Riflessioni italiane su comunismo e capitalismo oggi

1. Iniziamo con un paradosso. Credo fermamente che oggi, in Italia, la prima cosa che deve fare un comunista (nel senso di Marx) è quella di non fondare, di non aderire o votare un partito comunista. Dal momento che la cosa può sembrare irritante, è necessario argomentarla brevemente e concisamente.

2. Alla fine di ottobre 2011 si è svolto il congresso del partito di Diliberto (PDCI) e ai primi di dicembre si terrà quello del partito di Ferrero (Rifondazione Comunista). Come si dice in una loro lettera firmata congiuntamente (cfr. Il Manifesto, 30 ottobre 2011), essi “propongono unitariamente la costruzione di un fronte democratico per battere le destre, ricercando elementi di convergenza programmatica, pur non ravvisando la possibilità di fare un accordo con il centrosinistra”. Bersani ha già accettato, chiedendo solo la garanzia, datagli da Diliberto in un’intervista del “Fatto Quotidiano”, che non si ripeteranno più le bizzarrie di Bertinotti e di Turigliatto al tempo del governo Prodi, ma che gli eletti di Diliberto e Ferrero non voteranno mai per far cadere il governo.

Nello stesso numero del “Manifesto”, Alessandro Robecchi nota che “il povero PD è costretto a gridare viva l’Europa anche quando l’Europa impone la libertà di licenziare senza regole i suoi stessi elettori”. E così già si inventano inesistenti linee di “sinistra” (Fassina) contro linee di “destra” (Ichino, Morando, Chiamparino, Renzi, eccetera), come se il vincolo dell’Europa non fosse quello strutturale, ma si trattasse di “opinioni”. Questo mi ricorda il modo in cui negli anni Sessanta ci si faceva babbionare sui contrasti fra Amendola e Ingrao. E’ proprio vero che non si impara mai niente.

Mi chiedo come si possa fare “un fronte democratico contro le destre” quando i vincoli europei sono più a destra di Attila, re degli Unni. Gira e rigira, si torna sempre all’anti-berlusconismo di “Repubblica” come l’unica sola bussola di questo “fronte democratico”. Come si possa essere “democratici” in presenza di una governance economica eterodiretta che svuota ogni possibile decisione “democratica” me lo chiedo proprio. Ma me lo chiedo senza risposta, perché la sola bussola della dirigenza Diliberto-Ferrero è salvare il loro ceto politico e tornare in parlamento. Del resto, dopo gli scontri dei famosi black bloc di Roma, i giornalisti “di sinistra” hanno cominciato a dire che sarebbe stato meglio se ci fossero stati degli “estremisti” in parlamento, come elemento moderatore della piazza anarcoide. Solo un raccoglitore di figurine come Veltroni poteva non capire una cosa tanto semplice.

3. Se le cose stanno così, e stanno proprio così, appare chiaro che la costruzione di un partito “comunista” in Italia è non solo indifferente, ma addirittura avversa a qualsiasi riconsiderazione del “comunismo”, comunque concepito. Si pensa forse che il comunismo sparirebbe dalla faccia della terra e della storia se non ci fosse una bandierina di partito ad agitarlo, alleato a una coalizione politica che ha promosso e approvato l’aggressione della NATO alla Libia del 2011?

Eppure, a questo porta il mantenimento della dicotomia Destra/Sinistra come bussola di orientamento politico e strategico. Negli ultimi decenni questa dicotomia è stata ribadita (Bobbio, Revelli), oppure contestata (Preve, de Benoist). Non ha senso qui ripetere ancora una volta gli argomenti pro e contro; essi sono stati illustrati nei più piccoli particolari. Alla fine, esiste una forza gravitazionale in senso newtoniano che porta i comunisti (estrema sinistra) a confluire in un fronte elettorale con il centro-sinistra.

Coloro che vorrebbero una estrema sinistra sola senza alleanze (Sinistra Critica, Ferrando, Cobas, eccetera) si autocondannano al minoritarismo testimoniale, perché cercano consensi in una nicchia elettorale attratta come una calamita dal “voto utile”, che in Italia oggi è comunque sempre e solo un voto anti-berlusconiano. Ecco perché la discussione sulla dicotomia Sinistra/Destra, apparentemente accademico-culturale, è in realtà di immediato interesse pratico-politico.

4. Due parole sul fenomeno Vendola. Vendola non è altro che una risposta a un bisogno ventennale del “popolo di sinistra”, nel senso della FIOM e del “Manifesto”: cioè continuare a dire cose retoriche di sinistra e nello stesso tempo dare finalmente un voto utile anti-berlusconiano al PD, liberandosi così anche dalla pesante identità inerziale del termine “comunismo” con tutto il contenzioso simbolico che si porta ancora dietro.

Si tratta di un fenomeno di costume e mediatico vergognoso per la sua ipocrisia e per il suo continuare a intrattenere il divorzio tra parole e fatti. Forse il fenomeno più ipocrita e vergognoso dell’attualità politica di oggi.

5. Il fenomeno Matteo Renzi è molto più interessante. Non bisogna fermarsi troppo sugli aspetti superficiali di “destra” del suo discorso: viva Steve Jobs, viva Marchionne, abolizione del valore legale dei titoli di studio, liberalismo scatenato, eccetera. Renzi, sotto la forma generazionale e “rottamatrice” del suo discorso, segnala un fatto reale. Il fatto cioè che l’orrendo serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD-coalizione PDCasini, eccetera, ha integralmente accettato da alcuni decenni il capitalismo neoliberale, la NATO, gli USA, eccetera, ma continua a coltivare forme liturgiche ereditate dalla fede “ideologica” precedente. Il linguaggio da cooperatore emiliano di Bersani ne è un esempio plastico.

Il fenomeno Renzi è molto più interessante di quello di Vendola perché Vendola non è una novità, ma è solo un riadattamento del vecchio “doppio discorso”, retorica estremista a parole e disponibilità all’opportunismo nei fatti, ma anche nei simboli, nel linguaggio, nella comunicazione.

E’ difficile fare previsioni sul futuro di Renzi. A occhio e croce, penso che sia ancora prematura la sua svolta simbolica. Il “popolo di sinistra”, questo conglomerato di analfabeti storici e politici mossi soltanto da fiammate identitarie anti-berlusconiane, vuole ancora essere cullato da un doppio linguaggio, frutto della “lunga durata” PCI dopo il 1945. Renzi è una doccia scozzese, cui sono pronti soltanto gli “intellettuali” alla Baricco e gli amministratori alla Chiamparino. Veltroni ha già cercato di promuovere questa svolta culturale e antropologica di massa con i metodi violenti e manipolatori imparati nella vecchia FGCI di D’Alema e di Occhetto, e per questo è fallita.

6. La conclusione di tutta questa storia è che non è assolutamente obbligatorio rilanciare il comunismo, che nessuno oggi sa neppure esattamente che cosa è (vedere la cacofonia alla Badiou, Negri e Zizek); ma se per caso qualcuno lo vuole ancora prendere sul serio, allora appare chiaro che è del tutto incompatibile con i partitini di Diliberto e Ferrero e con i gruppetti trotzkisti testimoniali alla Ferrando. Meglio fare due passi indietro per poter poi fare eventualmente dei passi avanti. Rientrare in un parlamento privo di sovranità nazionale vincolandosi alla maggioranza di Bersani, o di Bersani-Casini, è forse l’atto paradossalmente più “anticomunista” che si possa oggi immaginare.

Oggi in Italia i comunisti sono davanti al dilemma inesorabile del Faust di Goethe: perdere l’anima per salvare il corpo. Salvare il corpo presuppone attaccarsi a Bersani per continuare ad avere una larvale rappresentanza parlamentare per potersene pavoneggiare nei convegni dei partiti comunisti sopravvissuti. Ma attaccarsi al partito dei diktat europei, della NATO e degli USA significa perdere l’anima, cosa ritenuta sopportabile da chi, in pieno dominio del nichilismo relativistico europeo, ha sempre pensato in fondo che l’anima non esiste (e non solo nel senso cristiano del termine). Affermano di voler unire i comunisti per unire la sinistra, e poi di fatto uniscono politicamente le sorti del comunismo al centro-sinistra. Chi fa obiezioni è liquidato come estremista che vuole morire eroicamente nel fortino con la bandiera rossa. Vecchio artificio polemico e retorico, che consiste nel presentare l’alternativa come talmente ridicola e assurda da essere automaticamente priva di consistenza.

7. Non conosco il futuro, ma ritengo che la linea di Ferrero, che consiste nel non esistere, sarà inevitabilmente “squartata” nel prossimo futuro tra Diliberto e Vendola. Le vecchie pulsioni luxemburghiane-operaiste di odio per l’intero comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917-1991) porteranno verso Vendola, mentre l’identità comunista da mantenere ad ogni costo porterà verso Diliberto. Ferrero pagherà così il prezzo per aver creduto di poter dirigere un partito (e non una semplice associazione di studenti valdesi) senza una cultura politica e senza un’identità politica.

8. Mi ha colpito il relativamente alto numero di “intellettuali” messi fotograficamente in campo dalla pubblicità-propaganda di Diliberto: vedere la pagina a pagamento sul “Manifesto” del 30 ottobre 2011, laddove non c’era neppure un articolo per riferire sul congresso del PDCI (il settarismo di questi staliniani post-moderni è quasi indescrivibile!). Vi ho visto molte persone di valore: Losurdo, Canfora, Samir Amin, Tosel, Fineschi, eccetera). Mi chiedo se costoro sanno che cosa significa “salvare” l’identità comunista al prezzo di un preventivo giuramento di fedeltà a un blocco politico neoliberale, imperialista, USA e NATO. Evidentemente lo sanno, ma lo considerano poco rilevante. Si riafferma uno dei difetti fondamentali del comunismo già diagnosticato da Lukacs, la riduzione integrale della strategia a tattica.

Essendo anch’io stato a lungo un “intellettuale di sinistra” conosco bene la mentalità dei miei sodali, in cui posso leggere come in un libro aperto. L’intellettuale comunista si rapporta direttamente a un universale (il comunismo, appunto, che poi ognuno sovranamente interpreta a modo suo), e vuole prima di tutto testimoniare la sua “identità di resistenza” di fronte a un mondo che in stragrande maggioranza ha scelto le varie forme di conformismo neoliberale. La “linea politica” gli interessa di meno, o addirittura non gli interessa quasi nulla. D’altronde, come potrebbe chi ha gli occhi puntati sull’Universale badare anche al Particolare?

Ma in questo modo la causa del comunismo, causa storica di lungo periodo, viene delegata al ceto politico professionale, che si muove esclusivamente in base alle previsioni dei sondaggisti. In linguaggio filosofico, la prevalenza dei sondaggisti sugli “idealisti” può essere trascritta in lessico heideggeriano come la prevalenza della Tecnica sulla Metafisica. Qui il preteso “materialismo” dei comunisti va a farsi benedire, e rivela essere soltanto il precipitato post-positivistico del laicismo e dell’anticlericalismo borghese alla Pannella.

Vendere l’anima per salvare il corpo, salvataggio comunque provvisorio e temporaneo (ma il ceto politico è sintonizzato sulla lancetta dei secondi, non delle ore), non si chiama materialismo, storico o dialettico che sia, ma si chiama nichilismo. La sorte del cosiddetto centro-sinistra italiano (non importa se a direzione Bersani, Renzi o un terzo ancora ignoto) è legata strettamente al “superamento” neoliberale della crisi (di crescita, non certo di crollo finale, che non esiste) dell’attuale modello di capitalismo finanziario imperialistico globalizzato (CFIG, scrivo l’acronimo per sottolineare l’importanza di tutti e quattro gli elementi definitori).

Ridefinire il comunismo come appendice testimoniale, brontolante e subalterna di questo organico progetto politico, e in questo modo sussumerlo integralmente sotto la genericità camaleontica del concetto di “sinistra”, è qualcosa che oscilla fra l’inutile, lo stupido, il criminale e l’ipocrita.

Dal punto di vista filosofico e storico, il solo che mi interessi veramente, tutto questo è relativamente nichilistico. Relativismo, perché il comunismo è pirandellianamente ridotto a “così è se vi pare”, e ognuno ci mette dentro cosa vuole. Nichilistico, perché perduti i due vecchi fondamenti (la presunta incapacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive e la presunta capacità rivoluzionaria della classe operaia, salariata e proletaria), questi ultimi non vengono sostituiti da nulla. Bisognerà veramente aspettare un’altra generazione. Peccato, avrei voluto esserci anch’io.

Torino, 2 novembre 2011