La sconfitta del ritiro Usa dall’Iraq. Ma chi vince?

Entro il 31 dicembre le truppe americane lasceranno il paese. Sullo sfondo, l’egemonia degli sciiti. Che ora vogliono smarcarsi anche dall’Iran.

Pubblichiamo volentieri questo articolo di Wallerstein, come sempre acuto osservatore politico, oltre che autentico antimperialista. Ci corre tuttavia l’obbligo di segnalare che ci pare davvero esagerato il suo giudizio per cui il ritiro delle truppe americane dall’Iraq corrisponde ad “una sconfitta paragonabile a quella in Vietnam”. Non è così. La storia ci dirà se quella americana sarà giudicata una Vittoria di Pirro, una mezza vittoria o un vittoria zoppa. Certo gli USA non hanno subito in Iraq una batosta clamorosa come quella che ebbero in Vietnam (Gloria eterna al popolo vietnamita!).    

Se Wallerstein vuole significare che gli americani non sono riusciti a schiacciare con la forza la Resistenza irachena, questo è vero. Ma se ne sono comprati una larga parte, quelli del Consiglio del risveglio, passati armi e bagagli con gli occupanti, con la scusa di dare la caccia ai qaedisti e anche per contrastare il peso delle correnti shiite filo-iraniane. Hanno vinto male, hanno vinto corrompendo gli ascari, dividendo la resistenza [vedi la nostra analisi in proposito]. In questo modo gli americani hanno quasi del tutto debellato una delle resistenze più temibili che hanno incontrato sul loro cammino.

Che poi l’Iraq odierno sia sotto la sfera d’influenza iraniana e questo rappresenti un grave smacco per Washington, questo è verissimo. Ma questa è un’altra storia.

La sconfitta del ritiro Usa dall’Iraq. Ma chi vince?
di Immanuel Wallerstein

Ormai è ufficiale. Tutte le truppe americane in uniforme saranno ritirate dall’Iraq entro il 31 dicembre 2011. La cosa viene descritta essenzialmente in due modi: uno quello del presidente Obama, che dice che in tal modo mantiene la promessa elettorale fatta nel 2008. Il secondo è il modo dei candidati presidenziali repubblicani che hanno condannato Obama per non aver fatto quello che dicono volessero i militari americani, ovvero tenere lì un po’ di truppe americane dopo il 31 dicembre in qualità di trainers per i militari iracheni. Secondo Mitt Romney, la decisione di Obama sarebbe il «risultato di un calcolo politico nudo e crudo oppure di pura e semplice inettitudine nei negoziati col governo iracheno».

Entrambe le asserzioni sono insensate, e rappresentano solo giustificazioni per l’elettorato americano. Obama ce l’ha messa tutta, lavorando insieme ai capi dell’esercito Usa e al Pentagono, per tenere le truppe americane in Iraq dopo il 31 dicembre, ma non c’è riuscito, e non per inettitudine ma perché i leader politici iracheni hanno costretto gli Stati Uniti a ritirare le truppe. Quel ritiro segna il culmine della sconfitta statunitense in Iraq, una sconfitta paragonabile a quella subita in Vietnam.

Ma che cosa è successo esattamente? Perché, almeno durante gli ultimi diciotto mesi, le autorità Usa hanno fatto di tutto per negoziare un accordo con l’Iraq un accordo che superasse quello firmato col presidente George W. Bush che stabiliva il ritiro di tutte le truppe entro il 31 dicembre 2011. Non ci sono riuscite ma non perché non ci abbiano provato in ogni modo.

I gruppi più filo-americani sono, per comune riconoscimento, quello sunnita, capeggiato da Ayad Allawi, uomo notoriamente legato alla Cia, e il partito di Jalal Talebani, presidente kurdo dell’Iraq. Entrambi alla fine hanno dichiarato, senz’altro con riluttanza, che era meglio che le truppe americane se ne andassero.

Il leader iracheno che ha cercato in tutti i modi di far rimanere le truppe statunitensi è stato il primo ministro, Nouri al-Maliki. Chiaramente convinto che la scarsa capacità di mantenere l’ordine dell’esercito iracheno avrebbe condotto a nuove elezioni dalle quali la sua posizione sarebbe uscita fortemente minata, con relativa probabile perdita del suo ruolo di primo ministro.

Gli Stati Uniti hanno fatto una concessione dopo l’altra, riducendo costantemente il numero delle truppe che intendevano lasciare. Alla fine si è arrivati a un’impasse per l’insistenza del Pentagono che chiedeva l’immunità rispetto alla legge irachena per i soldati (e i mercenari) americani, di qualunque crimine fossero accusati. Solo Maliki era pronto ad accettare anche quello. In particolare i sadristi hanno annunciato il ritiro del loro sostegno al governo se Maliki avesse accettato. E senza di loro, Maliki non avrebbe avuto la maggioranza necessaria in parlamento.

E allora chi ha vinto? Il ritiro è stato una vittoria per il nazionalismo iracheno e la persona che ha finito per incarnarlo non è altri che Muqtada al-Sadr. È vero che al-Sadr è a capo di un movimento sciita storicamente anti-baathista, cosa che per i suoi seguaci in genere ha significato essere musulmani anti-sunniti, ma al-Sadr si è spostato ormai da un po’ oltre quella posizione iniziale per fare di sé e del suo movimento il campione del ritiro delle truppe americane. È andato incontro ai leader sunniti e a quelli kurdi nella speranza di creare un fronte nazionalista pan-iracheno fondato sulla restaurazione della piena autonomia in Iraq. E ha vinto.

Certo al-Sadr, come Maliki e molti altri politici sciiti, ha passato molti anni in esilio in Iran. Dunque la vittoria di al-Sadr è una vittoria per l’Iran? Non c’è dubbio che l’Iran abbia conquistato maggiore credibilità in Iraq. Ma sarebbe un grosso errore di analisi pensare che l’Iran abbia in qualche modo rimpiazzato gli Usa al centro della scena irachena.

Ci sono tensioni fondamentali tra gli sciiti iraniani e quelli iracheni. Per esempio quelli iracheni hanno sempre ritenuto l’Iraq e non l’Iran il centro spirituale del mondo sciita. È vero che le trasformazioni del quadro geopolitico consumatesi nell’ultimo mezzo secolo hanno permesso agli ayatollah iraniani di presentarsi come dominatori del mondo religioso sciita. Ma questo è simile a quello che successe nel rapporto tra Usa ed Europa occidentale dopo il 1945. La forza geopolitica degli Usa indusse uno spostamento del rapporto culturale tra le due parti. Gli europei occidentali furono costretti ad accettare la nuova dominazione culturale e politica degli Usa. Lo fecero ma non si può dire che gli sia mai piaciuto. E oggi cercano di recuperare il ruolo dominante. Stessa cosa tra Iran e Iraq. Negli ultimi cinquanta anni gli sciiti iracheni hanno dovuto accettare il dominio culturale iraniano, ma non gli è mai piaciuto e adesso si daranno da fare per recuperare la loro posizione di predominio.

Malgrado le dichiarazioni pubbliche, sia Obama sia i repubblicani sanno che gli Usa sono stati sconfitti. Gli unici americani che non la pensano così sono quei pochi delle frange di sinistra che non possono accettare che gli Usa non vincano sempre e comunque nel campo geopolitico. Quella piccola minoranza è sempre troppo presa a denunciare gli Stati Uniti per tollerare il dato di fatto del loro grave declino.

Quella frangia sostiene che niente è cambiato perché gli Usa hanno semplicemente spostato il loro pezzo forte in Iraq dal Pentagono al Dipartimento di Stato, cosa che ha prodotto due risultati: introdurre una maggior quantità di marines per garantire sicurezza all’ambasciata statunitense e dar lavoro a un maggior numero di addestratori per le forze di polizia irachene. Ma il maggior numero di marines è un segno di debolezza, non di forza. Significa che perfino la superdifesa ambasciata Usa non è al sicuro dagli attacchi. Per lo stesso motivo gli Stati Uniti hanno cancellato il programma di aprire altri consolati.

Quanto agli addestratori, si scopre che stiamo parlando di 115 consulenti di polizia che hanno bisogno di essere “protetti” da migliaia di guardie private. Scommetterei che i consulenti di polizia staranno bene attenti ad allontanarsi il meno possibile dal territorio dell’ambasciata e che sarà piuttosto difficile ingaggiare abbastanza guardie per garantirne la sicurezza, visto che non hanno più la garanzia di immunità.
Non sorprenderà nessuno se dopo le prossime elezioni irachene il primo ministro sarà Muqtada al-Sadr. Né gli Usa né l’Iran faranno salti di gioia.

pubblicato su il Manifesto del 06 novembre 2011

(Traduzione di Maria Baiocchi)