Negli ultimi due giorni la città di Dakhla, situata nella zona sud del Sahara Occidentale, è stata teatro di violenti scontri tra gli abitanti del quartiere al-Massjid e i coloni marocchini residenti nel sobborgo di al-Wakala, che domenica sera, al termine di una partita del campionato di calcio locale, hanno attaccato alcuni cittadini saharawi e preso d’assalto le loro case. La situazione è rapidamente degenerata durante la notte e la guerriglia urbana è proseguita l’indomani sotto lo sguardo complice delle forze di polizia.

di Jacopo Granci da Rabat

Sette morti (tra cui due agenti), decine di feriti e di auto e negozi bruciati. Questo è il bilancio ufficiale diffuso nella giornata di ieri (martedì 27 settembre) dall’agenzia spagnola EFE, mentre le violenze si sono fermate solo dopo l’ingresso dell’esercito nella cittadina, dal 1979 sotto il controllo di Rabat.

L’episodio non è inedito, seppur sorprendente per la sua gravità. Le aggressioni ai danni dei Saharawi, a Dakhla come a Laayoune o Smara, si succedono con una frequenza sempre più preoccupante. L’ultima solo pochi mesi fa, nel febbraio 2011. Anche in quell’occasione i coloni di al-Wakala si erano scagliati contro gli abitanti di al-Massjid, lasciandosi alle spalle un morto e la rabbia della popolazione locale, esasperata dalla continua violazione dei propri diritti fondamentali. Dopo trentacinque anni di occupazione e un conflitto ancora irrisolto, ormai caduto nell’oblio, in Sahara Occidentale la vita umana non sembra più avere un grande valore. Almeno per il governo marocchino e per la comunità internazionale.

MINURSO: né referendum né diritti umani
Il 27 aprile scorso, come ogni anno dal cessate il fuoco firmato nel 1991 tra Marocco e Fronte Polisario, il consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è riunito per esaminare il rapporto del segretario generale Ban Ki Moon e rinnovare il mandato della MINURSO (la missione Onu per l’organizzazione del referendum in Sahara Occidentale).

La risoluzione 1979, approvata all’unanimità dai quindici membri del Palazzo di Vetro, ha confermato la permanenza dei circa trecento effettivi già dislocati nella ex colonia spagnola (parte ad ovest del “muro di sabbia” – e mine – eretto dalle forze marocchine, parte nella zona controllata dalla Repubblica Araba Saharawi Democratica) fino al 30 aprile 2012.

Tuttavia la realizzazione del referendum – obiettivo dichiarato della missione e primo passo verso l’autodeterminazione del popolo saharawi (nel cammino verso l’indipendenza) – non sembra più essere all’ordine del giorno.

Prevista inizialmente per il gennaio del 1992, la consultazione ha infatti subito sistematici rinvii, fino al definitivo accantonamento sopraggiunto nel 2007, quando Rabat ha sottoposto alle Nazioni Unite il suo “piano di autonomia” per il Sahara Occidentale, rifiutato dal Polisario e dal suo alleato algerino. Il Marocco, che dal 1975 ha occupato due terzi della regione assicurandosi una annessione de facto delle “storiche province del sud”, non intende rinunciare alla propria sovranità su Laayoune, Smara e Dakhla, mentre il Fronte di stanza a Tindouf (territorio algerino) continua a sostenere la legittimità della causa indipendentista, portando a supporto delle proprie rivendicazioni la risoluzione Onu 1514 (1960) che riconosce “il diritto dei popoli all’autodeterminazione” e la carta fondativa dell’Unione Africana (1963) che impegna i membri a rispettare “l’intangibilità delle frontiere coloniali”.

Per il leader del Polisario (e presidente della RASD) Mohamed Abdelaziz, la proposta di autonomia formulata da Rabat non contempla il diritto del popolo saharawi all’autodeterminazione e l’attuazione del referendum resta la sola via per mettere fine alla contesa: “la risoluzione 3437 dell’Assemblea generale ha definito quella marocchina come una «occupazione militare», di conseguenza la sua presenza nel Sahara Occidentale è illegale”, riferiva nel 2006 lo stesso Abdelaziz, denunciando lo “statuto di potenza amministratrice” di cui si è fregiata la monarchia alaouita a dispetto dei pronunciamenti della comunità internazionale.

Oltre ad aver rifiutato la smilitarizzazione della regione prevista dagli accordi del 1991, il Marocco ha integrato unilateralmente il territorio sahariano attraverso una politica di colonizzazione, avviata nel 1975 con la “marcia verde” e proseguita fino ad oggi (in Sahara Occidentale su 300 mila abitanti circa 250 mila sono marocchini), riuscendo ad imporre il proprio controllo da Laayoune fino a Laguira.

La risoluzione del 27 aprile, se da un lato non ha apportato nessuna novità concreta, rappresenta l’ennesima beffa per il popolo saharawi.
La votazione (posticipata di quindici giorni sul calendario previsto) è stata infatti preceduta da un acceso dibattito che ha spinto Ban Ki Moon a rivedere il rapporto presentato al Consiglio di Sicurezza. Il nodo da sciogliere, non era il dubbio sul rinnovo o meno della missione, ma la possibilità di estendere le competenze della MINURSO alla tutela dei diritti umani ed al monitoraggio delle violazioni in tutta la regione (Sahara Occidentale e campi di rifugiati a Tindouf), come normalmente previsto per tutti i mandati delle Nazioni Unite. Una richiesta espressamente formulata da Navanethem Pillay, Alto commissario Onu per i diritti umani, che al paragrafo 119 della relazione inviata al Segretario generale ad inizio aprile sollecitava “la creazione di un meccanismo internazionale per un controllo effettivo, continuo e indipendente dei diritti dell’uomo” inquadrato dalla stessa MINURSO. Tuttavia l’iniziativa del commissario Pillay, appoggiata del Parlamento europeo ma respinta in modo categorico dalla diplomazia marocchina e francese, è stata accantonata da Ban Ki Moon.

“Da molti anni ormai, dietro le porte chiuse del consiglio di Sicurezza, la Francia utilizza il potere di dissuasione conferitole dal diritto di veto per tenere le Nazioni Unite al di fuori di ogni questione che riguardi il rispetto dei diritti umani nel territorio annesso dall’alleato marocchino”, ha riferito Philippe Bolopion, rappresentante di Human Rights Watch presso la sede Onu, in merito all’accaduto. Una dichiarazione che spiega tanto l’atteggiamento del Segretario generale, quanto la scarsa volontà dimostrata dalla comunità internazionale nel mettere fine ad un’impasse ultratrentennale.

“L’ultima colonia”
A Dakla, ma soprattutto a Laayoune e Smara, dalla ripresa dell’“intifada” nel 2005 (manifestazioni e sit-in soffocati in maniera violenta), si è registrato un netto incremento degli arresti e dei maltrattamenti all’indirizzo degli indipendentisti locali e degli attivisti della società civile, in particolare i membri del Codesa e dell’ASVDH (associazioni saharawi per la difesa dei diritti umani demonizzate dalla monarchia alaouita). Nelle due città di riferimento, i legittimi abitanti della regione vivono di fatto in stato d’assedio, reclusi in veri e propri quartieri-ghetto e costretti con frequenza al coprifuoco. Dall’ottobre 2009 l’accanimento di Rabat ha raggiunto livelli tali da suscitare imbarazzo perfino nelle cancellerie di Washington e Madrid, storiche sostenitrici del Marocco nella ‘question du Sahara’ assieme all’Eliseo.

Prima l’espulsione di Aminatou Haidar, emblema internazionale della resistenza pacifica all’occupazione nonché presidente del Codesa, respinta alla frontiera per essersi rifiutata di riconoscere la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale e riammessa a Laayoune solo dopo “l’interessamento” di Hilary Clinton e uno sciopero della fame nell’aeroporto canario di Lanzarote durato 32 giorni. Poi l’irruzione violenta delle forze di sicurezza, l’8 novembre 2010, nel “campo della dignità” di Gdeim Izik (a pochi chilometri dalla capitale sahariana) dove si erano riuniti circa settemila Saharawi per protestare contro le difficili condizioni socio-economiche e le vessazioni inflitte dalle autorità marocchine.

L’intervento, dopo la distruzione completa dell’accampamento, è proseguito nei giorni seguenti per le strade di Laayoune: oltre ai soldati e alla polizia del regno, hanno preso parte ai rastrellamenti anche “milizie coloniali”, e la città si è subito trasformata in un campo di battaglia (Rabat ha segnalato l’uccisione di undici agenti ed ha aperto un’inchiesta parlamentare sull’accaduto – dai risultati ancora ignoti – mentre almeno due sono i morti accertati tra i manifestanti). Per gli abitanti saharawi “il bilancio è pesante.

Centinaia di civili, tra cui donne e bambini, sono stati selvaggiamente repressi, alcuni feriti con colpi d’arma da fuoco (…); trasferiti nei centri di detenzione, sono stati torturati e le donne violentate; le sevizie si sono ripetute perfino negli ospedali, dove il personale medico si è rifiutato di prestare soccorso (…). Le case dei quartieri saharawi sono state prese d’assalto e saccheggiate”. Questa la testimonianza resa da una delle vittime, la vice-presidente dell’ASVDH Djimi Elghalia, durante la 16° sessione del Consiglio Onu per i diritti umani (Ginevra, 5 marzo 2011). Un’ulteriore conferma alle denunce di HRW, che nell’inchiesta datata 26 novembre 2010 ha accusato il Marocco di aver fatto ricorso alla forza in maniera ingiustificata e sproporzionata, impedendo l’accesso al territorio ai giornalisti indipendenti e agli osservatori internazionali.

Il testo della risoluzione 1979 approvata il 27 aprile scorso, oltre ad aver ignorato le raccomandazioni dell’Alto Commissario per i diritti umani e delle principali ong internazionali, ha suscitato la dura reazione dei rappresentanti nigeriano e sudafricano al Consiglio di Sicurezza i quali, pur avendo accordato il rinnovo della missione, non hanno rinunciato ad esprimere le loro critiche al documento prima della votazione.

Il delegato di Abuja si è detto deluso dall’atteggiamento del Consiglio nei confronti del Sahara Occidentale, che non gode dello stesso sostegno offerto al Sud Sudan (dove in gennaio è stato votato il referendum per la secessione da Khartoum). Anche l’omologo sudafricano ha parlato di “due pesi due misure”, prima di insistere sulla necessità di “un meccanismo di protezione permanente e credibile per il popolo saharawi” e di ricordare agli altri membri dell’assise che il Sahara Occidentale rappresenta ad oggi “l’ultima colonia del continente africano”.

da Osservatorio Iraq