Per un primo bilancio della rivolta delle masse arabe
Si chiude un periodo
Dovendo periodizzare diremo che la fase apertasi con l’11 settembre 2001, si è chiusa con il 17 dicembre 2010, il giorno in cui l’ambulante Mohammed Bouazizi si diede fuoco per protesta in Tunisia. Per un decennio è stato l’imperialismo a scandire il ritmo della danze, a stabilire il terreno di gioco e le sue regole. Il disegno, lungamente preparato nell’establishment americano, era quello del “grande Medio oriente”: liquidare una volta per tutte le resistenze armate antimperialiste, quelle islamiste in primis, rovesciare (regime change) tutti i governi ancora ostili (Iran, Gaza, Libano, Siria, Sudan) in nome della democrazia, del laicismo e dei diritti umani, erigere attorno ad Israele un più solido cordone sanitario di regimi alleati come quello di Mubarak.
L’imperialismo si era posto un obiettivo che si è dimostrato fuori dalla sua portata. Fotografando la situazione regionale al dicembre 2010, ad un decennio di distanza dallo scatenamento della “guerra permanente e preventiva” il bilancio per gli americani era sostanzialmente negativo. Il loro disegno imperiale non era stato realizzato. In Afghanistan la Resistenza teneva ancora testa agli invasori, il regime islamico iraniano era ancora in sella, così come a Gaza, a Damasco, a Beirut, a Khartoum. In mezzo la decisiva battaglia di Baghdad, che gli imperialisti hanno potuto vincere, non solo per l’appoggio di tutti i loro fantocci arabi, (Egitto e Arabia saudita in testa), ma anzitutto grazie all’avallo di Theran, che oggi è il vero dominus della scena politica irachena. Per quanto paradossale possa apparire, gli angloamericani hanno scoperto di aver condotto una guerra per procura: hanno debellato la Resistenza sunnita (la cui audacia è stata direttamente proporzionale agli errori compiuti come effetto della egemonia jihadista salafita) ma l’Iraq è ora nella sfera d’influenza iraniana. Israele, da parte sua, ritenendo che il momento fosse propizio per rompere le ossa ad Hezbollah e ad HAMAS, ha sferrato due offensive in grande stile, risoltesi entrambe in dei flop.
Il sostanziale fallimento dell’attacco su ampia scala voluto da Washington dopo l’11 settembre, è un fattore decisivo che spiega l’insorgenza delle rivolte popolari. A causa di esso, infatti, tutti i regimi arabi filo-occidentali, a cominciare da quello egiziano, si sono scoperti più deboli. Essi si sono dimostrati gli anelli deboli della catena imperialistica. Erano destinati a subire l’inevitabile rinculo di quel fallimento. La percezione di questa debolezza, che questi regimi fossero oramai al tramonto, tanto più perché privati del sostegno totale dell’amministrazione Bush, è stato un fattore psicologico decisivo nel dare coraggio alle masse, nel deciderle al corpo a corpo coi tiranni.
Se ne è aperto un altro
Il 17 dicembre 2010, è sotto gli occhi di tutti, ha preso il via lo tsunami che sta sconvolgendo pressoché tutto il mondo arabo, dal Marocco alla Siria. Come al solito c’è chi vede l’albero ma non la foresta, chi si ostina a non riconoscere che siamo in presenza di una tendenza generale, di una concatenazione di eventi. I singoli eventi vanno certo colti nella loro specificità, ne vanno sottolineate le peculiarità, ma non potranno essere davvero compresi e decifrati se non alla luce del flusso generale.
La percezione che con la sconfitta della poderosa offensiva imperiale tutte le satrapie fossero al tramonto ha dato coraggio alle masse, ha facilitato il loro ingresso in scena. Due sono tuttavia i fattori decisivi che spiegano l’ondata di proteste: la situazione economica disperata per la gran parte della popolazione — situazione peggiorata velocemente dopo la crisi finanziaria occidentale del 2008, che ha causato un aumento vertiginoso dei beni di prima necessità —; e l’odio sociale diffuso contro regimi che mentre lasciavano arricchire alle spalle del popolo una ristretta oligarchia di parassiti, rinforzavano i ceppi della dittatura poliziesca.
Se è bastata la scintilla in Tunisia per dare fuoco alle praterie arabe è perché la situazione, per le larghe masse, era diventata insopportabile: insopportabile la miseria crescente, insopportabile l’ingiustizia, insopportabili i soprusi dei governi. Giustizia sociale e libertà: questi i due obiettivi primari alla base di tutte le rivolte, che quindi hanno avuto un carattere eminentemente democratico.
Come ogni rivoluzione democratica in paesi semicoloniali, ove la borghesia ha un carattere sostanzialmente parassitario (borghesia compradora avvinghiata all’imperialismo), essa è per sua natura instabile e malsicura. Tunisia ed Egitto stanno lì a dimostrare che a causa della pressione dell’imperialismo e del carattere comprador delle borghesia nazionali, le conquiste democratiche delle sollevazioni popolari sono a rischio. Le rivoluzioni sono state fermate a metà strada, il potere effettivo resta nelle mani delle tradizionali oligarchie — in Egitto con l’appoggio indiretto della Fratellanza musulmana, la quale teme anch’essa che la rivoluzione democratica vada fino in fondo.
Come andrà a finire la partita in questo paese che sotto ogni punto di vista è il baricentro del mondo arabo, non ci è dato sapere. L’assalto dei manifestanti all’ambasciata israeliana al Cairo nella sera del 9 settembre, indica tuttavia che la via d’uscita dipende da due fattori principali: dalle prossime mosse della Fratellanza musulmana e dall’evoluzione del quadro regionale. A causa della sua direzione conservatrice la Fratellanza offre un sostegno indiretto ai militari di Tantawi, difende la pacificazione per potere svolgere le promesse elezioni, e quindi vincerle in tutta tranquillità. Ammesso che questo disegno si materializzi, proprio i fatti del 9 settembre — i manifestanti non erano islamisti, ma anzitutto quella “generazione 2.0” che i media occidentali ci dipingevano a gennaio e febbraio come discepoli dell’american way of life — dimostrano la strettissima connessione tra il contesto regionale e quelli interni ai singoli paesi. La percezione più precisa di cosa stia relamnete cambiando con le “primavere arabe” ce l’hanno come al solito i sionisti: «Oggi l’orizzonte strategico è, per Israele, più cupo che mai. Il comandante delle retrovie teme ora un conflitto in grande stile: nel suo binocolo non c’è alcuna “primavera dei popoli arabi”, bensì un “inverno dell’islam radicale”. Israele è rimasto quasi senza alleati regionali: con la Turchia la rottura è pressoché totale, l’Egitto di Mubarak appartiene al passato». [1]
Togliete il velo della propaganda (sul ruolo della Turchia torneremo più avanti) e avrete tra le mani la sostanza. La sostanza è che con le rivolte arabe, con la caduta delle satrapie e delle tirannie, sono crollati quegli equilibri regionali che, per quanto precari, assicuravano la supremazia dell’asse Usa-Israele. La sitazione è sfuggita di mano all’impero e la tendenza di fondo è quella allo sganciamento del Medio oriente dalla morsa imperialista.
Il caso libico
Secondo alcuni nostri detrattori gli eventi libici ci darebbero torto. I più esagitati, ovvero i fans del regime di Gheddafi, sono giunti ad affermare che, visto come sono andate le cose in Libia, tutte le rivolte arabe sarebbero nulla di più che “rivoluzioni colorate”, ovvero frutto di macchinazione pilotate dall’Occidente. Il generale viene dunque spiegato alla luce del particolare. Un errore madornale. Dopo aver fatto lauti affari con la Libia, e inciuciato per un decennio con il regime di Gheddafi, dopo averlo accolto a braccia aperte come Figliol prodigo nella santa alleanza contro il jihadismo salafita; inglesi, americani, francesi e italiani, hanno approfittato del caos e della ribellione in Cirenaica per togliere di mezzo quello che non hanno mai cessato di considerare una “testa matta”. Gheddafi, in effetti, non se l’aspettava. Da anni sotto i suoi occhi, francesi e inglesi anzitutto, foraggiavano non solo gli avversari interni, ma anzitutto i suoi luogotenenti (che infatti sono in larga parte passati armi e bagagli con i “ribelli”. Il momento era propizio per tentare di mettere al potere i loro fantocci. Ma questi fantocci non avrebbero mai potuto spuntarla, malgrado l’aiuto della NATO, senza la spinta decisiva dei settori islamisti libici. Questi ultimi, con l’appoggio determinante dei Fratelli musulmani egiziani (e l’avallo di tutte, sottolineiamo tutte, le Resistenze arabe e islamiche, compresa quella palestinese), hanno de facto costituito la spina dorsale dei “ribelli”. Chi si stupisce per questo comportamento degli islamisti libici, di aver deliberatamente accettato l’aiuto determinante della NATO, sottovaluta tre cose: l’abisso che il regime aveva scavato tra se e l’islam politico; la struttura tribalistica del tessuto sociale libico (nessuna alleanza per un clan è sacra, ci si schiera a seconda della convenienza e di chi è visto come vincente); l’insopportabilità della dittatura.
L’esorbitante intervento NATO è stato certo decisivo nel far cadere il regime di Gheddafi, ma se questo è crollato senza occupazione militare, se, come sembra, non ci sarà alcuna Resistenza duratura, questo ci dice molto sulla fragilità di quel regime, che esso fosse oggettivamente al tramonto, come i più percepissero Gheddafi non diversamente di come i tunisini o gli egiziani percepissero Ben Alì o Mubarak.
La caduta di Gheddafi non è la fine del mondo. Inizia proprio ora la complicata e delicata partita che deciderà le sorti del paese, il suo posizionamento geopolitico. Che i fantocci dell’Occidente come Jibril si manterranno al posto di guida è tutto da vedere. Sono numerosi gli analisti che temono che le forze islamiste radicali avranno il sopravvento e che i cosiddetti “liberali” hanno un peso politico prossimo allo zero e che se gli occidentali vorranno mantenere la Liba sotto la loro tutela dovranno obbligare i loro fantocci del Consiglio di transizione a fare blocco con i gheddafiani, reintegrandoli nel processo politico. E questo sarà già motivo di scontro con gli islamisti.
Lo scontro politico in seno ai vincitori sarà durissimo, e uno dei motivi di questo scontro sarà proprio il posizionamento geopolitico della nuova Libia. Contrariamente alla vulgata la NATO non è intervenuta anzitutto per assicurare l’approvvigionamento di petrolio, ma, per incunearsi strategicamente tra la Tunisia e l’Egitto, ovvero fare della Libia una propria piazzaforte per tenere sotto tiro due paesi che essi hanno perso e che rischiano di cadere in mano a forze islamiche nazionaliste ostili. Il che mette in luce tutta l’angoscia degli imperialisti davanti all’ondata di rivolte iniziate nel dicembre scorso e, di converso, il nostro ottimismo.
The syrian connection
La Siria è l’ultimo paese toccato dallo tsunami. Medesime le cause della rivolta; la miseria delle larghe masse, l’insopportabilità del regime poliziesco. La tenuta del regime non si spiega, ovviamente, solo col fatto che in Siria i sistemi di repressione sono decisamente più capillari ed efficaci che negli altri paesi. Il regime del Baath ha un effettivo seguito di massa, astutamente fondato, in un paese composto da diverse confessioni religiose, sul principio del divide et impera. Un seguito di massa che dipende anche dal prestigio che il regime si è guadagnato nel difendere la sovranità nazionale contro le costanti pressioni imperialiste.
Paese di antica civilizzazione, con una società civile articolata, con una sinistra molto radicata, e profondamente segnato dalla miniguerra civile degli inizi degli anni ’80, culminata nel bagno di sangue che si concluse nello sterminio dei rivoltosi sunniti; il movimento di protesta siriano, suscitato dalle giovani generazioni, ha fatto molta fatica ad estendersi e a trovare l’unità. Qui più che altrove occupano un peso decisivo le rivendicazioni democratiche, che ben presto si sono sposate, visti gli eventi libici, col rifiuto categorico di ogni interferenza o intervento straniero.
Questo non è sufficiente ai complottisti per sostenere la rivolta. Essi hanno fatto una scelta a priori: dalla parte del regime, che essi considerano progressista e antimperialista. Ogni cosa che quindi si scagli contro il regime, anche se non c’è lo zampino degli occidentali, va condannata come perniciosa. In questo caso tuttavia i complottisti hanno passato il segno: da cinque mesi sostengono il dovere del regime di stroncare nel sangue la rivolta, che com’è a tutti noto è anzitutto non-violenta. Così facendo essi pensano di assumere una posizione più antimperialista degli antimperialisti. Essi infatti partono da un punto: che ogni rivendicazione democratica, ogni richiesta di maggiori diritti di libertà, sia non solo sospetta, ma un trucco, un Cavallo di Troia per aprire un varco all’Occidente.
Una posizione sbagliata da cima a fondo. Una posizione anzitutto pittoresca, se si considera che tutti, diciamo tutti, i movimenti di liberazione dei popoli oppressi, nel corso della storia, hanno appunto sollevato la bandiera, non solo della sovranità nazionale, ma della democrazia e della libertà. Essi si ritengono antimperialisti, in realtà aiutano Bashar al-Assad, non solo a massacrare il suo popolo, ma a gettarlo tra le braccia degli imperialisti.
Il rifiuto ostinato del regime siriano di riformarsi, di aprire alle richieste democratiche del movimento popolare, di accettare anche solo un dialogo con le opposizioni, è una via pericolosa e avventuristica, che aumenta il rischio di una guerra civile e di un intervento imperialista. Non è un caso che il regime, mentre le proteste non demordono, si trovi completamente isolato. Non solo ha perso il suo prezioso alleato turco. Anche il governo iraniano, a cui non è sfuggita la portata delle rivolte arabe, e quanto la loro natura democratica non sia da opporre alla causa antimperialista, ha messo in guardia Bashar dal cambiare rotta prima che si troppo tardi.
Ecco quanto ha dichiarato Ahmadinejad alla tv libanese di Hezbollah:
Sentiamo: «Il popolo e il governo della Siria devono unirsi per raggiungere un’intesa. Quando c’è un problema tra il popolo e i suoi leader essi devono sedersi insieme attorno ad un tavolo per raggiungere una soluzione, e stare lontani dalla violenza. Non ci si deve uccidere l’un l’altro La violenza in Siria serve solo agli interessi sionisti. (…) C’è bisogno di libertà, di giustizia e libere elezioni. Il popolo di Siria chiede questi diritti e di stabilire un calendario preciso di riforme. L’Occidente non è interessato a riforme ma desidera incoraggiare il conflitto interno per poi giustificare un intervento come in Libia». [2]
Turchia: lo spettro ottomano
Quali scenari nuovi abbia aperto la “primavera araba” lo indica anche la posizione del governo turco. Se fosse vero che la spinta venuta dalle rivolte fosse di segno pro-imperialista o addirittura frutto di una cospirazione occidentale, non si spiegherebbe la radicalizzazione della posizione di Ankara. Da storico alleato di Israele la Turchia di Erdogan si è invece, a maggior ragione, posizionata sulla prima linea del fronte anti-israeliano. Rotti i rapporti diplomatici con l’entità sionista, congelati i contratti di forniture militari. Per di più il governo turco, intenzionato a portare aiuti a Gaza, non ha escluso, dopo la tragedia della Mavi Marmara nel maggio 2010, di far difendere i suoi convogli di aiuti da navi da guerra. Un riposizionamento strategico che cambia fortemente lo scenario geopolitico mediorientale.
E’ facile spiegare perché la Turchia dell’Akp sia vista, agli occhi dell’opinione pubblica araba, quella siriana compresa, come un modello e forse una potenziale guida. E proprio con questo profilo Erdogan si è recato al Cairo nei giorni scorsi, primo leader straniero a mettere piede in Egitto dopo la rivoluzione di Piazza Tahrir, accolto da un bagno di folla. «Riconoscere lo Stato palestinese non è un’opzione ma un obbligo», ha detto Erdogan, non senza invitare il governo egiziano a riconsiderare i suoi persistenti rapporti di sudditanza con Israele.
«La missione di Erdogan è fortemente collegata a esigenze politiche: trovare un’alternativa all’alleanza con Israele e mandare un messaggio al mondo arabo proponendosi come una sorta di modello di coesistenza tra Islam, laicità e democrazia. Ma è anche legata alle istanze economiche di una classe imprenditoriale che cerca sempre nuovi mercati: quatto ministri e un esercito di duecento businessmen seguono il premier in questo tour nordafricano. Egitto e Turchia hanno un giro d’affari di 3 miliardi di dollari l’anno e le aziende turche impiegano circa 50mila lavoratori egiziani. In Libia, secondo mercato di grandi lavori dopo la Russia, Ankara conta di riavviare commesse per 15-20 miliardi di dollari. Il soft power, la penetrazione economica e commerciale, con i prestiti agevolati e le zone di libero scambio, accompagnata dalle comuni radici musulmane e da un secolare passato ottomano, è la vera arma strategica dei turchi sulla sponda Sud. Il nuovo raìs sa come muovere i cuori ma anche i denari». [3]
Come la vedono gli israeliani? Oltre a minacciare Ankara di aiutare i curdi del Pkk, essi preferiscono considerare che la svolta di Ankara è anzitutto il frutto della perdita dei due alleati siriano e iraniano, e di malcelati interessi economici: «Dei pacifisti, a Erdogan non importa nulla, dice un viceministro israeliano, quel che l’infastidisce, è l’enorme giacimento sottomarino di gas appena scoperto, che Israele e Cipro intendono sfruttare nei prossimi anni. Vuole metterci le mani, O impedire che ce le mettano altri». [4]
Sulla stessa linea alcuni commentatori europei, i quali segnalano che finché la Turchia farà parte della NATO, e finche l’Unione europea sarà il suo principale partner economico, le mosse di Erdogan sono solo tattiche, giusto per incunearsi «nel vuoto politico spaventoso apertosi in Medio oriente con le rivolte arabe… ma un ruolo forte della Turchia nella regione potrebbe essere utile e anche incoraggiato dai paesi occidentali». [5]
La Turchia di Erdogan non è certo uno “stato antimperialista”. L’Akp è l’espressione di una borghesia anatolica che fa anzitutto i propri interessi, ma che li faccia per il Re di Prussia, e che le sue mosse geopolitiche siano solo tattica, questo è tutto da dimostrare. Fossimo al posto degli strateghi occidentali, prenderemmo sul serio le ambizioni turche, che sotto molti punti di vista possono essere definite “neo-ottomane”. La tendenza è ben espressa da quanto in varie occasioni sostenuto dal ministro degli esteri turco Davutoglu, che immagina un ruolo turco di potenza regionale e implicitamente considera archiviabile la vicenda NATO. Ankara, respinta ad Occidente, guarda ad Oriente e a Sud, seguendo il solco geopolitico tracciato nei secoli. In questo senso l’uso di un islam coniugato con la democrazia, ma declinato in maniera identitaria e sovranista. Nel “vuoto politico spaventoso apertosi in Medio oriente con le rivolte arabe” Ankara gioca la sua partita, candidandosi a guida di un Islam moderno e indipendente, tenendo rapporti non solo con la galassia della Fratellanza musulmana, inclusa HAMAS, ma pure con forze nazionaliste, come avviene in Siria.
Un nuovo califfato è impossibile, oggigiorno, ma se la Turchia spera davvero di giocare un ruolo guida, non può limitarsi a sostenere le rivolte arabe, deve porsi come campione del riscatto arabo e islamico, quindi come forza di contrasto all’Occidente, in aperta competizione, che non significa conflitto, con le medesime ambizioni iraniane, che non hanno la stessa forza tra le masse sunnite, anche a causa del fattore identitario shiita.
Note
[1] Aldo Baquis, L’angoscia degli israeliani, La Stampa, 7 settembre 2011
[2] Al-Manar, 24 agosto 2011
[3] Alberto Negri, Il sole 24 Ore, 14 settembre 2011
[4] Francesco Battistini, Il Corriere della Sera del 12 settembre 2011
[5] Lucia Annunziata, La Stampa, 7 settembre