La decisione presa per le mancate scuse di Tel Aviv per i 9 civili uccisi sulla nave Mavi Marmara. Ma pesa anche il rapporto della commissione Palmer (Onu) che di fatto capovolge l’accaduto e addossa le colpe maggiori ad Ankara.
L’espulsione dell’ambasciatore israeliano, decisa ieri dal governo di Ankara, è solo quella simbolicamente più forte di un pacchetto più ampio, che include la sospensione degli accordi militari con Tel Aviv. Con queste decisioni la Turchia chiarisce una volta di più la scelta di tornare a giocare un ruolo estremamente attivo nello scacchiere mediorientale. Torneremo certamente sulle conseguenze di questo orientamento strategico. Intanto, sulle ragioni dell’annuncio turco di ieri, pubblichiamo di seguito l’articolo di Michele Giorgio, uscito oggi sul Manifesto.
Rammarico sì, scuse no. Su questa posizione ribadita da Israele si allarga la frattura nelle relazioni tra Tel Aviv e Ankara che ieri hanno toccato il punto più basso per la decisione presa dalla Turchia di espellere l’ambasciatore israeliano, di sospendere gli accordi militari con lo Stato ebraico e di ridimensionare la propria rappresentanza diplomatica a un semplice segretario d’ambasciata. Passi decisi di fronte al rifiuto del governo Netanyahu di scusarsi ufficialmente per l’uccisione di nove cittadini turchi, colpiti dalle raffiche sparate da un commando israeliano l’anno scorso durante l’abbordaggio della Freedom Flotilla impegnata a sfidare il blocco navale della Striscia di Gaza attuato dallo Stato ebraico.
Dietro l’annuncio del ritiro dell’ambasciatore c’è l’irritazione turca per le pressioni israeliane (e probabilmente anche americane) svolte nell’ultimo anno sulle Nazioni Unite che, pensano ad Ankara, hanno portato la commissione d’indagine guidata dall’ex premier neozelandese Geoffrey Palmer ad affermare nel suo rapporto appena reso pubblico (ma anticipato due giorni fa dal New York Times) che se da un lato Israele utilizzò una forza «eccessiva e irragionevole» contro la nave turca Mavi Marmara diretta a Gaza con altre imbarcazioni della Freedom Flotilla, dall’altro l’arrembaggio fu giustificato. Il rapporto, con grande sorpresa per le autorità Turche, non sembra dare peso eccessivo al fatto che l’azione di forza israeliana sia avvenuta in acque internazionali e contro una flottiglia civile che non trasportava «armi per Hamas» (mai trovate a bordo delle navi sequestrate in mare) ma solo aiuti umanitari. Secondo la commissione Palmer i commando israeliani si trovarono a dover affrontare «una resistenza violenta e organizzata da parte di un gruppo di passeggeri», per cui il ricorso alla forza fu dettato dal diritto all’autodifesa, necessaria a proteggere non solo i soldati impegnati sulla Marmara, ma anche il blocco navale di Gaza. Le Nazioni Unite perciò danno pieno appoggio alla posizione tenuta sino ad oggi da Tel Aviv affermando che: «Israele affronta una reale minaccia alla sua sicurezza da parte dei gruppi militanti di Gaza» e che «il blocco navale è stato imposto come misura di sicurezza legittima al fine di evitare che armi entrino nella Striscia via mare», in accordo «con i requisiti imposti dalla legge internazionale».
Una beffa per la Turchia, che pure negli ultimi mesi si è riposizionata boicottando la Flotilla 2 diretta a Gaza e assumendo una linea molto critica nei confronti della repressione ordinata dal presidente siriano Bashar Assad contro le proteste in corso nel suo paese. Ankara, che svolge un ruolo di primo piano all’interno della Nato, deve aver visto la mano di Washington e Tel Aviv anche dietro la raccomandazione rivolta dall’Onu a Israele e Turchia a ristabilire relazioni diplomatiche «nell’interesse della stabilità del Medio Oriente». Parole che sembrano uscite dalla bocca di Barack Obama e che di fatto capovolgono l’accaduto di un anno fa addossando di fatto alla Turchia la responsabilità del bagno di sangue sulla Mavi Marmara e assegnando a Israele un diritto illimitato all’«autodifesa».
La decisione di espellere l’ambasciatore israeliano era nell’aria da alcuni giorni, da quando sono cominciate a circolare le indiscrezioni sulle conclusioni raggiunte dalla commissione Palmer, contrarie a quanto stabilito dall’inchiesta svolta lo scorso anno dalla commissione d’inchiesta del Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani. Ora la crisi è aperta ma Israele non farà un passo indietro. Secondo l’ex ambasciatore israeliano in Italia e portavoce del governo, Avi Pazner, la decisione di Ankara di espellere l’ambasciatore sarebbe addirittura un tentativo per «distogliere l’attenzione» dalle responsabilità turche nell’incidente della Freedom Flottilla. «L’Onu accusa la Turchia di essere all’origine di quell’incidente e dice che Israele ha il diritto di chiudere le frontiere di Gaza per ragioni di sicurezza», ha detto Pazner all’agenzia di stampa AdnKronos. «In Turchia c’è un governo islamico che cerca di attuare una politica pro iraniana e pro islamica, non c’è molto che possiamo fare», ha aggiunto Pazner attaccando frontalmente il premier turco Recep Erdogan.
Da parte loro i media online di diversi paesi occidentali, quelli italiani in testa, ieri gareggiavano nel sostenere la posizione israeliana attribuendo la responsabilità della frattura in modo particolare al ministro degli esteri turco Davutoglu, definito il «tessitore della nuova politica estera di Ankara», che punterebbe «a sfruttare la poderosa crescita economica del paese per farne una potenza nel Medio Oriente e nell’Asia centrale turcofona, sganciandola dall’Europa che non la vuole». Il raffreddamento dei legami della Turchia con Israele quindi rientrerebbe in questa politica voluta da Davutoglu sempre più rivolta ad est. Non viene tenuto in considerazione che Ankara, negli ultimi mesi, ha inviato diversi segnali concilianti a Tel Aviv, fino al punto da impedire la nuova partenza della Mavi Marmara per Gaza, mossa che di fatto ha dato il via alla decisione greca di bloccare, lo scorso luglio, le altre navi della Flotilla. Ankara voleva e vuole le scuse ufficiale per chiudere l’accaduto e per uscire a testa alta dalla vicenda della Mavi Marmara. Tel Aviv rifiuta. E’ questo il punto centrale della crisi tra i due paesi ex alleati.
articolo pubblicato oggi, 3 settembre, sul Manifesto