«Mentre ancora le ultime roccaforti di Gheddafi resistono all’avanzata dei ribelli libici, tra le file di questi ultimi si profila un conflitto fra l’ala liberale e l’ala islamica, che potrebbe avere serie conseguenze per il futuro del paese» – scrive il quotidiano al-Quds al-Arabi

«Né c’è dubbio che Gheddafi, in ultima istanza, è stato sconfitto da un’alleanza che ha visto associati gli imperialisti occidentali coi loro lacchè “liberali” locali, in gran parte comperati tra le file del vecchio regime, islamisti senussiti conservatori legati ai sauditi, pezzi di Fratellanza e riciclati salafiti di origine jihadista — che pur di rovesciare Gheddafi si sono uniti al satana americano. Se a questo sommiamo il ruolo importante avuto da certe tribù e dalla minoranza berbera, del seguito di cui pur sempre godono i gheddafiani tra alcuni clan, possiamo immaginare che il futuro della Libia non sarà certo rose e fiori. La NATO per adesso canta vittoria, è probabile che sia una Vittoria di Pirro».

Così si concludeva il nostro articolo sulla situazione in Libia del 31 agosto scorso (vedi La battaglia di Tripoli e il ruolo degli islamisti). Un’analisi che sostanzialmente coincide con quella dell’editoriale di al-Quds al-Arabi che potete leggere di seguito.

Il conflitto per il patrimonio della Libia e per i suoi enormi depositi nelle banche occidentali (160 miliardi di dollari secondo le stime più modeste) ormai si muove in parallelo con un altro conflitto per i vertici del potere all’interno del paese, che ha luogo fra liberali e islamici, e le cui premesse hanno cominciato a emergere in superficie nei giorni scorsi, prima ancora che venissero riconquistate le ultime roccaforti del colonnello Muammar Gheddafi a Sirte, Bani Walid e Sabha.

Se da un lato molti concordano sul fatto che l’intervento militare della NATO a favore delle forze dell’opposizione libica, nel loro conflitto con il precedente regime, non sia avvenuto per ragioni puramente umanitarie, ma anche per ragioni commerciali, dall’altro l’inasprirsi delle divisioni fra l’ala liberale libica – che è stata dietro la richiesta di intervento della NATO e dietro il corteggiamento nei confronti di Israele attraverso Bernard-Henri Lévy, il filosofo francese noto per la sua stretta amicizia con Benjamin Netanyahu e con il ministro della difesa Ehud Barak – e l’ala degli islamici rappresentata dai due sheikh Abdel Hakim Belhaj, comandante del consiglio militare di Tripoli, e Ismail Salabi, comandante del consiglio militare di Sirte e Bani Walid, minaccia di indebolire la legittimità del Consiglio nazionale transitorio (CNT) agli occhi del popolo libico, e rischia di mettere in pericolo la riconciliazione nazionale nel paese.

Gli islamici costituiscono la maggioranza schiacciante dei ribelli libici. Essi – ed in particolare l’ala più intransigente al loro interno – nutrono la sensazione che il CNT li abbia trattati come inferiori, e non abbia dato loro la quota di incarichi ministeriali e governativi che essi meritavano all’interno del Consiglio direttivo, che è una sorta di consiglio ministeriale responsabile della gestione degli affari del paese. Infatti i liberali laici, che per la maggior parte avevano vissuto all’estero e in Occidente, o erano stati ministri e alti funzionari del passato regime, si sono accaparrati i più alti incarichi ed hanno trattato con arroganza i comandi islamici sul campo, i quali nei passati sette mesi hanno offerto in sacrificio centinaia, e forse migliaia, di martiri negli scontri con le unità militari di Gheddafi in tutta la Libia.

Lo sheikh Ali Salabi, padre spirituale degli islamici in Libia, e membro dell’Unione internazionale dei dotti musulmani (IUMS) guidata da Yusuf al-Qaradawy, ha sorpreso molti all’inizio di questa settimana quando ha accusato i membri del Consiglio direttivo di voler derubare il popolo libico, ed ha chiesto al presidente del Consiglio, Mahmoud Jibril, di dimettersi e di lasciare ai libici ed alle vere forze patriottiche del paese il compito di costruire il futuro della Libia. Egli ha anche attaccato i simboli del liberalismo laico come Mahmoud Shammam (responsabile dell’informazione), Ali Tarhouni (responsabile del petrolio e delle finanze) e Abdel Rahman Shalqam (consigliere del presidente del Consiglio) accusandoli di monopolizzare le decisioni legate al settore finanziario e sanitario, ed ai settori relativi agli altri servizi.

L’importanza dell’attacco dello sheikh Salabi discende dal fatto che esso è giunto dalle prime pagine di Aljazeera.net, il sito pubblicato da Doha, la capitale del Qatar, che è lo Stato che più ha sostenuto la rivoluzione libica. Ciò potrebbe indicare che in realtà si tratta di un messaggio rivolto al CNT dallo Stato ospitante, tanto più che la televisione Libya TV che è stata finanziata dal Qatar ha ignorato gli islamici – primo fra tutti lo stesso sheikh Salabi – fin dalla sua nascita, e gli incontri che essa ha organizzato con loro sono stati molto scarsi, secondo molti esponenti islamici.

Le manifestazioni, a cui hanno partecipato alcune centinaia di liberali a Tripoli, contro le dichiarazioni dello sheikh Salabi – un fenomeno insolito e in ogni caso prematuro – riflettono probabilmente la gravità delle divisioni di cui abbiamo parlato, e la possibilità che esse si trasformino in scontri sanguinosi tra le due parti in conflitto.

Il segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen ha mostrato di parteggiare per i liberali ed allo stesso tempo ha espresso i timori dell’Alleanza Atlantica nei confronti degli islamici, quando lunedì scorso, in un’intervista rilasciata al quotidiano britannico conservatore Daily Telegraph, ha parlato del rischio che la Libia cada nelle mani degli estremisti islamici se non verrà rapidamente costituito un governo stabile.

Il CNT ha commesso gravi errori, di cui secondo noi il principale è stato quello di comportarsi con arroganza e prepotenza non solo nei confronti degli islamici, che hanno sopportato il peso maggiore della rivoluzione contro il deposto regime dittatoriale, ma anche nei confronti dei paesi vicini – Algeria ed Egitto – accusati di appoggiare Gheddafi, e perfino nei confronti della superpotenza cinese. Alcuni membri del Consiglio, o ad esso affiliati, si sono spinti ad usare un linguaggio razzista non solo nei confronti dei libici di colore, ma nei confronti degli africani in generale, con il pretesto che il deposto dittatore aveva utilizzato alcuni di loro come mercenari.

Questa mentalità, che denota superbia e arroganza, e istigazione ai danni dell’altro, e che si contraddistingue per l’emarginazione di alcune forze libiche che hanno compiuto enormi sacrifici per rovesciare il regime dittatoriale di Gheddafi sui campi di battaglia, difficilmente potrà guidare il paese, fondare uno Stato democratico con una magistratura imparziale e indipendente, o porre le basi di una riconciliazione nazionale che realizzi le aspirazioni di milioni di libici all’interno di uno Stato fondato sulle istituzioni, sull’uguaglianza, e sui buoni rapporti con i paesi vicini.

L’esempio più evidente di ciò è rappresentato dal fatto che la maggior parte di questi paesi, ed in particolare l’Algeria, il Niger, il Mali e il Ciad, così come altri venti Stati africani con in testa il Sudafrica, sono ancora riluttanti a riconoscere il CNT.

da Medarabnews
Traduzione di Roberto Iannuzzi