Non c’è nulla da condannare… o quasi

Abbiamo ieri partecipato alla immensa manifestazione. Eravamo interni al grandissimo spezzone «Noi il debito non lo paghiamo», costituitosi il 1 ottobre scorso. Avremmo dovuto essere a ridosso della testa del corteo. L’enorme partecipazione di popolo ha fatto tuttavia saltare ogni ordine di posizionamento, relegandoci molto indietro. Non abbiamo dunque partecipato alla rivolta di strada. Ciò che non ci impedisce, non solo di comprenderla, ma di comprenderla in barba a tutta la retorica condannista dei “teppisti”, dei “provocatori”, dei “violenti”.

Chi di noi ha visto scorrere, dall’inizio alla fine, il fiume umano d’indignazione, con tutti i suoi molteplici rivoli, racconta di un movimento potente in ampiezza, sorprendente per il livello di coscienza. Parla di una moltitudine “anonima e tremenda”, uscita improvvisamente dalle catacambe in cui era stata cacciata dal sistema. Una gioventù che avverte non solo che questa crisi economica segna uno storico passaggio epocale, ma che da essa se ne esce soltanto con una sollevazione popolare che spazzi via non solo e non tanto la casta politica, ma le oligarchie finanziarie di cui questa casta è solo comitato d’affari. Dall’astratto grido “Noi la crisi non la paghiamo” al ben più esplicito e politico “Noi il debito non lo paghiamo”. Non fosse che per questo il «blocco del 1 ottobre» è quello che meglio incarna un vastissimo comune sentire, molto, molto di più dei veri e propri promotori della manifestazione, attestatisi sullo slogan mellifluo «Cambiamo l’Europa per cambiare l’Italia». Incarna, ma non rappresenta, che nessuno per ora può pretendere di rappresentare.

Poiché questo iato colpiva anzitutto della giornata di ieri: la diffusa, radicale consapevolezza che solo sollevandoci si può cambiare il corso delle cose, da una parte e, dall’altra che essa non si rappresenta, né vuole essere politicamente rappresentata da formazioni politiche, anche extra-istituzionali prigioniere del loro moderatismo politicista. I morti hanno tentato, fallendo, di allungare le mani sui vivi, e questo è un bene. Un male, un male grande, è che l’immensa manifestazione, causa gli scontri, si sia dispersa e abbia fatto addirittura dietro-front. Una vera e propria rotta disordinata.

Chi è causa del suo mal pianga se stesso

Questo dietro-front su Piramide, attesta, due cose. La prima è la grave impreparazione organizzativa dei promotori, che non sono stati minimamente in grado di far sì che il corteo serrasse i ranghi e raggiungesse Piazza S. Giovanni — che nelle condizioni date era a quel punto la cosa da fare. Ma questo fallimento organizzativo dipendeva a sua volta da un dato tutto politico, dalla grave sottovalutazione dei promotori della diffusa rabbia giovanile che da mesi andava montando e che non era difficile si sarebbe riversata nella manifestazione. Un segno che chi ha promosso la manifestazione, prigioniero di mediazioni politiche e tatticismi, ha perso il contatto, se non con la realtà, con le zone di conflitto, con le aree sociali di massa del precariato giovanile.

Ora è facile prendersela coi “teppisti”, gli “anarchici”, i “violenti”, ma se certe aree politiche, pur minoritarie, hanno potuto dettare il ritmo delle danze (anche in maniere esecrabili) e prendere ad un certo punto la testa del corteo per andare a prendersi Piazza S. Giovanni, incarnando quindi esse la pulsione sovversiva della gioventù precaria, è perché altri hanno rifiutato deliberatamente di incontrarla, di dargli voce, tra l’altro accettando un percorso del corteo che alcuni hanno definito “funebre”, altri imposto dal potere. Non si fanno le pentole dimenticando di fare i coperchi. Non si può osannare Piazza Tahrir e le primavere arabe, sostenere la legittimità delle rivolte di piazza in ogni dove, e poi pensare che a Roma sarebbe finito tutto a tarallucci e vino. Di nuovo: ma in che mondo vivono quelli che hanno organizzato la manifestazione? Davvero pensavano che tutto sarebbe finito in una pacifica sfilata?

Lo spartiacque

Piaccia o no col 15 ottobre inizia un nuovo ciclo, sociale e politico. Il segnale potente che è arrivato è che dentro questa crisi sistemica, pur in forme spinose, si va delineando un’area sociale di insorgenza, di ribellione indomabile, che rifiuta di essere rappresentata e canalizzata dai partiti e dai sindacati tradizionali. Una fiamma che non sarà spenta nel pantano della sinistra istituzionalizzata. Questo segnale era evidentissimo ieri, prima ancora che scoppiasse la guerriglia.

E’ inevitabile, nell’ordine delle cose, che questa insorgenza, prima o poi tenderà a rappresentarsi, a modo suo. Guai a coloro che tenteranno di coartare il nuovo nel vecchio. Nonostante oggi il fronte unito dei condannasti strilli più forte, il messaggio che è arrivato a milioni di italiani, è che sono finiti i tempi dell’assoggettamento, della paura e della pavidità. La crisi economica aveva suonato la sirena dell’allarme, il 15 ottobre le trombe della riscossa. Indietro non si può più tornare. La giornata di ieri è un punto di partenza, esattamente come tutti ci auguravamo, solo che partiamo da un punto più avanzato di quanto ci si poteva aspettare.

Adesso si torna nelle città, a costruire il movimento di massa, a renderlo forte, a radicarlo nel tessuto sociale. I condannisti, spaventati, si tireranno indietro, proveranno ad alzare una barriera tra “buoni” e “cattivi”. Occorre impedirlo, ad ogni costo. Occorre tenere tutti dentro questo nuovo movimento, e se qualche pezzo si perderà per strada, che si abbandoni la zavorra dei ceti politici, che non pensano alla sollevazione sociale, ma alle prossime elezioni per raccattare qualche strapuntino in un Parlamento che non rappresenta oramai, se non le classi dominanti, coi suoi ammennicoli e cortigiani.

Che quella all’orizzonte sia una rivoluzione democratica e una sollevazione non-violenta non dipende solo da chi la fa, ma da chi vuole ostacolarla. Vogliamo cambiare il paese con le buone, ma siamo condannati ad essere realisti. Se il sistema userà le cattive maniere, non restano che due strade: o arrendersi, vanificando tutto e lasciare le cose come stanno, anzi molto peggio, o avanzare ad ogni costo.

 

da Sollevazione