SOTTO DETTATURA
La lettera del governo italiano all’Ue: licenziamenti, svendita del patrimonio pubblico, liberalizzazioni selvagge, ed infine (quel che nessuno dice) l’annuncio di una maxi-stangata da 150 miliardi di euro
Le cose si fanno sempre più chiare. La crisi del debito pubblico e dell’area euro è senza soluzioni. Ma bisogna salvare le banche. Dunque bisogna almeno prendere tempo. E bisogna costringere l’Italia – che con il suo debito di 1900 miliardi è il punto focale della questione – a manovre sempre più dure. L’Europa, per meglio dire il duo Merkel-Sarkozy, ha dettato la ricetta, ed il governo italiano ha preso carta, penna e calamaio ed ha fatto i compiti a casa, stando ben attento a non fare errori nella copiatura.
Questa totale svendita della sovranità nazionale è avvenuta nella cornice di una crisi senza sbocchi dell’UE. Le misure adottate nella riunione di ieri sera servono solo a guadagnare qualche mese. La Grecia, come ormai era scontato, avrà il suo default, ma si vorrebbe far credere che sarà l’unico Paese che seguirà quella strada. Le grandi banche verranno ricapitalizzate con soldi pubblici, mentre il cosiddetto «Fondo salva-stati» verrà potenziato, ma non è chiaro come. Nel frattempo l’Italia dev’essere spremuta.
Spremuta, non tanto da un moribondo governo Berlusconi – anch’esso disperatamente impegnato a prendere tempo -, bensì dall’Unione Europea, dalla Merkel, da Sarkozy, dal sistema bancario, dalle oligarchie dominanti. Spremuta, anche, dal vero governo che regge l’Italia in questo momento, il duo Napolitano-Draghi, che è come dire la longa manus dei centri di potere di cui sopra.
Ma entriamo nel merito. Ricordate la letterina d’agosto? Ebbene, dopo la sua lettura, Tremonti ebbe a commentarla dicendo che l’Europa aveva chiesto espressamente i licenziamenti (non solo la possibilità di effettuarli senza limiti, ma anche la determinazione politica di farli), ma che il governo italiano su questo non era d’accordo. In realtà il governo inserirà la libertà di licenziamento nella «manovra», ma evidentemente ciò non bastava all’UE. Ecco allora la precisazione richiesta ed immediatamente accolta da Berlusconi: «Entro maggio 2012 l’esecutivo approverà una riforma della legislazione del lavoro funzionale alla maggiore propensione ad assumere e alle esigenze di efficienza dell’impresa anche attraverso una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato».
Licenziamenti per motivi economici? Vista la situazione dei conti pubblici la prima cosa che viene in mente è che la si voglia applicare ai dipendenti dello Stato. Del resto, non è questa una delle ricette già imposte alla Grecia?
In un quadro del genere non poteva mancare l’ulteriore richiesta di svendere il patrimonio pubblico. Anche in questo caso Palazzo Chigi ha subito detto signorsì: «Entro il 30 novembre 2011, il Governo definirà un piano di dismissioni e valorizzazioni del patrimonio pubblico che prevede almeno 5 miliardi di proventi all’anno nel prossimo triennio. Previo accordo con la Conferenza Stato-Regioni, gli enti territoriali dovranno definire con la massima urgenza un programma di privatizzazione delle aziende da essi controllate».
Quella che si annuncia non è solo un’ulteriore spinta privatizzatrice, in un Paese che ha già privatizzato quasi tutto il privatizzabile, ma una vera ondata di svendite. Chi fa i prezzi, tanto più in un momento di crisi acuta, se si è obbligati a vendere?
Di pari passo i provvedimenti annunciati nel capitolo delle «liberalizzazioni», sempre curiosamente abbinate all’obiettivo della «crescita», benché un’esperienza ormai ventennale abbia dimostrato sia l’inesistenza di questo rapporto che i presunti benefici sul contenimento dei prezzi. Si annunciano nuovi provvedimenti di liberalizzazione un po’ su tutto, dagli orari dei negozi alla distribuzione dei carburanti, dall’assicurazione degli autoveicoli alla distribuzione del gas, per concludere con le tariffe delle prestazioni professionali.
Quale sia la relazione tra questi interventi ed il contenimento del debito pubblico è un mistero assai misterioso, ma così va il mondo.
Se sulle pensioni il governo non ha aggiunto niente di nuovo, è solo perché gli obiettivi indicati dalla UE sono già stati raggiunti e superati con la mole impressionante di controriforme collezionate da destra e centrosinistra negli ultimi anni. Sul carattere ideologico dell’eterna campagna sulle pensioni, e su quello politico della mossa europea di domenica scorsa, si veda l’articolo Se l’Europa ci toglie la pensione. Ma – attenzione! – il fatto che oggi anche la grande stampa cominci timidamente ad accorgersi di quel che sappiamo da tempo, ad esempio che in base alla legislazione vigente i 67 anni per la pensione di vecchia verranno raggiunti prima nella «viziosa» Italia che nella «virtuosa» Germania, non significa che il capitolo sia chiuso.
Per ora le ragioni elettorali della Lega hanno prevalso, ma cosa succederà con il «governo delle banche» che si profila sempre più all’orizzonte?
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Ci siamo fin qui occupati di temi decisivi, ma che almeno stanno sulle pagine dei giornali. Ma la lettera consegnata da Berlusconi a Bruxelles contiene anche un’altra cosa, sulla quale tutti glissano, per motivi fin troppo evidenti. La lettera, subito accolta (come vedremo più avanti) dall’UE, si impegna ad una manovra – per ora collocata nel 2013 per il 2014 – di ben 150 miliardi di euro! Data la sua enormità questa cifra non viene apertamente dichiarata, ma essa è facilmente desumibile dalla serie di dati indicati sui «Fondamentali dell’economia». Per la verità la cifra complessiva sulla quale il governo si impegna è addirittura superiore, dato che ben prima del 2013 saranno certamente necessari diversi «aggiustamenti».
Abbiamo già scritto più volte sulla inattendibilità dell’obiettivo del pareggio di bilancio al 2013. A prescindere dal fatto che buona parte delle misure decise ad agosto devono ancora concretizzarsi, questo obiettivo è inverosimile per almeno due motivi: il primo sta nel fatto che le previsioni sulla crescita del Pil andranno tutte riviste al ribasso, con la conseguente diminuzione delle entrate tributarie; il secondo sta nel consistente aumento dei tassi di interesse dei titoli del debito pubblico.
Aspettiamoci dunque una nuova serie di manovre a ripetizione. Ma quel che è annunciato nella lettera è assai peggio.
Leggiamo gli impegni presi da Berlusconi: «Il Governo italiano ha risanato i conti pubblici e conseguirà l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013. Il debito pubblico in rapporto al PIL è stato ricondotto su un sentiero di progressiva riduzione. Nel 2014 avremo un avanzo di bilancio (corretto per il ciclo) pari allo 0,5% del PIL, un avanzo primario pari al 5,7% del PIL e un debito pubblico al 112,6% del PIL».
L’aridità delle cifre non rende giustizia della mostruosità di quanto vi è contenuto. Vediamo perciò di fare chiarezza. Oggi, ottobre 2011, il rapporto debito/Pil è pari a circa il 121%. Nel 2012 il governo prevede una riduzione del rapporto deficit/Pil, ma tale rapporto non potrà essere in alcun caso superiore all’incremento (se incremento sarà!) del Pil. Ne consegue che – sempre ammesso e per niente concesso che tutto vada secondo le attese più ottimistiche – il rapporto debito/Pil salirà ancora, diciamo prudentemente ad almeno il 122%. Nel 2013 si dovrebbe avere il pareggio di bilancio, ma in un quadro certamente recessivo. Ciò significa che, in base a quanto oggi è previsto, alla fine del 2013 ci ritroveremmo con un rapporto del debito sul Pil sempre attorno al 122% se non peggio.
Scendere dal 122 al 112,6 in un anno vuol dire realizzare appunto una manovra da 150 miliardi di euro! Che una tale stangata sia stata collocata nel 2013 ci riporta alla manfrina dei mesi scorsi, quando ancora il governo voleva rimandare il grosso della manovra (varata poi a luglio, e subito corretta ad agosto) al 2013, cioè dopo la fine naturale della legislatura.
Chi dice che Berlusconi è stato sul generico, augurandosi magari manovre più dure e ravvicinate nel tempo, sbaglia. Ed infatti l’UE ha subito incassato. Leggiamo cosa è stato scritto nel documento conclusivo della riunione di Bruxelles:
«ACCOGLIAMO con favore i programmi dell’Italia per le riforme strutturali finalizzate a rafforzare la crescita e per la strategia di consolidamento fiscale, così come delineate nella lettera inviata ai Presidenti del Consiglio Europeo e della Commissione Europea ed invitiamo l’Italia a presentare urgentemente un ambizioso calendario per queste riforme. Apprezziamo l’impegno dell’Italia a raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2013 e un surplus di bilancio strutturale nel 2014, portando ad una riduzione dell’indebitamento pubblico al 113% del PIL nel 2014, così come la prevista introduzione della regola del pareggio di bilancio nella Costituzione entro la metà del 2012».
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La stangata è dunque lì bella e pronta. Inutile chiedersi chi la pagherà, dato che già lo sappiamo. Certo, il 2013 è ancora lontano. E, difatti, nulla esclude che un simile intervento debba essere anticipato. Anzi, chi scrive è assai convinto che andrà proprio così.
L’impegno a realizzarlo l’ha preso Berlusconi, ma esso non riguarda tanto chi l’ha sottoscritto, dato che la sua fine politica è ormai prossima. Riguarda invece il futuro del Paese. E possiamo essere certi che chi prenderà il posto del Paperone alla frutta, quell’impegno vorrà rispettarlo costi quel che costi.
I tempi dunque stringono. Se per l’UE, come per le banche, è necessario prendere tempo, per scaricare sempre più i costi della crisi sulle classi popolari; chi vuole costruire un’opposizione adeguata al massacro sociale non ha più molto tempo. Se l’intera classe politica, italiana ed europea, continua a prendere tempo, navigando a vista ma sempre al servizio delle oligarchie finanziarie; chi vuol costruire un’alternativa non ha più molto tempo.
La prima cosa da fare per chi il tempo non vuole perderlo è quella di dire subito un bel no. No al governo, certo, ma doppio no all’Unione Europea ed ai suoi ricatti.