
Sulla rivolta popolare nello Yemen, il più povero, non per questo il “più arretrato tra i paesi arabi”, abbiano scritto a più riprese. Contro il regime di Ali Abdullah Saleh (monarca de facto, al potere sin dal 1978) vaste masse iniziarono a mobilitarsi sin dalla metà di gennaio, mentre Tunisia ed Egitto erano in fiamme. Una rivolta generale, che ha spinto per le strade tutte le opposizioni, dagli islamisti alla sinistra, dai nazionalisti nasseriani a quelli baathisti. Una rivolta popolare che ha subito avuto come principale obbiettivo le dimissioni del Presidente-padrone Saleh, il quale è riuscito a restare in sella solo grazie all’appoggio diretto degli Stati Uniti e dei sui alleati del Golfo, sauditi anzitutto.
L’argomento principale che Saleh ha opposto ai dimostranti è stato che la sua caduta avrebbe aperto le porte al terrorismo di al-Qaeda. Un alibi simile a quello usato da Gheddafi in Libia subito dopo la rivolta di Bengazi. La differenza con Gheddafi è che mentre questo alibi non ha funzionato in Libia, in Yemen ha sortito i suoi effetti, poiché è la giustificazione con la quale Obama, facendosi beffa della sua formale posizione di simpatia verso le rivolte arabe, continua a tenere in piedi questo regime corrotto.
Un pretesto, quello di al-Qaeda, che il Presidente ha ripetuto ieri, 25 settembre, nel suo messaggio televisivo, appena tornato dalla sua convalescenza in Arabia Saudita, fuggitovi dopo il devastante attentato da egli subito il 3 giugno scorso.
Nel suo discorso televisivo Saleh ha promesso libere elezioni, parlamentari e presidenziali, a condizione che si trovi un accordo di massima con le opposizioni, ma sempre brandendo lo spauracchio qaedista. Egli ha infine reiterato la proposta al principale blocco delle opposizioni (la Riunione Congiunta dei Partiti, formata anzitutto dagli islamisti di Islah e dal partito socialista), di formare un governo di transizione sotto egida presidenziale. Vari leader dell’opposizione hanno risposto picche. Essi non solo non vogliono far parte di alcun governo prima delle sue dimissioni, non si fidano delle sue promesse, e dunque non faranno cessare le proteste che durano da ben otto mesi e mezzo. Le opposizioni non dimenticano che già nel febbraio scorso, dopo un mese di violentissimi disordini (che sono continuati fino alla settimana scorsa), sotto l’egida degli sceicchi del Golfo e degli Usa, Saleh aveva proclamato in forma solenne un percorso per andare a libere elezioni, per stracciarlo in quattro e quattr’otto.
Dalle notizie che giungono da Sanaa la piazza non crede per niente alle parole di Saleh. Le proteste stanno infatti continuando, e anche ieri ci sono stati morti in varie località del paese. Il coordinamento delle opposizioni chiede le dimissioni di Saleh come primo passo per cessare la lotta, ma l’autocrate non ne vuole sapere. Di qui lo stallo politico, destinato a continuare.
Resta quindi improbabile che il paese esca dalla sua crisi con un accordo tra il regime e le opposizioni. I più in Yemen pensano che la lotta dovrà continuare, fino alla cacciata del Presidente, una lotta difficile, dati gli appoggi internazionali di cui Saleh gode. Una battaglia difficile anche a causa delle divisioni in seno alle opposizioni, che sono non solo di natura politica o ideologica, ma anche tribale.