Tra cinque giorni, il prossimo 20 settembre, la Palestina sarà di scena all’Onu. In quella data, se non vi saranno ripensamenti dovuti alle forti pressioni americane, l’Anp presenterà all’Assemblea Generale la richiesta di riconoscimento dello Stato palestinese. Identica richiesta verrà presentata presso il Consiglio di sicurezza (Cds), dove gli Stati Uniti hanno già annunciato di voler porre il veto.

Si profila dunque uno scenario assai articolato: una vittoria nell’Assemblea Generale, sufficiente ad ottenere lo status di «osservatore permanente di stato non membro» (identico a quello del Vaticano); un voto bloccato da Obama nel Cds, dove sarà tuttavia interessante osservare lo schierarsi degli altri paesi membri. Va ricordato che solo un voto favorevole del Cds consentirebbe alla Palestina di diventare il 194° stato dell’Onu.

Su questo passaggio newyorkese ci sono diverse interpretazioni. Indubbiamente Abu Mazen cerca in questo modo di uscire dall’angolo in cui si è cacciato, ma sarebbe sbagliato non vedere le conseguenze politiche di un voto favorevole nell’Assemblea Generale. Un esito che al momento sembra assai probabile, visto che 130 paesi si sono pronunciati per il riconoscimento, ma non scontato dato che per l’approvazione della risoluzione è necessaria la maggioranza dei due terzi (pari a 129 voti) dei 193 stati membri.

Secondo quanto scritto da Haaretz, l’ambasciatore israeliano all’Onu, Ron Prozor, avrebbe inviato un telegramma al governo Netanyahu in cui afferma l’impossibilità di impedire il riconoscimento da parte dell’Assemblea Generale. Secondo le sue stime solo pochi paesi voterebbero contro il riconoscimento, mentre altri si asterrebbero o non parteciperebbero al voto. Tra quelli che assicurerebbero il voto contrario da segnalare la pattuglia europea, composta al momento da Germania, Olanda, Repubblica Ceca e, ovviamente, Italia.

Naturalmente, vista la concreta situazione in Palestina, con la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza assediata, si tratterebbe indubbiamente del riconoscimento di uno Stato sui generis. Un riconoscimento che preoccupa però assai seriamente il governo israeliano, che teme l’accrescere del proprio isolamento internazionale.

Il tutto in un quadro segnato dalle sollevazioni arabe, dalla crescente ostilità popolare verso lo Stato sionista – basti pensare all’assalto all’ambasciata di Tel Aviv al Cairo – ed alle rinnovate tensioni con la Turchia. E proprio ieri Erdogan ha fatto sentire la sua voce dalla capitale egiziana. Il primo ministro turco ha definito Israele un «bambino viziato che utilizza il terrorismo di Stato», ribadendo che «Lo Stato palestinese deve essere riconosciuto. Non ci sono altre scelte. È un dovere».

Giustamente, negli ambienti della sinistra palestinese il sostegno dell’iniziativa all’Onu viene accompagnato dalla riaffermazione di due punti fondamentali: 1) che la rappresentanza nelle istituzioni internazionali rimanga all’Olp e non invece all’Anp, il cui governo è ormai reso illegittimo non solo dalle scelte compiute contro la Resistenza palestinese, ma anche perché il suo mandato è comunque scaduto nel 2010; 2) che il diritto al ritorno dei profughi (sancito anche dalla risoluzione 194 dell’Onu) non venga in alcun modo intaccato.

Il voto all’Onu è importante anche per un altro motivo. Da decenni si assiste alla farsa di un inesistente «processo di pace». Un trucco che serve a coprire l’occupazione israeliana, volendo far credere che una vera trattativa di pace sia realmente in corso. Questo trucco si basa sulla formula truffaldina dei «due popoli, due Stati». Se all’Onu gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali si schiereranno contro il riconoscimento, quel trucco verrà completamente smascherato. Come si può, infatti, essere per i «due stati» e rifiutare perfino di riconoscerne formalmente uno?

Uno smascheramento tanto più importante se affiancato dal voto maggioritario per il riconoscimento in Assemblea Generale. Ecco perché, con tutti i limiti del caso, la partita all’Onu merita di essere giocata: in nessun modo potrà essere decisiva, ma la Resistenza palestinese ne trarrà probabilmente un certo impulso. Chiarendo che la via del negoziato è oggi chiusa anche a causa della posizione americana, e sancendo l’accresciuto isolamento internazionale di Israele.