplicati per le quantità fisiche delle merci, per poi calcolare il saggio di profitto “corretto”.
Una procedura similare utilizzò L.V. Bortkiewicz alla fine dell’800, le cui equazioni vi risparmiamo per carità di patria. La difficoltà della trasformazione dei valori in prezzi, che dipende dall’interdipendenza tra prezzi e saggio di profitto (non è possibile determinare il saggio di profitto senza conoscere i prezzi e non è possibile conoscere i prezzi senza conoscere il saggio di profitto) viene superata da Bortkiewicz determinando simultaneamente prezzi e saggio di profitto. [13] A questo scopo utilizza delle equazioni come nel modello di B. Z. in cui non c’erano più i valori ma solo le quantità fisiche delle merci moltiplicate per i prezzi e per il saggio di profitto trasformato.
Claudio Napoleoni fa la stessa operazione [14] B. Z. lo seguono a ruota. Napoleoni illustra lo schema di Marx della trasformazione, ne coglie la contraddizione nel fatto che non trasforma gli elementi del capitale produttivo poi passa ad un secondo schema di equazioni in cui trasforma i valori del capitale produttivo in prezzi di produzione simultaneamente al saggio di profitto, calcolato anche esso ai prezzi di produzione. Alla fine si accorge che la somma dei valori di Marx non è uguale alla sua somma dei prezzi di produzione e la somma dei plusvalori non è uguale alla somma dei profitti. Grazie!!! Ma il procedimento di calcolo è capzioso ed ingannevole: è chiaro come il sole che se scrivo x+y = 10 (valore) e poi li moltiplico per un coefficiente z (coefficiente di trasformazione) avrò (x+y)z diverso da 10 in tutti i casi in cui z è diverso da 1. La contraddittorietà attribuita a Marx è in realtà frutto del depistaggio matematico operato da Napoleoni. B. Z. sono cascati in pieno nella finzione algebrica di Napoleoni.
Ora voglio provare a dimostrare che il modello di Marx è corretto, perché possiamo benissimo supporre che nel lato sinistro delle equazioni i valori sono già trasformati in prezzi di produzione senza sconvolgere il modello stesso. Nel modello infatti le aliquote di capitale anticipato nei tre settori sono ognuna pari a 100. Se chiamo C+V somma dei prezzi di produzione del capitale costante e dei beni salario invece che somma dei valore di essi non cambia assolutamente nulla sia in termini di ammontare assoluto (la somma è sempre 100) sia nel rapporto tra gli aggregati di C e V. Ad esempio 90/10 oppure 80/20 o 70/30 producono la stesso quoziente sia se li calcolo ai valori o ai prezzi di produzione.
E’ ovvio che C+V è la somma del denaro complessivamente sborsato per i salari e per i mezzi di produzione ed il capitalista li trova sul mercato ai valori già trasformati. Quindi anche il denominatore della formula che esprime il saggio generale del profitto coincide nei due sistemi di calcolo. Ciò era sottinteso anche nel primo volume del capitale quando Marx descrive la formula D-M-D’. Il possessore di denaro acquista le merci (C+V) e realizza un profitto pari a D’-D. Ma questo capitalista non acquista C + V ai prezzi imposti dal mercato?
Scrive Sweezy: «Secondo il metodo seguito da Marx la produzione totale, i salari totali, il saggio di plusvalore e il saggio di profitto non subiscono alcuna alterazione nel passaggio dai termini di valore ai termini di prezzo. Inoltre le forze messe in movimento dall’instancabile caccia che i capitalisti danno agli aumenti di reddito e alla ricchezza operano con molto vigore e precisamente con gli stessi ampi effetti tanto nel caso che si tratti di un sistema di calcolo del valore quanto nel caso che si tratti di un sistema di calcolo dei prezzi». [15]
Quindi il rapporto tra profitti e salari, tra i grandi aggregati del valore, del plusvalore, del capitale variabile e costante, nonché la spinta che anima il sistema capitalistico alla massima valorizzazione, non cambia nei due sistemi di calcolo, posto che i valori non siano già stati trasformati (ipotesi che io escludo). Gli sraffiani hanno invece la pretesa di dire che siccome è sbagliato il calcolo della trasformazione allora la legge del valore, che è anche legge della valorizzazione che norma i comportamenti degli agenti della produzione, non ci serve a nulla. E’ come dire: siccome il capitalista trova sul mercato dei prezzi differenti dai prezzi calcolati da Marx allora differente è anche il modo di agire del capitalista e dell’operaio e il rapporto che vincola l’uno all’altro. Insomma i neoricardiani non solo non vedono l’essenza dietro l’apparenza ma invertono l’apparenza con l’essenza.
Avrebbero fatto più bella figura invece a concludere, coerentemente con le loro correzioni nei calcoli della trasformazione, che la legge del valore è modificata ma non abolita. Il sovrappiù è sempre sovrappiù sia che si calcoli in ore o in denaro. Il salario di sussistenza è sempre salario sia che si calcoli ai prezzi o ai valori dei beni-salario. Ma il rapporto tra profitto e salario non è un rapporto monetario solamente è un rapporto sociale e nessuno più di Marx ha compreso quanto esso sia regolato dalla caccia al massimo profitto, che nella fabbrica si traduce nella ricerca disperata di ogni stratagemma per risparmiare sul tempo di lavoro necessario a produrre la merce. Atomi di tempo di lavoro questa è sempre stato il motivo del contendere e non c’è più plateale conferma della legge del valore che il testo di Taylor sull’organizzazione scientifica del lavoro, o gli ultimi accordi alla Fiat di Marchionne dove ogni pausa, persino quella in cui l’operaio si reca al bagno e fa merenda viene scientificamente calcolata e ridotta. Se il tempo di lavoro sottratto alla pausa o ad una intensità normale di lavoro è tempo di valorizzazione del capitale ciò significa che la misura dei valori in base al tempo di lavoro è sempre inscritta nella dinamica dei rapporti capitalistici.
Facciamo salvo ciò che B. e Z. affermano, cioè che a livello aggregato e stando al modello di Marx i valori totali non potranno mai coincidere con i prezzi di produzione totali. Dove è la formula matematica che lo dimostra? Non ci è stata fornita (quella di Napoleoni è solo una finzione) e non ci può essere semplicemente perché dovrebbero calcolare tutti i valori e rapportarli ad un equivalente generale e poi calcolare tutti i prezzi di produzione e rapportarli allo stesso equivalente generale. Ma per calcolare il prezzo di una Mercedes è semplice basta vedere un listino prezzi. Per calcolare il valore è quasi impossibile perché dovremmo calcolare il periodo di rotazione del capitale anticipato, poi calcolare le ore di lavoro semplice e composto del ciclo di produzione della Mercedes, ridurre tutto il lavoro qualificato a lavoro semplice, considerare una intensità media del lavoro, poi calcolare le ore di lavoro che ci sono volute per produrre i mezzi di produzione dei mezzi di produzione dei mezzi di produzione, calcolare la produttività media di ogni paese e se tutto ciò è difficile per una singola merce figuriamoci per tutte le merci mondiali. Ergo non potrà mai esserci un sistema di calcolo a livello aggregato che possa fornirci con precisione matematica la corrispondenza tra prezzi e valori a livello mondiale. Questa possiamo solo intuirla su un piano meramente concettuale. Allo stesso modo in cui possiamo ipotizzare che il plusvalore totale di cui si appropria la classe capitalistica a livello aggregato non può che corrispondere al totale delle ore non pagate ai lavoratori così possiamo desumere che il totale dei prezzi delle merci non può che essere il corrispettivo del totale delle ore di lavoro di una nazione al tasso medio di produttività. In altre parole tutto ciò che può essere contabilizzato, ridotto a misura monetaria è cristallizzazione di tempo di lavoro socialmente necessario.
A mo di esempio consideriamo tutta la ricchezza di una nazione pari a 100 ore di lavoro di produttività media, fissiamo un’ora di lavoro medio = 1 euro, il totale della ricchezza calcolata in prezzi di produzione sarà pari a 100 euro. Supponiamo che tutti i produttori di merci si accordano nell’aumentare del 20% i prezzi di tutte le merci al solo scopo di trarne un profitto addizionale ingannando i consumatori. Cosa accadrà? Per B. Z. la ricchezza reale della nazione, calcolata ai prezzi di produzione, passerà da 100 a 120 euro. A questo punto ci diranno che i prezzi aggregati divergeranno dai valori aggregati del 20%. Ma non è così. La crescita dei prezzi di produzione senza una corrispondente crescita delle ore di lavoro non arricchisce la nazione ma impoverisce il valore della moneta (nell’esempio 1 ora di lavoro dopo l’aumento dei prezzi vale 1,20 euro con l’euro svalutato del 20%).
Se i salari in Europa aumentano del 20% accade lo stesso: i valori delle merci e quindi la ricchezza reale dell’Europa rimane uguale. Ciò che diminuisce sono i profitti e quindi il tasso di plusvalore. Ma noi sappiamo che i capitalisti possono recuperare questa perdita aumentando la produttività dei settori che sfornano beni-salario o facendo salire i prezzi degli stessi.
Per Marx le categorie del valore e del plusvalore servono a spiegare il rapporto tra la classe capitalistica e la classe operaia mentre le categorie di prezzo e profitto si applicano per studiare i rapporti interni alla classe capitalistica. I primi ci danno i principi normativi e regolatori della creazione di ricchezza i secondi ci forniscono il fenomeno reale della distribuzione. Marx non si dedica a uno studio comparato dei prezzi di produzione e della distribuzione, che avrebbe richiesto uno specifico volume del capitale come quelli mancanti sul mercato mondiale, sulle classi e sullo Stato. Gli basta creare un abbozzo di analisi, un percorso di studio, una sintesi macroeconomica. Dedicarsi alla complicatissima crematistica dei prezzi delle merci e dei comportamenti dei consumatori (come fanno i marginalisti) lo avrebbe privato di tempo prezioso, senza far fare alcun passo avanti alla comprensione del movimento reale. Per un teorico della economia e un filosofo della rivoluzione a che serviva questo tipo di analisi? Perdita di tempo. Gli bastava aver spiegato i meccanismi della creazione di ricchezza e dello sfruttamento capitalistici, il resto lo lasciava volentieri ai saccenti custodi della cattedra e ai volenterosi esperti di fumo e di equazioni inutili.
Il Moro si considerava un Newton delle scienze sociali e la stessa teoria del valore ha analogie strette con la legge della gravitazione. La legge del valore sta alla legge della gravitazione come i prezzi stanno ai pesi. Ce lo vedete Newton che invece di scoprire l’equazione universale della gravitazione sta li a pesare ogni corpo come B. e Z. fanno con i Prezzi?
Certo la legge sociale non è una legge naturale strictu sensu e i pesi economici delle merci cioè i loro prezzi non corrispondono automaticamente ai valori. Ma la non corrispondenza a livello settoriale che Marx attribuiva alla diversità delle composizioni organiche dei capitali tra i diversi settori, alla formazione del saggio medio di profitto, al monopolio e alla rendita assoluta può avere altre mille spiegazioni che non dipendono solo da fattori economici ma anche politici, militari etc. In che misura, per esempio, il signoraggio del dollaro, dietro cui si eleva la principale potenza militare del pianeta, ha condizionato la formazione dei prezzi mondiali nell’ultimo secolo? In che misura la divisione nord-sud del mondo, centro periferia incide sulla determinazione del prezzo delle materie prime? Tutto questo non è a sua volta vincolato alla geopolitica, alle guerre di conquista, all’installazione di basi militari? Pretendere di determinare i prezzi dai prezzi significa scivolare in una logica economicistica che rende miopi, che impedisce di vedere il mondo come qualcosa di integrato e di multiforme. Il tutto “gestalticamente” non è la semplice somma delle parti ma una totalità funzionale ed interrelata. Il tutto dei prezzi non è la somma dei prezzi ma l’insieme dei nessi economici, politici, culturali e militari del sistema mondo.
La legge del valore è solo una delle bussole di orientamento per comprendere il capitalismo come l’analisi dei modi di produzione lo è per capire la storia dell’umanità, o l’inconscio di Jung e Freud per comprendere la psiche. Se non avessimo queste bussole ci resterebbe molto più difficile dare un ordine di senso alla cronaca infinita degli eventi e delle azioni umane.
Le evidenze empiriche
Nel corso degli ultimi decenni, alcuni autori come A. Shaikh, E. Ochoa, P. Cockshot e P. Cottrel hanno compiuto studi econometrici con risultati convergenti, che hanno mostrato come i prezzi di produzione non siano una approssimazione migliore dei prezzi effettivi di mercato più di quanto lo siano i valori.
«In tutti questi lavori si è stimato, partendo dalle matrici intersettoriali dell’economia, l’accostamento dei prezzi naturali ricardiani, dei valori e dei prezzi di produzione marxiani ai prezzi di mercato e si sono indagate le relazioni tra varie grandezze economiche (composizione del capitale, saggio del plusvalore e saggio del profitto) misurate secondo i diversi metodi, pervenendo a conclusioni assai simili così sintetizzabili:
1) Gli effetti della trasformazione dei valori in prezzi di produzione coprono una frazione molto piccola della componente di disturbo dei prezzi di mercato rispetto al valore, pertanto la teoria del valore-lavoro spiega le influenze quantitativamente dominanti nella formazione dei prezzi
2) La deviazione fra i prezzi di produzione e i prezzi di mercato non è significativamente inferiore a quella fra i valori e i prezzi di mercato.
3) Ai livelli effettivi dei rapporti salari/profitti la deviazione tra i prezzi di produzione e i valori non raggiunge il 20% (la deviazione è funzione inversa della quota di prodotto che va ai salari, con un massimo del 35% in caso di salario nullo – la discrepanza stessa viene meno nel caso in cui il salario assorba tutto il sovrappiù)
4) Anche nel caso limite di saggio di profitto massimo (salario nullo) la deviazione tra i prezzi di produzione calcolati secondo i criteri sraffiani e quelli calcolati secondo il metodo proposto da Marx nel capitale sarebbe del 2%”. [16]
Edoardo Ochoa in particolare intende mostrare nel suo studio che “la vicinanza osservata tra prezzi e valori è dovuta al carattere altamente integrato delle economie capitalistiche” e più procede questa integrazione più aumenta la vicinanza tra prezzi e valori. Ochoa formula un sistema di regressioni lineari di 71 serie temporali dei valori rispetto ai prezzi di produzione marxiani nell’economia Usa dal 1947 al 1972 e giunge al risultato che i prezzi diretti hanno un alto grado di correlazione, sia tra i settori che nel tempo, con i prezzi di produzione. Inoltre la deviazione media prezzi-valori per questo periodo è stata approssimativamente del 17%. Questo è un risultato importante conclude Ochoa che suggerisce che il noto problema della trasformazione potrebbe essere molto meno importante del posto accordatogli dalla letteratura. [17]
Anwar Shaikh pubblica nel 1984 un interessante studio sulla “Trasformazione da Marx a Sraffa”. Formulando una complesso ed elaborato modello matematico messo a confronto con le evidenze empiriche giunge alla conclusione “sia per i prezzi di produzione che per quelli di mercato, approssimativamente il 93% delle oscillazioni-sezionali e inter-temporali può spiegarsi con la corrispondente oscillazione dei valori”….. “la varietà delle prove empiriche conferma l’argomento di Marx e di Ricardo della correlazione e co-oscillazione tra prezzi e valori”. [18]
NOTE
[1] Claudio Napoleoni propone di assegnare alla teoria del valore solo un significato filosofico, come semplice espressione di una generica alienazione di una ancor più generica essenza umana per poi escludere ogni validità di questa teoria nell’ambito economico. Claudio Napoleoni l’enigma del valore, rinascita n° 8 del 24/02/1978
[2] La frase incriminata di Marx sarebbe la seguente: “Questa asserzione – che nella società la somma dei prezzi di produzione delle merci prodotte è pari alla somma dei valori di esse – sembra in contrasto col fatto che nella produzione capitalistica gli elementi del capitale produttivo sono di regola acquistati sul mercato, che i loro prezzi contengono quindi un profitto già realizzato e che per conseguenza il prezzo di produzione di un ramo dell’industria insieme col profitto che esso contiene entra nel prezzo di costo dell’altro. Ma se si mettono da un lato la somma dei prezzi di costo delle merci dell’intero paese e dall’altro lato la somma dei suoi profitti o plusvalori, è evidente che il conto deve tornare. Il Capitale vol. 3 pag. 230 Einaudi.
“L’esposizione ora fatta introduce invero una modificazione nella determinazione del prezzo di costo delle merci. Si era dapprima partiti dalla supposizione che il prezzo di costo di una merce sia uguale al valore delle merci consumate nella produzione di essa. Però, per il compratore il prezzo di produzione di una merce si identifica con il prezzo di costo di essa e può quindi entrare come tale nella formazione del prezzo di una nuova merce. Dato che il prezzo di produzione può differire dal valore della merce, anche il prezzo di costo di una merce, in cui è incluso il prezzo di produzione di altri, può essere superiore o inferiore a quella parte del valore complessivo di essa costituita dal valore dei mezzi di produzione che entrano in quella merce. E’ necessario tener presente questo nuovo significato del prezzo di costo e ricordare quindi che un errore é sempre possibile quando, in una determinata sfera di produzione, il prezzo di costo della merce viene identificato col valore dei mezzi di produzione in essa consumati. L’indagine che stiamo presentemente compiendo non richiede che ci si addentri in un esame più particolareggiato di questo punto”.
Il capitale, Einaudi vol. 3 pag 236.
Insomma Marx si avvede della possibilità dell’errore nel calcolo della trasformazione ma non le da più importanza di quella che ha: un possibile errore di contabilità tale da non inficiare il bilancio della teoria, la sostanza della legge del valore. Per usare una metafora ragionieristica.
[3] Bohm-Bawerk, Hilferding, Bortkiewicz Economia borghese ed economia marxista, La Nuova Italia. F. Engels Il capitale Vol III, introduzione, Einaudi torino 1977
[4] Andrea Vitale, Critica a Piero Sraffa, edizioni GB, Padova Giugno 1986.
[5] K. Marx, Il capitale volume II, pag 229. edizioni Rinascita Roma 1956.
[6] Paul Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico, edizioni Boringhieri, Torino 1970, pag153. Se io osservo la merce dalla punto di vista del prezzo non penetro al di là della sua superficie e involontariamente subisco una distorsione ottica un inganno ermeneutico che Marx chiama Feticismo. Se la guardo dalla prospettiva del valore riesco invece a penetrare la sua essenza e a comprendere sia l’origine storica della merce (non sempre i valori d’uso si sono presentati nella forma di merci) sia i rapporti sociali sottostanti, sia l’origine del profitto. B. e Z. guardando tutto dal punto di vista del prezzo non si pongono più neanche il problema dell’origine del profitto e si limitano ad analizzarne i cambiamenti e la divisione. L’analisi del valore sta all’analisi del prezzo come un microscopio o un telescopio sta ad una macchina fotografica.
[7] K. Marx, Teorie sul plusvalore, editori riuniti 1979 III volume pag. 138
[8] K. Marx, Il capitale volume primo pag 1004, ediz. Einaudi.
[9] Lo schemino degli sraffiani ci dice ben poco sul modo di produzione capitalistico. La dinamica economica più che “una produzione di merci a mezzo di merci” si presenta come una produzione di “merci da parte delle merci” anzi più correttamente di “cose da parte delle cose”. Scompare insieme al valore-lavoro l’essenza umana, la qualità che distingue l’uomo in quanto uomo: il processo di lavoro. Ma se anche volessimo attribuire una parvenza di processo lavorativo “alle cose che producono cose”, questo processo lavorativo sarebbe indistinto, non fornirebbe le determinazioni che distinguono un modo di produzione dall’altro. Così lo schemino potrebbe valere nello schiavismo come nel feudalesimo, nel capitalismo come nel socialismo. E’ la famosa notte hegeliana in cui le vacche sono tutte nere. Come insegnava Aristotele la logica serve a distinguere e separare, l’astrazione serve a riunificare e trovare i nessi. Il procedimento di Marx é logico e astratto allo stesso tempo, quello degli sraffiani è astratto senza essere logico.
[10] A. Vitale, Critica a Piero Sraffa pag 25 edizioni GB 1986
[11] K. Marx, Salario prezzo e profitto, opere complete ed. riuniti vol XX, pag 119
[12] K. Marx, citato da Paul Sweezy ibidem pag. 130
[13] La determinazione simultanea dei prezzi e del saggio di profitto operata da Bortkiewicz e Sraffa si rivela un errore perché la fase temporale dell’acquisto dei mezzi di produzione materie prime e forza lavoro è distinta e precedente al momento in cui vengono vendute le merci. Il capitalista compra il primo gennaio 2011 gli elementi del capitale e rivende il 1 dicembre 2011 le merci. In questo intervallo di tempo il saggio di profitto può cambiare ed addirittura crollare. Nell’architettura complessiva del Capitale di Marx è prevista la modificazione del saggio di profitto come causa scatenante della crisi, in quella di Sraffa no. E’ un caso che nessuno cita Sraffa per comprendere le contraddizioni del capitalismo reale mentre ancora tutti devono ricorrere a Marx?
[14] A. Vitale ibidem pag. 64 e 65. Secondo Napoleoni il ragionamento di Marx si può riassumere in uno schema a due capitali, il primo produce ferro, che è il capitale costante del sistema C, il secondo produce grano che è il capitale variabile V del sistema. Lo schema usato è questo:
_______________________________________________________________________________
c v pl valori pv’ p’ p’medio profitto prezzo differenza
medio di produz. prezzi valori
_________________________________________________________________________
I 8 +2 + 2 = 12 100% 20% 25% 2,5 12,5 +0,5
II 1 +1+1= 3 100% 50% 25% 0,5 2,5 -0,5
______________________________________________________________________________
9 3 3 15 3 15 0
come si vede in questo schema abbiamo che somma dei valori = somma dei prezzi e somma dei plusvalori = somma dei profitti, e che il saggio medio di profitto (25%) è quello dato dai valori. Ma sempre secondo Napoleoni, se si vuole operare una corretta e perciò completa trasformazione in prezzi di produzione di tutti i valori presenti nel sistema, quindi anche degli elementi del capitale produttivo, si deve utilizzare un sistema di equazioni di questo tipo:
(8x + 2y)(1+r) = 12x
(x + y)(1+r)) = 3y
x e y sono i coefficienti di trasformazione dai valori in prezzi rispettivamente del ferro e del grano; r è il saggio di profitto (p’) medio non calcolato sulla base dei valori ma sulla base dei prezzi di produzione e simultaneamente a questi.
Ponendo y = 1 il sistema di equazioni darà queste soluzioni: x=1,37 e r = 26,5% per cui lo schema della trasformazione completa sarà:
________________________________________________________________________________
c v p.medio p’medio prezzo di produzione
I 10,96 2 3,48 26,5% 16,44
II 1,37 1 0,63 26,5% 3
12,33 3 4,11 19,44
Come si vede, applicando le “equazioni simultanee” è cambiato tutto. La somma dei valori (=15) é diversa dalla somma dei prezzi (=19,44); la somma plusvalori (=3) é diversa dalla somma profitti (=4,11). Il saggio di profitto generale in valori del 25% é diverso da quello calcolato sulla base dei prezzi, che è del 26%.
[15] Sweezy, La teoria dello sviluppo capitalistico pag 149, edizioni boringhieri. Il Capitale vol III pag 181
[16] http://itwikipedia.org/wiki/interpretazionialternativedellateoriamarxianadellatrasformazione.
[17] Rivista Plusvalore, n° 6 , studi di teoria e analisi economica, Milano anno 1987, pag 52
[18] Rivista Plusvalore, n° 3, pag 68