Sono stato abbastanza colpito dal fatto che Paolo Ferrero, il segretario di Rifondazione Comunista, e quindi un personaggio di rilievo pubblico, continui a difendere la vecchia tesi operaista dei primi anni Sessanta per cui “questo capitalismo finanziario nasce come risposta al ciclo di lotte e alla forza dei lavoratori negli anni Sessanta e Settanta” (Cfr. “Liberazione”, 9 ottobre 2011). In altre parole, la globalizzazione finanziaria di oggi non sarebbe uno sviluppo della logica di espansione del capitale, ma una “risposta” all’insubordinazione della classe operaia fordista. E ancora: “Il neoliberismo è la modalità con cui il capitale riprende il comando”. E ancora: “Questo nuovo capitalismo finanziario nasce come risposta capitalistica al più grande ciclo di lotte che si sia mai visto in epoca moderna, con l’obiettivo di svincolare il capitale dalla forza del movimento dei lavoratori”. E potremmo continuare.

Ferrero non è l’ultimo arrivato, ma è un militante di lungo corso. Il fatto che il 9 ottobre 2011 continui a “spiegare” la crisi capitalistica con il modello dell’operaismo italiano dei primi anni Sessanta dimostra abbondantemente che questo modello teorico è stato sempre l’unico dominante nel cosiddetto “marxismo italiano” dell’ultimo mezzo secolo. Il problema è allora: quali sono le conseguenze?

Le conseguenze sono molte, ma in questa sede, per ragioni di spazio, le compendierò così: sotto l’etichetta di “comunismo” in Italia continua a dominare una somma di economicismo rivoluzionario, ingentilito e insaporito dal “politicamente corretto” (femminismo di genere, pacifismo rituale e declamatorio, innocua retorica sui cosiddetti “beni comuni”, polemica con il cattolicesimo organizzato identificato con l’omofobia, la misoginia e il patriarcalismo, eccetera).

Il motore dinamico della storia viene identificato nelle lotte operaie, cui il capitalismo “risponde”, evidentemente con lo scopo primario di indebolirle. Si tratta di una variante sindacalistica della stessa teoria delle Moltitudini di Negri e Hardt, che ha però lo stesso codice teorico: c’è un soggetto agente primario (la classe operaia per Ferrero, le moltitudini per Negri), cui in seconda battuta risponde il capitale. Evidentemente la finanziarizzazione  è una tecnica per indebolire Gasparazzo, il noto operaio-massa. Leggere per credere.

Una simile concezione schematica e semplificata del mondo deve necessariamente essere “arricchita” di elementi culturali, che vengono tratti dalla critica futuristica della società piccolo-borghese, e che sono indistinguibili dalla cultura “radicale” Pannella-Bonino, di cui “Repubblica” dà una versione compatibile con la cosiddetta “secolarizzazione”. In questo senso l’economicismo (struttura) viene integrato dal politicamente corretto di “sinistra” (sovrastruttura), e questa fusione viene proposta come piattaforma per la rifondazione del “comunismo” (addirittura!).

Ho già scritto due brevi interventi sui documenti congressuali del PRC, ma in essi mi ero limitato a criticare una “linea politica”, quella dell’alleanza elettorale subalterna con il PD. So bene che i politici amano parlare di “cultura” quando essa è politicamente innocua, ma reagiscono furiosamente quando gli si tocca la “linea politica” che per loro è come il denaro per i capitalisti. Ora, però, tocco un problema che mi interessa molto di più della minestra parlamentare, il problema della concezione globale della crisi capitalistica. Vederla ridotta a una “risposta” ad un ciclo di lotte certamente importanti, ma storicamente non molto rilevanti rispetto a fenomeni storici e geopolitici macroscopici, mi fa capire che ormai mancano i cosiddetti “fondamentali”.

Nell’ultimo cinquantennio il solo “economista” marxista italiano che si è opposto a questo codice è stato il mio amico Gianfranco La Grassa. Non a caso è sempre stato inascoltato, in quanto non era “utilizzabile” per un simile modello di spiegazione privo di fondamenti sia storici che economici. Ma questo comporterebbe un’ennesima ricapitolazione dei dibattiti “marxisti”, o presunti tali, dell’ultimo cinquantennio. Essa è impossibile in questa sede.

Spiace quindi che nel suo ultimo lavoro (Cfr. Oltre l’orizzonte, Besa ed.) La Grassa getti al vento la sua teoria conflittuale e strategica del capitalismo (tanto più seria del modello Negri-Ferrero) con dichiarazioni apocalittiche sulla morte del marxismo e del comunismo. Eppure, questo suo necrologio non manca d’interesse se si prendono in esame le sue motivazioni.

Il marxismo è morto perché La Grassa lo riduce alla centralità della teoria del valore-lavoro, che Marx non avrebbe sviluppato nel senso di Smith e Ricardo, sulla base del tempo di lavoro sociale medio come criterio di distribuzione ineguale del prodotto; ma avrebbe “svelato” nel senso della diseguaglianza del rapporto fra capitalista e lavoratore salariato. Per La Grassa questa teoria è solo uno “svelamento”, ma non serve come criterio storico e politico per determinare il rapporto diseguale fra dominanti e dominati. Questo rapporto si stabilisce per via strategica, non economica.

Il comunismo è morto perché per La Grassa è stato scientificamente falsificato (nel senso di Popper) dal fatto che non si è mai formato il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal primo ingegnere all’ultimo manovale, che Marx aveva ipotizzato come precondizione “scientifica” irrinunciabile del comunismo stesso, che altrimenti diventa una “fanfaluca” umanistica per bambini creduloni.

Dunque, amen per tutti e due. A questo punto, visto il suo odio per l’umanesimo e il moralismo, nessuno capisce perché La Grassa continua a “tifare” per la forza geopolitica della Russia o della Cina contro gli USA. Evidentemente questo odiatore althusseriano dell’umanesimo continua a ritenere “disumano” il dominio unipolare degli USA. Ma questa contraddizione bisogna rivolgerla a lui, sperando che come di consueto non risponda con pittoreschi insulti e invettive. Per chi come me è esperto nella storia del marxismo si ripete il dramma satiresco di trent’anni fa di Lucio Colletti: marxismo e comunismo vengono dichiarati defunti per ragioni epistemologiche. Alla fine gli odiatori della filosofia come forma di conoscenza veritativa della realtà giungono tutti alla stessa conclusione, ed è solo  un “gusto personale” che uno auspichi la vittoria degli USA e l’altro invece il contrario.

La questione di Ferrero è invece molto più importante. Ho già avuto modo di sostenere nei miei due interventi a proposito dei documenti congressuali del PRC il mio disaccordo con la linea politica del “pregare Bersani per essere caricati a bordo”, che ritengo incompatibile con una rifondazione comunista, ma solo con una “innocua affabulazione retorica comunista”. Non credo nell’uso popolare dell’antiberlusconismo, ma questo l’ho già detto e qui non mi ripeto.

La teoria operaista della “risposta” del capitale alle lotte operaie, riproposta da Ferrero, non capisce che la dinamica del capitale è illimitata (Marx), ed è questa illimitatezza interna a spingerlo sempre oltre i livelli di sottomissione precedenti, non certamente le “resistenze” operaie e proletarie, che nella storia dello sviluppo capitalistico globale hanno sempre avuto un ruolo minore, oserei dire minimo (sperando di non ricevere gli insulti degli operaisti puri). Marx è stato a suo tempo molto chiaro sul carattere illimitato della produzione capitalistica, e l’ha sempre connotata come l’elemento differenziale con le classi dominanti precedenti (padroni schiavisti, signori feudali, boiardi valacchi, eccetera). Il capitale ha una dinamica impersonale di espansione tendenzialmente illimitata, e questo lo porta a sottomettere sempre maggiori ambiti della produzione globale. Cito qui alla rinfusa Bourdieu, Bauman, Lasch, Heidegger, eccetera, ma è inutile scomodare tutti costoro con un operaista negriano moderato parlamentare. In questo contesto dinamico le cosiddette “lotte”, pur benvenute, hanno l’effetto di una piuma. Quantificandole, che un buon 5% è già una misura accettabile.

So bene che questo è come bestemmiare in chiesa per il buon popolo di sinistra, cui non si possono togliere due cose: il mito della FIOM e il matrimonio gay. Sfugge il fatto che nella cultura del Sant’Uffizio di Sinistra, e cioè del “Manifesto”, le due cose sono segretamente collegate. Da un lato, la dinamica sociale è sempre da mezzo secolo pensata e ricostruita come “risposta” di cattivi capitalisti (alcuni cafoni come Berlusconi, altri educati come la Marcegaglia) alle meravigliose lotte dei lavoratori. Dall’altro, il progresso verso un fantomatico e mai definito comunismo è pensato come individualizzazione integrale della società e come distruzione delle realtà “intermedie” (famiglia, religione, stato, nazione, eccetera). E tutto questo è chiamato rifondazione del comunismo.

La somma di economicismo conflittuale e di politicamente corretto definisce un profilo culturale del popolo di sinistra che allo stato attuale considero irriformabile. E’ un’intera cultura che dovrà essere rifondata, e sarà lunga. Nel frattempo, come direbbe Eduardo De Filippo, ha da passare la nottata.

ANNESSO

Il lettore avrà capito che la polemica con Ferrero e con La Grassa non è per nulla personale e personalizzata, ma è rivolta a richiamare l’interesse sul concetto di capitale. Dimmi che cosa pensi che sia il capitale, anche con parole semplici e poco specialistiche, e ti dirò a cosa alludi quando parli di comunismo. Troppo a lungo si è permesso che essere comunisti si identificasse con il “sentirsi oggettivamente comunisti”; il che può certo essere tollerato (in fondo, per dichiararsi comunisti non c’è bisogno di superare un esame universitario di storia, economia e filosofia), ma non contribuisce a superare la confusione e la cacofonia, oltre che il settarismo, malattia professionale dei comunisti identitari.

La Grassa è un professore universitario in pensione completamente isolato, titolare di un blog di nicchia, del tutto estraneo al jet-set dei cosiddetti “intellettuali di sinistra” (ed è stata la sua fortuna e la sua grandezza). Invece Ferrero occupa un posto di una certa importanza, dal quale può orientare o disorientare molte persone, giovani, di mezza età e anziani. Per questo il suo concetto di “capitale” riveste una certa importanza.

Concepire il Capitale, e quello finanziario globalizzato in particolare, come “risposta” a un ciclo di lotte, anziché come processo di espansione illimitata in tutti i campi della vita, relativamente indipendente dagli ostacoli postigli dai salariati (si tratta di pietre sull’autostrada, non di sbarramenti strategici alla circolazione), va addirittura contro alle stesse concezioni propugnate da un Ferrero. Prendiamo a esempio il movimento NoTAV, che personalmente approvo pienamente, per ragioni che non sto qui a ripetere. I NoTAV si oppongono a una certa concezione globale della produzione e della circolazione delle merci che non ha assolutamente nulla a che vedere con la concezione del capitalismo come “risposta” alle lotte operaie. E potremmo fare decine di altri esempi.

Ma è inutile. I monopolisti del “pensiero di sinistra” non hanno nessuna intenzione di aprire una vera discussione a 180 gradi, l’unica utile per una “rifondazione comunista”. Ed è un vero peccato. Si autoconvocano continuamente fra di loro (le famose discussioni sulla “sinistra”), quando sono in buona parte loro il problema. Ma quando mai il problema può essere la soluzione?

Torino, 11 ottobre 2011