La crisi è incertezza, il crollo è certezza

«E’ davvero immorale desiderare che la crisi economica sfoci nel crollo?»

La crisi è incertezza. Il crollo è certezza. Non si deve confondere la crisi con il crollo. Con il crollo la crisi termina. Il crollo è la fine della crisi, l’avvento della certezza in luogo dell’incertezza.
La crisi è incertezza, il persistere degli scricchiolii, la diffusione lenta dei suicidi, la tristezza, il ragionare morboso sulla crisi medesima, il timore del crollo o che comunque il futuro non sarà più come il passato.

Per i detentori di capitale, la crisi è il dubbio se sia valso la pena lavorare e reinvestire tanto; dubbio che si insinua perché il capitale accumulato e investito continua a svalutarsi. Avviamenti, know-how, marchi, brevetti, impianti, immobili, scorte, azioni, obbligazioni, quote di società; (quasi) tutto vale meno o potrebbe valere molto di meno già domani. La crisi è una lenta svalutazione complessiva del capitale e comunque il dubbio che esso possa subire da un momento all’altro una forte svalutazione. Per i lavoratori subordinati, la crisi è timore di perdere il posto e con esso, eventualmente, la casa e persino gli affetti; timore di non ritrovare un’occupazione; timore di non essere in grado di offrire, magari lavorando in nero, le proprie energie psico-fisiche per un reddito di sussistenza (cibo e calore) e terrore di non essere in grado di autoprodurre quanto necessita alla sussistenza. La crisi è paura, delusione e depressione. Per liberi professionisti e artigiani la crisi significa diminuzione o mancanza di incarichi, difficoltà e/o impossibilità di farsi pagare, sovente lavorare nel dubbio che il credito non sarà mai riscosso. Per tutti, salvo i molto ricchi e gli imbecilli, la crisi, come incertezza sul futuro, è parsimonia, accortezza, lenta riduzione dei consumi.

Che certezza sopravviene con il crollo? La certezza della fame per alcuni; della violenza e della mancanza di sicurezza per tutti. La certezza del ritorno nella loro patria di molti extracomunitari, dell’aumento notevole del lavoro fisico, della riduzione enorme delle imprese che forniscono “servizi”, della rinascita di mercati locali. La certezza che moltissimi diranno: “mi devo rimboccare le maniche”.

Se poi crolla anche la moneta – e dico crolla, non perde significativamente di valore – divengono certi anche disintegrazione di alcuni Stati, per implosione o secessioni, mutamenti di regimi monetari e politici, nonché guerre, civili e tra Stati. E si organizzano rapidamente economie nazionali, attraverso vincoli anche rigidissimi alla libera circolazione delle merci, dei capitali e del lavoro.

Il crollo comporta anche la certezza della nascita o del risorgimento di idee e movimenti radicali, nonché di rivolgimenti geopolitici. Diverrebbero diffuse parole d’ordine oggi fatte proprie da sparute minoranze: mai più organizzare la nostra vita in funzione della crescita infinità! Mai più lasciare la nostra vita in balia delle forze del mercato! L’autosufficienza alimentare dovrà essere un valore irrinunciabile, perché abbiamo constatato che, in caso di crollo, senza di essa si ha morte e violenza! Mai più emanare leggi che valorizzano il capitale messo a rendita o il grande capitale che riduce a lavoratori dipendenti anche coloro che un tempo non lo erano! Mai più affidare le nostre vite alla “libera” competizione globale tra capitali svincolati dall’appartenenza alle nazioni e tra nazioni! Mai più consentire alla Banca centrale (oggi europea) di essere competente a promuovere leggi (europee)! E così via.

Il crollo è certezza della sofferenza ma anche certezza che rinasca la speranza. Tanto maggiore è la sofferenza, tanto più alta è la speranza. E siccome viviamo in tempi nichilistici, caratterizzati dall’assenza di speranza, si deve convenire che il crollo recherebbe con sé anche un valore altamente positivo: la speranza. Vi sarebbe nuova speranza. La speranza di un futuro diverso dal passato. Questa speranza, che è speranza collettiva, è intimamente legata al crollo. Senza il crollo la speranza è debole; è speranza di alcuni; è rinchiusa nella rete (di internet); può aspirare, al più, a coagulare le poche forze resistenti in un progetto alternativo che al sistema appare (ed effettivamente è) innocuo.

Il crollo abbatte le ideologie dominanti; le sgretola; le disintegra; le smentisce e le seppellisce, fino a quando esse non riemergeranno a distanza di decenni – le idee, infatti, non muoiono ma si assopiscono per poi riprendere forza. Il crollo smentisce i profeti vincenti e dà ragione ai profeti dimenticati o ignorati. Il crollo rimuove i presupposti impliciti sulla base dei quali veniva esercitato il potere. Il crollo crea scontri e guerre, ossia situazioni in cui le parti che esercitano la violenza sono almeno due e non una soltanto: il potere consolidato.

E’ davvero immorale desiderare che la crisi economica sfoci nel crollo? E i movimenti di pensiero critici, resistenti, antagonisti e antimoderni sono logicamente coerenti quando desiderano uscire dalla crisi, ossia dalla incertezza, attraverso la ripresa e non attraverso il crollo? Oppure quando, convinti che una ripresa sia impossibile, desiderano e teorizzano una transizione che dovrebbe avvenire senza il crollo e magari proprio per evitare quest’ultimo? Senza il crollo, il nichilismo continuerà a farla da padrone. Senza il crollo, non risorgerà la speranza collettiva diffusa. Senza speranza collettiva diffusa nessun futuro migliore è possibile.

Cosa vi è caro? Le idee della rivoluzione francese? E non furono necessari un regicidio, dunque un evento epocale, morte, terrore diffuso e le campagne napoleoniche perché esse si diffondessero? Il principio di nazionalità, grazie al quale ogni popolo può edificare la propria civiltà? E quante guerre per l’indipendenza e l’unità delle nazioni furono necessarie, perché tanti popoli avessero l’occasione di tentare quell’edificazione? Le idee della rivoluzione d’ottobre e comunque le idee socialiste? E non furono necessari milioni di morti, perché quelle idee vincessero in alcuni luoghi della terra e condizionassero, direttamente o indirettamente, la storia e la vita di decine e decine di popoli? La Costituzione della Repubblica Italiana? E non fu necessario combattere – e, per giunta, farlo dalla parte sbagliata – e perdere la seconda guerra mondiale perché quel testo fosse scritto? Il localismo, la terra natia o nella quale avete scelto di vivere? I profumi, i sapori e i suoni che stanno scomparendo? La rivalutazione del coraggio e l’eclissi del cinismo? Che torni il tempo dei leoni e cessi la lunga epoca delle volpi? La prevalenza della qualità sulla quantità? E come credete che la vostra dottrina possa acquisire forza, se non mutano radicalmente le condizioni materiali che hanno estinto i vostri valori nella considerazione collettiva?

Tutte le dottrine critiche nei confronti della modernità, come essa si è andata evolvendo negli ultimi trenta anni, sarebbero massimamente rinvigorite dal crollo. Si può credere veramente e sinceramente in quelle dottrine, senza desiderare il crollo? Si può volere un grande mutamento politico, senza previamente desiderare il venir meno delle condizioni che attualmente rendono impossibile quel mutamento?

Fonte: Appello al popolo