Gli eventi libici, segnati dalla debacle del regime nazionalista, hanno ridato forza a chi, sin dall’inizio, ha proposto, per spiegare la sollevazione delle masse arabe, la chiave di lettura complottista. Non solo gli eventi libici, ma tutte le rivolte arabe, sarebbero state stimolate, preparate e pilotate dalla grande Spectre dell’intelligence nord-americana, e in subordine da quelle inglese e francese.


Hanno ragione i complottisti?

Sentiamo ad esempio quanto afferma l’analista francese Eric Denécé, direttore del Centre Francaise de recherche sur le renseignement:

«Anche io non credo nella spontaneità di queste “rivoluzioni”, che erano in preparazione da molti anni. Vedi le conferenze del 2007-2008 organizzate sotto gli auspici delle ONG nordamericane Freedom House, Canvas e International Republican Institute, e dove erano presenti la maggior parte dei blogger e dei leader di questi movimenti, che hanno instillato il seme della democrazia, creando un ambiente favorevole alle rivoluzioni. Il processo è stato lo stesso di quello che ha preceduto il crollo dell’URSS, la Rivoluzione serba, la rivoluzione arancione in Ucraina o in quella delle rose in Georgia».

Una posizione lapidaria: tutte le rivolte arabe considerate “rivoluzioni colorate”, ovvero volute dagli Stati Uniti e guidate dai sui agenti locali. Alla base c’è un paradigma, che noi non ci stancheremo mai di definire reazionario, per cui non ci sarebbe mai nulla di spontaneo nei processi storici, che i popoli e i proletari non contano un cazzo, e anche quando alzano la testa, stanchi di tirannie e sfruttatori, c’è sempre un demiurgo che li muove a loro insaputa.

Il fatto è che i conti  non tornano. Anzitutto per la sopravvalutazione dell’influenza effettiva dei paesi occidentali. E’ un errore confondere il peso militare preponderante avuto dalla NATO, col peso politico effettivo che giocano le correnti politiche “liberali” filo-occidentali. Nel campo degli avversari del governo libico, dominanti erano e restano gli esponenti di fede islamica, quelli al servizio dei sauditi, degli egiziani e dei qatarioti. Per cui se proprio si volesse parlare di rivoluzione colorata, si dovrebbe dire che è stata una “rivoluzione verdognola”, dove il gioco preponderante sul terreno l’hanno avuto le componenti islamiste sovvenzionate e sostenute da Ryad. Ci sbagliamo? Lo vedremo nei prossimi mesi.

Ma torniamo al nostro ragionamento. Come non c’è alcun passpartout che possa  aprire ogni porta, tantomeno regge la maniacale pretesa che esista un teorema universale che possa spiegare i fatti sociali, i più disparati. Il complottismo ha questo difetto essenziale: è brutalmente semplificatorio e schematico. Per una volta che c’acchiappa cento volte sbaglia. E’ come il pensiero unico dominante alla rovescia.

“Rivoluzioni colorate” targate USA quelle che scuotono da un anno a questa parte i paesi del Nord Africa e del Medio oriente? Ma come? Non erano “colorate” le “rivoluzioni” che abbattevano regimi ostili o invisi al blocco imperialista a guida americana? Che forse Ben Alì, Mubarak, Saleh o l’emiro di Bahrein, non erano tutti fantocci americani? E’ evidente che la spiegazione complottista non spiega niente.

La verità è che milioni di persone nessuno può muoverle a comando, non possono sollevarle né gruppi politici di sinistra, né i Fratelli musulmani, né tantomeno gli agenti segreti, siano essi intellettuali o blogger. Sono le condizioni materiali che muovono grandi masse. E non c’è bisogno di essere veggenti per riconoscere che il fattore scatenante delle rivolte popolari è stata la crisi economica, gli enormi aumenti dei prezzi di beni di prima necessità dovuti alla cosiddetta globalizzazione, nella quale la speculazione e la finanza predatoria hanno avuto un ruolo primario. Non a caso i primi tumulti del dicembre 2010 e gennaio 2011 in Tunisia e in Algeria sono stati chiamati “rivolte del pane”. Una replica della “rivolta del pane “ egiziana della primavera del 2008, repressa nel sangue.

La situazione dei ceti popolari era già pessima e degradata quando sono intervenuti gli aumenti dei prezzi dei generi di prima necessità, cresciuti anche di due volte nel corso del 2010. Questa è stata la scintilla, altro che complotti della Cia!

A questo va aggiunta l’insofferenza, già da tempo irriducibile ed esplosiva verso i tiranni e gli autocrati: allo stesso tempo, fantocci dell’imperialismo, ladri e ricchi sfondati. L’odio delle masse popolari è stato il combustibile che ha dato fuoco alla prateria.

Ma il caso della Libia…

Ma in Libia c’era una situazione diversa, sostengono i complottisti, la gente stava molto meglio che in Tunisia o in Egitto. Questo è in gran parte vero, com’è vero che Gheddafi non era una mera pedina degli occidentali alla stregua degli altri — per quanto si fregiasse di avere Berlusconi (e Scaroni) come “grandi amici”, malgrado da anni si fosse sostanzialmente riconciliato con gli imperialisti, per mezzo dell’alleanza suggellata dal patto per stroncare il “terrorismo”, ovvero il jihadismo islamista.

Che la Libia, paese petrolifero, avesse il reddito procapite più alto dell’Africa, questo è vero, ma comunque ben più basso di quello dell’Arabia Saudita o dei paesi del Golfo. C’è di mezzo la natura tribale della società libica, il carattere assolutistico, paternalistico fino al grottesco e notabilare del regime, ciò che non poteva non avere conseguenze, non solo in fatto di totale assenza di diritti di libertà, ma di distribuzione delle risorse. Non crediamo insomma, come sostengono certi fan di Gheddafi, che in Libia non ci fossero motivi serissimi di malcontento, né pensiamo che tra i motivi della rabbia solo la fame sia da prendere in considerazione. Non ci spiegheremmo ben altre rivoluzioni, quali ad esempio quella iraniana del 1979, se non tenessimo nella dovuta considerazione il peso delle rivendicazioni democratiche e di libertà.

Gli islamisti

Non neghiamo affatto il ruolo decisivo avuto negli eventi, da metà febbraio in avanti, dai gruppi di opposizione a Gheddafi. Ma più ancora di quelli degli esuli in Europa e negli Usa, un peso decisivo ce l’hanno appunto avuto quelli in esilio in Arabia Saudita: i monarchici senussiti da una parte e il Fronte nazionale per la salvaguardia della Libia. Due correnti che hanno un peso importante all’interno del CNT sorto il 27 febbraio a Bengazi. L’opposizione islamica non si esaurisce con queste due frazioni. Esiste un’area, frammentata ma ben presente in Libia, che fa riferimento ai Fratelli musulmani egiziani, più o meno salafiti. Esistono infine i salafiti radicali quali il Movimento Islamico Libico (MIL), guidati da Abdelhakim Belhadj (Abu Abdullah Assadaq), esponente di primo piano del CNT di Bengazi  e adesso, Tripoli conquistata, a capo del Consiglio Militare di Tripoli, ovvero l’organismo che ha effettivamente il potere nella capitale.

Il ruolo di primo piano del MIL ha ovviamente messo in apprensione non solo il governo algerino (che ha emesso una nota ufficiale contro il rischio che la Libia diventi una roccaforte dell’Islam radicale), ma le stesse cancellerie imperialiste le quali adesso si chiedono se la NATO non abbia finito per fare la guerra per il re di Prussia.

Ma perché adesso tutti temono una “deriva” islamica in Libia? Come mai tutto questo improvviso timore? E’ possibile che cadano dal pero e non sapessero che tra gli insorti le falangi più decise e disciplinate fossero proprio quelle islamiche? Forse è proprio così, forse i cervelloni dei servizi segreti occidentali hanno fatto i conti senza l’oste, commettendo lo stesso errore di Gheddafi, quello di aver pensato di aver sradicato e seppellito a suo tempo l’islamismo fondamentalista.

Vero è che Gheddafi, dopo aver tentato di sterminare i suoi jihadisti, a rivolta scoppiata, ha tentato una mossa per recuperarli o, quantomeno, per evitare che si alleassero col CNT, scarcerando,nel febbraio un centinaio di militanti irriducibili del Gruppo Islamico Combattente Libico — Al-Jama’a al-Islamiyyah al-Muqatilah bi-Libya (GICL), di cui la MIL è una propaggine. Da notare che Abdelhakim Belhadj (Abu Abdullah Assadaq) è stato, prima di costituire il MIL, un dirigente di primo piano del GICL.

Noi riteniamo che la questione islamica sia stata centrale nello scatenare la rivolta, che non a caso è scoppiata in Cirenaica, ovvero la parte del paese a forte egemonia islamista.

Ma cos’era questo Gruppo Islamico Combattente Libico?

Esso è stato fondato in Afghanistan, agli inizi degli anni ‘90, da libici che combattevano a fianco dei mujaheddin afghani contro i sovietici, e che sono rimasti per un po’ di tempo in Afghanistan.

Tuttavia il GICL è sorto ufficialmente nel 1995, per essere ficcato qualche anno dopo, su richiesta americana e libica, nella lista nera delle organizzazioni terroristiche stilata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Uno dei suoi principali leader era appunto Abdelhakim Belhadj (Abu Abdullah Assadaq). Il GICL lanciò ufficialmente nel 1995 la jihad contro il regime di Tripoli. Gran parte dei sui membri lasciarono l’Afghanistan e tornarono in Libia per concentrarsi nella lotta per rovesciare il colonnello Gheddafi e sostituirlo con uno stato islamico. Diverse furono le azioni condotte all’interno del paese, tra cui il tentativo del 1996 di uccidere il colonnello.

Da allora il regime libico avviò una campagna di repressione feroce contro il GICL, e proprio a partire dal 1996 avvenne quello che appariva impensabile: la Libia avviò una strettissima collaborazione con i servizi segreti occidentali per combattere al-Qaeda. A causa delle persecuzioni durissime (decine di morti, centinaia di arrestati) la maggior parte dei militanti del GICL scappò all’estero entrando a far parte della rete internazionale jihadista. Il più famoso di questi jihadisti libici fu Anas Al-Liby che secondo gli americani partecipò nel 1998 agli attentati di agosto contro le ambasciate statunitensi a Dar es Salaam, in Tanzania, e Nairobi, in Kenya. Venne arrestato nel maggio 2002 a Londra.

Un altro combattente importante  fu Abu Faraj Farj Ibrahim al-Libi, arrestato in Pakistan nel maggio 2005. Pare che dal GICL egli sia riuscito a salire nella scala gerarchica di al Qaeda, in particolare nel Comitato militare. Era membro del primo cerchio dei seguaci di Osama bin Laden, che conobbe in Sudan nella metà degli anni ’90. Divenne così il capo delle operazioni esterne della nebulosa di Bin Laden, succeduto a Khalid Sheikh Mohammed dopo la cattura di quest’ultimo, avvenuta nel marzo 2003.

L’Iraq e la Libia

I combattenti del GICL hanno avuto un ruolo di punta nella Resistenza contro gli occupanti americani in Iraq.

Un rapporto presentato nel 2007 alla Accademia Militare di West Point, ha dimostrato  come la Cirenaica, epicentro della rivolta contro il colonnello Gheddafi, è stata uno dei focolai principali di reclutamento dei combattenti islamici coinvolti nella Resistenza in Iraq. Dai documenti sequestrati in Iraq dalle forze statunitensi, tra cui un elenco di 600 combattenti aderenti al fronte jihadista attivo in Iraq, si dimostra che 112 di loro erano libici, in gran parte cirenaici. In particolare nativi della città di Derna, da cui sono partiti  centinaia di combattenti per andare a combattere in teatri come l’Afghanistan e l’Iraq. In diversi hanno poi fatto ritorno in Libia.

La scoperta più sorprendente che emerge dallo studio del 2007 di West Point è che la regione che va da Bengasi a Tobruk, via Derna, è «una delle più grandi concentrazioni di terroristi nel mondo, avendo fornito un combattente inviato in Iraq ogni 1.000-1.500 abitanti».

Se l’Arabia Saudita è stata al primo posto in termini assoluti per numero di jihadisti  impegnati nella Resistenza in Iraq (41%), la Libia detiene il secondo posto, 19%, ovvero 112 combattenti jihadisti.

Ciò significa che quasi un quinto dei combattenti stranieri in Iraq venivano dalla Jamahiriya e quel paese, in proporzione alla sua popolazione, ha contribuito di più alla lotta armata contro gli occupanti americani di qualsiasi altra nazione, compresa l’Arabia Saudita. E Derna (90 000 abitanti) ha inviato più combattenti (52) in Iraq rispetto a qualsiasi altra città del Medio oriente.

Un’altra caratteristica del contributo libico, sempre secondo il rapporto americano, si espresse attraverso l’alta percentuale di attentatori suicidi volontari: «I Jihadisti libici avevano molte più probabilità di commettere suicidio (85%) che le altre nazionalità (56%)».

Nel 2009, in cambio di una dichiarazione di pentimento e con la solenne promessa di rinunciare alla lotta armata (che non tutti i prigionieri sottoscrissero), centinaia di militanti del GICL vennero amnistiati (si parla della cifra di 800, il che dal la misura della loro forza), e un ruolo in questo operazione lo ebbe il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam.

Non c’è dubbio che sono centinaia i jihadisti, più precisamente ex-jihadisti (tra cui molti di quelli amnistiati nel 2009, come pure gli irriducibili scarcerati nel febbraio) che hanno combattuto e combattono tra le fila degli insorti.

Uno dei capi dei “ribelli” della Cirenaica, Hakim al-Hasidi — a suo tempo anche leader del GICL e veterano dell’Afghanistan — ha dichiarato ad aprile che i jihadisti che hanno combattuto contro le truppe anglo-americane in Iraq sono ora in prima linea nella lotta contro il regime di Gheddafi. A suo dire sono almeno un migliaio gli uomini sotto il suo comando. Al-Hasidi è oggi un membro del CNT di Derna, responsabile della sicurezza della Cirenaica orientale. Da notare che questi jihadisti, per meglio dire ex, operano tutti sotto il comando del generale Abdul Fatah Younis, ex-ministro degli Interni di Gheddafi.

L’ammiraglio Stavridis, Comandante supremo della NATO in Europa ha confermato da parte sua che: «Decine di veterani del GICL sono coinvolti negli sforzi per rovesciare Gheddafi». Ma ha aggiunto che combattono “a livello personale e non come gruppi organizzati”.

Nemmeno i membri del CNT, come Bourachid Achour, originario anche lui di Derna,  nascondono la presenza dei fondamentalisti nel cuore della “rivoluzione”: «Siamo tutti musulmani […]. Siamo nella fase di liberazione nazionale. Questo non è il momento di esasperare le differenze. Ce ne preoccuperemo a momento debito».

Per concludere. Non c’è alcun dubbio sull’importanza che i salafiti ex-jihadisti libici hanno dato un contributo decisivo nella battaglia per rovesciare il regime di Gheddafi, che essi sono stati pienamente legittimati dalla gran parte degli insorti come “buoni patrioti musulmani”. E non c’è dubbio che la NATO ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco, nella convinzione di poterli estromettere dal potere della nuova Libia che sorgerà sulle ceneri della Jamajirya.

Né c’è dubbio che Gheddafi, in ultima istanza, è stato sconfitto da un’alleanza che ha visto associati gli imperialisti occidentali coi  loro lacchè “liberali” locali, in gran parte comperati tra le file del vecchio regime, islamisti senussiti conservatori legati ai sauditi, pezzi di Fratellanza e riciclati salafiti di origine jihadista  — che pur di rovesciare Gheddafi si sono uniti al satana americano. Se a questo sommiamo il ruolo importante avuto da certe tribù e dalla minoranza berbera, del seguito di cui pur sempre godono i gheddafiani tra alcuni clan, possiamo immaginare che il futuro della Libia non sarà certo rose e fiori. La NATO per adesso canta vittoria, è probabile che sia una Vittoria di Pirro.