Il nostro disaccordo con il compagno Giacchè

Perché euro e debito non possono essere un tabù

Vladimiro Giacchè è persona seria e competente. Leggiamo sempre con attenzione i suoi scritti, che generalmente condividiamo. Recentemente ha aderito al Pdci, ma la non condivisione di una scelta politica non ci impedisce di apprezzare lo sforzo analitico delle sue riflessioni. Questa volta, però, ci troviamo in disaccordo totale con la sua posizione su euro e debito. Una posizione che emerge alla fine di un testo (20 tesi sulla crisi) che uscirà sulla rivista Essere comunisti, ma già anticipato da alcuni siti.

Si tratta di 20 tesi, molto sintetiche, che ricostruiscono il percorso della crisi dal 2007-2008 ad oggi. Tesi largamente condivisibili fino alla numero 18, che vedono come centrale lo snodo della trasformazione del debito privato in debito pubblico, e che si soffermano giustamente sulla peculiarità delle dinamiche europee. Da queste premesse l’autore – a nostro modesto avviso contraddicendo quanto scritto fino a quel punto – arriva invece alla diciannovesima, e decisiva, tesi. Quella per cui: «L’alternativa, però, non può essere rappresentata dalla parola d’ordine del ripudio del debito che qualcuno agita a sinistra». In verità quel però appare assai rivelatore, come se lo stesso Giacché si rendesse conto della contraddittorietà poc’anzi rilevata.

Ormai, il «ripudio del debito» non è più una parola d’ordine che «qualcuno agita a sinistra». Noi, che l’abbiamo sempre sostenuta, ci troviamo oggi in buona compagnia, ad esempio con i contenuti e le conclusioni della grande assemblea che si è tenuta a Roma il 1° ottobre, della quale peraltro non abbiamo nascosto alcuni limiti (vedi «Noi il debito non lo paghiamo»).

Ci sarà pure un motivo se le ragioni della cancellazione del debito si vanno facendo strada. Probabilmente, in molti cominciano a capire che se questa è una strada difficile, l’altra che viene proposta a sinistra – quella di una fantomatica altra Europa da costruirsi per via «riformista», senza mettere in discussione né l’euro né la struttura dell’UE – è semplicemente impraticabile.

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Ma veniamo alle argomentazioni di Giacchè contro la cancellazione del debito. In primo luogo egli sostiene che la cancellazione verrebbe pagata in misura significativa anche dai piccoli risparmiatori italiani. In secondo luogo che la cancellazione obbligherebbe ad un successivo avanzo primario e dunque a ulteriori sacrifici. In terzo luogo che essa, determinando l’uscita dall’euro, produrrebbe una forte svalutazione che finirebbe per colpire il potere d’acquisto dei lavoratori.

Diciamo subito che Giacchè ha ragione su un punto: cancellazione del debito ed uscita dall’euro sono due facce della stessa medaglia. Un obiettivo senza l’altro non può stare in piedi come proposta politica. Chi ci segue sa che ne siamo da sempre convinti. Per cui, da angolazioni in questo caso opposte, non è difficile essere d’accordo su questo con il vicepresidente di Marx21.

Il fatto che oggi l’Unione Europea, in accordo con gli Stati Uniti ed il Fondo Monetario Internazionale, stia trattando con il governo Papandreu i termini di un consistente default (50%?) mantenendo però la Grecia nell’eurozona non deve trarre in inganno. Si tratta infatti dell’estremo tentativo di salvare l’euro, applicato però ad un Paese che ha un debito complessivo pari a circa un sesto di quello italiano. Inutile dire che nel caso dell’Italia un’ipotesi del genere – che implicherebbe tra l’altro l’accettazione «volontaria» della perdita di centinaia di miliardi di euro da parte delle principali banche francesi e tedesche – non è neppure da prendersi in considerazione.

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Entriamo ora nel merito dei tre argomenti utilizzati da Giacché per sostenere la sua diciannovesima tesi. Per non fare torto all’autore li riportiamo testualmente:
«a) Il default sul debito italiano sarebbe pagato in parte non piccola proprio dalla popolazione italiana e in particolare da lavoratori e pensionati che da decenni sono abituati a vedere proprio nei titoli di Stato il porto più sicuro per i propri (pochi) risparmi: in altre parole non si può, per il solo fatto che lo si desidera, dare al concetto di default selettivo (che significa semplicemente “non pagamento di alcune emissioni di debito e non di altre”) un significato diverso e più gradito (onorare il debito rispetto ad alcune classi di creditori e non ad altre)».

Non so se Giacché abbia letto il mio articolo Cancellare il debito, nel quale iniziavo a fare alcune ipotesi sul come cancellarlo. Ipotesi naturalmente discutibili, ma che avevano uno scopo ben preciso: quello di cercare di dimostrare la fattibilità di questa scelta, se guidata con criteri politici dettati dalla difesa degli interessi, non solo immediati, delle classi popolari del nostro Paese.

In ogni caso la sua argomentazione mi pare straordinariamente debole. A differenza di quello che ancora scrive  la signora Rossanda, Giacché sa bene che il bot people degli anni ottanta del secolo scorso non esiste più. E non esiste più proprio perché la lunga stagnazione dell’ultimo decennio ha prodotto un’enorme contrazione del cosiddetto «risparmio delle famiglie», una categoria da prendersi peraltro con le molle, dato che si va dalla famiglia operaia fino a quella dell’alta borghesia nazionale.

Sta di fatto che oggi la quota di titoli del debito pubblico in mano a questa categoria è intorno al 7/8%. Una quota ancora consistente, pari a circa 150 miliardi, e tuttavia ben più bassa di quella del passato. Questo vuol dire che dobbiamo disinteressarcene? Assolutamente no, ma significa dare la giusta dimensione del problema. Se per una volta mi è permessa un’autocitazione, riprendo quanto ho scritto nell’articolo già richiamato:

«Come trattarla (la categoria delle “famiglie” – ndr) al momento della cancellazione del debito? Un’ipotesi ragionevole potrebbe essere quella di tutelare al 100% i possessori di titoli fino alla soglia che lo Stato garantisce attualmente sui conti correnti bancari (pari a circa 103mila euro), restituendo solo parzialmente la parte eccedente fino ad una soglia successiva da stabilirsi, arrivando infine all’azzeramento totale per i patrimoni più elevati. Senza soffermarsi in dettagli eccessivi, lo spirito dovrebbe essere quello di una tutela inversamente proporzionale al patrimonio posseduto».

Una tutela – questo è il punto – che Giacchè considera impraticabile. E francamente non si capisce il perché. Dalla sua affermazione la motivazione sembrerebbe di tipo tecnico, e la cosa appare veramente assurda. Cosa impedirebbe di trattare la restituzione del debito in base ad una precisa classificazione dei creditori (fondamentalmente: banche italiane ed estere, fondi italiani ed esteri, assicurazioni e «famiglie»)? I possessori dei titoli corrispondono a persone fisiche, banche, fondi o società: tutti soggetti facilmente identificabili, purché li si voglia identificare.

Naturalmente – ma questa è un’ovvietà – una simile operazione potrebbe essere condotta solo da un governo espressione di una sollevazione popolare. Solo dei folli potrebbero pensare di rivendicarla al governo attuale o, ancora peggio, a quello oligarco-europeista attualmente in gestazione congiunta Draghi-Napolitano-grandi banche. Che quest’ultimo piaccia al Pd, e che con il Pd vogliano allearsi i vari rimasugli ex arcobalenici, inclusi quelli falcemartellati, è solo un pittoresco dettaglio della tragica situazione italiana.

Cosa impedirebbe ad un governo popolare (definiamolo così per capirci), pienamente sovrano e forte del consenso di massa, di attuare la diversificazione di trattamento che Giacchè considera impraticabile? Un governo che – aggiungiamo – dovrebbe avere il pieno controllo di un sistema bancario nazionalizzato, non avrebbe troppe difficoltà tecniche. Semmai i problemi sarebbero altri, di natura eminentemente politica, dato che i vampiri della finanza internazionale non sarebbero particolarmente lieti del trattamento riservatogli e non rinuncerebbero certo a reagire con tutti gli strumenti a disposizione.

Ma quando nei cortei si grida «noi la crisi non la paghiamo», pensiamo forse che perseguire questo obiettivo sia un’allegra passeggiata contornata da pacifici girotondi, gazebo per le primarie, pittoreschi travestimenti allietati da qualche fumosissima «narrazione»? Vladimiro Giacché, che continuiamo a considerare uno studioso estremamente serio e preparato, sa perfettamente che non ci sono «passeggiate» all’orizzonte. Ma proprio per questo dovrebbe sapere qual è il bivio che abbiamo di fronte: quello tra una sollevazione che spazzi via l’attuale classe politica – tutta variamente asservita alle oligarchie finanziarie -, ed un massacro sociale di enormi proporzioni.

Proprio perché l’alternativa è questa, comprendiamo sempre meno i «comunisti» che in sostanza ci dicono allibiti: «ma voi pensate alla rivoluzione!». Eh già, e quando mai dovremmo pensarci se non proprio nel momento in cui il sistema è in affanno, le classi dirigenti sono spaesate, la loro capacità di egemonia culturale è profondamente scossa? Certo, non ci illudiamo. La trentennale letargia delle masse, di cui i partiti ex arcobalenici portano una fetta non piccola di responsabilità, non verrà superata in un giorno; ed in quanto alla soggettività politica c’è da ricostruire praticamente tutto. Ma tutte queste difficoltà soggettive fanno scomparire l’oggettività della situazione? Non abbiamo forse il dovere di indicare una via d’uscita credibile, laddove nessuna credibilità può esservi senza la necessaria radicalità?

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Passiamo ora al secondo argomento di Giacchè, che anche in questo caso citiamo integralmente:
«b) Ogni default costringe a un avanzo primario che non ha nulla da invidiare a quello richiesto dai più oltranzisti pasdaran del pareggio di bilancio, e questo per il semplice motivo che dopo di esso i mercati internazionali dei capitali sarebbero indisponibili a finanziare il deficit italiano per diversi anni». 

Questo argomento è ancora più debole del primo. Giacché sostiene che, poiché cancellando il debito l’Italia sarebbe divenuta inaffidabile, lo Stato non potrebbe più emettere – almeno per qualche tempo – nuovi titoli del debito pubblico. Saremmo dunque costretti all’avanzo primario.

Francamente c’è da restare interdetti. Non solo un governo sovrano, con il controllo del sistema bancario, a partire da quello di Bankitalia, non avrebbe difficoltà alcuna ad emettere nuovi titoli sul mercato interno qualora lo ritenesse necessario, ma il fatto è che l’avanzo primario c’è già oggi. Oggi – ottobre 2011 – se l’Italia non avesse da pagare gli interessi sul debito il bilancio dello Stato sarebbe già in attivo! Un dato che certo non è ignoto a Giacchè.

Ma allora perché tanto catastrofismo? L’avanzo c’è già e non c’è davvero bisogno di scomodare i «più oltranzisti pasdaran del pareggio di bilancio»! Non solo. Con le altre misure che egli stesso indica alla tesi numero venti (colpire duramente l’evasione fiscale, i grandi patrimoni, eccetera) non sarebbe poi troppo difficile finanziare le necessarie riforme strutturali.

Su questo punto la divergenza con Giacché, ma non solo con lui, è la seguente: Giacché, e molti altri, pensano a queste misure per affrontare l’emergenza debito, noi invece le pensiamo come strumento per costruire un’economia al servizio della società, per ricostruire il sistema scolastico, quello sanitario, quello previdenziale, per assicurare la piena occupazione, per rispondere ai bisogni fondamentali delle classi popolari. Quel prelievo di ricchezza a questo dovrà servire, oltre che a creare le condizioni per rimettere in moto l’economia, questa volta in base a principi di giustizia ed uguaglianza.

Se invece adottassimo la linea dell’odierna sinistra – in sostanza conforme alla proposta di mega-patrimoniale avanzata dal banchiere Profumo – avremmo sì una manovra che ci verrebbe presentata come «equa». Ma quell’«equità», della quale ci sia consentito di dubitare (un po’ come quella del manifesto fantozzian-rifondarolo dell’autunno 2006 dal titolo «finalmente anche i ricchi piangono»), servirebbe soltanto ad alimentare le casse e i forzieri della speculazione internazionale. Ecco un’altra divergenza, non certo secondaria, sulla quale saremmo ben felici di avviare una discussione.

In ogni caso, tornando al punto dell’avanzo primario, è difficile non vedervi un catastrofismo che porta oggettivamente a sminuire la catastrofe in cui siamo già immersi. Questo atteggiamento è piuttosto diffuso nelle formazioni ex-arcobaleniche, laddove si preferisce glissare sui nodi del momento (debito ed euro) per evocare futuri scenari apocalittici nel caso ad esempio l’Italia uscisse dall’eurozona.

E’ chiaro come in questo caso le motivazioni tattiche ed elettorali – fare un qualsiasi accordo pateracchio con il Pd diverrebbe automaticamente impossibile qualora si toccasse il tabù euro – prevalgono sull’analisi razionale della realtà. Conosciamo la serietà di Giacchè e non gli imputiamo un simile atteggiamento, ma la concreta traduzione politica della sua tesi 19 a questo conduce.

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Arriviamo così al terzo argomento. Quello sicuramente più forte:
«Un default andrebbe di pari passo con l’uscita dall’euro e una forte svalutazione, tra i cui effetti più immediati ci sarebbe una notevole deflazione salariale, nella forma di un crollo del potere d’acquisto dei lavoratori».

L’obiezione alle nostre posizioni è precisa ma non sorprendente. In fondo è quello che dicono un po’ tutti: che senza euro saremmo già al disastro, che se decidessimo di uscirne avremmo una svalutazione di tipo argentino, e chi più ne ha più ne metta. Quello che i sostenitori di questo catastrofismo omettono sistematicamente è il dirci invece dove ci porterà la permanenza nell’euro.

Quel che non ci viene detto è però osservabile nei fatti. Con l’euro, non con la lira, i redditi della maggioranza dei lavoratori italiani, si sono ridotti drasticamente. Con l’euro, non con la lira, si è verificata un’inflazione occulta, ben poco registrata dalle statistiche ufficiali, ma ben presente a chi giornalmente va a fare la spesa.

Osservare la realtà delle cose dovrebbe portarci poi a riflettere su un fatto ancor più significativo, quello per cui tutti i paesi in emergenza debito (i cosiddetti PIIGS) sono tutti, ma proprio tutti, appartenenti all’eurozona. Un caso? Giacchè sa perfettamente che non si tratta di un caso. Ecco cosa scrive nella tesi numero 14:
«Per quanto riguarda più specificamente i paesi coinvolti dalla crisi del debito sovrano, le manovre economiche imposte da BCE e Unione Europea stanno conducendoli a una depressione economica che aumenta la divergenza rispetto ai paesi del “gruppo di testa” dell’Unione, rendendo di fatto sempre più insostenibile l’esistenza stessa di una moneta comune e sempre più probabile il default di questi paesi».

Dunque non è un «caso». Ma allora, se questa è la malattia dell’Europa qual è la medicina? Questo Giacchè non ce lo dice per la semplice ragione che non può dircelo. A noi pare che la prima medicina, anche se non l’unica, sia la riconquista della sovranità monetaria, la cui assenza nella gabbia dell’euro è precisamente la ragione per cui sono proprio i paesi dell’eurozona quelli colpiti a morte dallo strano virus del debito pubblico.

Ma torniamo alla questione evocata al punto c relativamente ai temi della svalutazione e della perdita del potere d’acquisto. Ora, che una svalutazione sia necessaria è nelle cose, che sia necessariamente elevata come si dice, assolutamente no. Sembra quasi che a sinistra si sappiano usare solo argomenti terroristici e di fatto conservatori.

In particolare si vorrebbe far credere che ad una svalutazione x% della lira, o come vorremo chiamare la nuova moneta, dovrebbe per forza corrispondere una diminuzione equivalente del potere d’acquisto. Non è così ed i fatti ce lo dimostrano. Ma su questo torneremo tra poco.

Sia chiaro, nessuno deve pensare che si possa uscire dall’attuale situazione senza pagare un prezzo. Ma le questioni decisive sono l’entità del prezzo, chi lo paga e per quali obiettivi. Un cosa la sappiamo con certezza: se passa la linea delle oligarchie finanziarie rappresentate dai Draghi e dai Profumo il prezzo sarà altissimo, il grosso verrà pagato dalle classi popolari, e lo scopo sarà quello di mantenere in vita il capitalismo casinò che ha portato all’attuale rovina.

L’uscita dall’euro non sarà indolore, ma se sarà il frutto di una scelta politica come quella che proponiamo essa sarà gestibile. Tutto dipenderà da chi avrà in mano il potere politico. Mica pensiamo di avanzare una scelta del genere lasciando poi liberi i mercati finanziari di fare i loro comodi! Un governo popolare dovrà pilotare l’eventuale svalutazione entro i limiti convenienti al rilancio dell’economia, né più né meno. Potrà riuscirci? Niente è facile, ma nessuno strumento dovrà essere precluso, né la chiusura della Borsa, né il blocco dei movimenti dei capitali. Si tratta insomma di operare uno sganciamento dal circuito internazionale del capitalismo casinò. Si pensa che sia un obiettivo utopistico? Se lo si pensa, tanto varrebbe alzare subito bandiera bianca; se invece si vuole lottare è doveroso sapere che la vera utopia è quella di chi crede che siano riformabili l’UE, la Bce e tutte le altre istituzioni su cui si regge la folle costruzione europea.

Il punto è che la misura della svalutazione non dovrà essere lasciata al caso, tanto meno ai ricatti dei mercati finanziari, ai quali un Paese di 60 milioni di abitanti, dotato ancora del secondo sistema industriale d’Europa, posizionato nel centro del Mediterraneo, con tutte le potenzialità che questo offre, può dire di no.

Detto questo vediamo adesso la fondatezza del rapporto tra svalutazione e potere d’acquisto. Che un rapporto esista è ovvio, ma come abbiamo già detto esso è assolutamente diverso da quello che si vorrebbe far credere. Per dimostrarlo è utile ricorrere ai precedenti storici. Ne faremo due: il primo riferito alla svalutazione sul dollaro del periodo 1974-1985, il secondo all’ultima svalutazione ufficiale della lira, quella del 13 settembre 1992.

Nel 1974 per acquistare un dollaro erano necessarie 627 lire, nel 1985 ne occorrevano invece 1909. In undici anni la lira si deprezzò nei confronti della moneta di riferimento internazionale, con la quale si pagavano ieri più di oggi le materie prime fondamentali, di oltre il 300%. Se fosse vero il ragionamento prevalente a sinistra sul rapporto svalutazione – potere d’acquisto, i lavoratori italiani sarebbero morti di fame a metà degli anni ottanta. In quel decennio invece il valore reale dei salari aumentò, assieme ai diritti ed alle conquiste del welfare.

Nel 1992, dopo aver bruciato ingenti riserve di Bankitalia (governatore Carlo Azeglio Ciampi), il governo Amato si decise infine alla svalutazione nei confronti delle altre monete dello SME, il cosiddetto Serpente monetario europeo che consentiva piccole oscillazioni (tra il 3 e il 5%) tra le valute nazionali di allora. La svalutazione fu, a seconda delle monete (tra le quali ovviamente il dollaro) tra il 20 e il 25%. La scala mobile era già stata abolita, ma forse il potere d’acquisto dei salari calò in quella misura? Assolutamente no. L’effetto sull’inflazione fu infatti calcolato in due punti percentuali. Due, non venti o venticinque! Perché nell’anno 2011 le cose dovrebbero andare diversamente?

Ora qualcuno si chiederà com’è possibile che il rapporto tra inflazione aggiuntiva e svalutazione possa essere solo di un decimo. Il fatto è che la svalutazione non ha alcun effetto sulle merci prodotte e scambiate all’interno del Paese, che l’incidenza delle materie prime sui prezzi finali è assai minore di quanto si crede, che le stesse aziende straniere sarebbero costrette ad abbassare i prezzi dei prodotti destinati all’Italia pur di non perdere del tutto le proprie fette di mercato.

Insomma, se dopo la svalutazione  vado al mercato ortofrutticolo ed acquisto prodotti italiani niente sarà cambiato nei prezzi, idem se devo acquistare un elettrodomestico od una giacca. Se invece vorrò acquistare gli stessi prodotti, ma provenienti dall’estero, pagherò un prezzo maggiore, ma non nella misura della svalutazione. Se andrò dal benzinaio, pagherò l’effetto della svalutazione sulla materia prima, che nel caso dei prodotti petroliferi (probabilmente quello più svantaggioso per i consumatori) incide per non più del 20% sul prezzo finale. Nel caso di una svalutazione del 20% avremmo dunque un rincaro del 4%, assai meno degli aumenti dell’ultimo anno frutto delle varie ruberie consentite alle compagnie petrolifere…

Se la svalutazione ha i suoi prezzi, che non sono comunque quelli propagandati, essa ha anche i suoi vantaggi: determinare una ripresa della produzione, creare le condizioni di base per la piena occupazione, rendere più svantaggiosa la delocalizzazione e più vantaggiosi gli investimenti interni. Aspetti che si tende a dimenticare in nome dei dogmi del capitalismo casinò, che non guarda alla produzione ma alla speculazione, che può infischiarsene dell’eventuale rovina di un intero Paese proprio in virtù della sua natura sovranazionale.

Ricapitolando, l’uscita dall’euro, così come la intendiamo noi, non significa automaticamente svalutazione disastrosa, ma semmai svalutazione controllata e finalizzata alla rinascita di un’economia da indirizzare su principi di uguaglianza e giustizia sociale. La svalutazione produrrebbe una certa inflazione, ma la perdita del potere d’acquisto che determinerebbe sarebbe assai inferiore a quella che si ha con le manovre a cascata per salvare l’euro, cioè per continuare ad alimentare la speculazione internazionale. Ed infine, a tutela dei redditi dei lavoratori, perché mai un governo popolare dovrebbe rinunciare a reintrodurre una scala mobile con un adeguamento automatico dei salari uguale per tutti?

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Abbiamo polemizzato con Giacchè, ma la nostra non è certo una polemica di tipo personale. Il fatto è che negli argomenti della diciannovesima tesi ritroviamo lo stesso conservatorismo dei gruppi dirigenti della sinistra ex arcobalenica. Gruppi dirigenti che sanno solo riproporsi all’infinito per una buona retribuzione dell’unica funzione che sanno svolgere, quella di stampella ad un centrosinistra ad egemonia Pd.

Ci rifiutiamo di credere che lo stesso Giacché sia già finito nell’orrendo tritacarne di questa politica politicante, così capace di uccidere ogni intelligenza come ogni indipendenza di giudizio. Chi vivrà vedrà. Quel che possiamo dire è che la debolezza dei suoi argomenti nella circostanza è la conferma delle ottime ragioni della battaglia che stiamo conducendo per la cancellazione del debito e l’uscita dall’euro.