Intervista di PeaceReporter a Paolo Sensini, autore di Libia 2011, che denuncia una verità sommersa dietro il cambio di regime a Tripoli
La guerra in Libia è finita. Questo almeno raccontano, o non raccontano, i media internazionali. Il dittattore è morto, la democrazia ha trionfato e adesso si lavora alla costruzione della nuova Libia. Ci sono, però, voci fuori dal coro. Una di queste è quella di Paolo Sensini, saggista e scrittore, autore del libro Libia 2011, edito da JacaBook. Sensini, intervistato da PeaceReporter, racconta le sue indagini sui motivi reconditi di quella che ritiene un’azione volta ad eliminare Gheddafi e delle motivazioni che ne hanno deciso la fine. Dopo aver visto di persona la situazione, in quanto membro della Fact Finding Commission on the Current Events in Libya.
Com’è la situazione in Libia?
Il caos, con il Paese – come diceva qualcuno – riportato all’età della pietra e sull’orlo di una crisi umanitaria. In un Paese, piaccia o meno, che prima era un’eccezione positiva nella regione. Adesso si assiste a una sorta di guerra di tutti contro tutti, dove la situazione è degenerata non solo tra i ribelli e i lealisti, ma anche all’interno dello schieramento degli insorti. Non so se era stato previsto o meno, ma di sicuro era largamente prevedibile. Arrivano, ogni giorno, notizie di scontri armati tra fazioni per l’egemonia all’interno del Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt). Come ho ampiamente documentato nel libro, tra queste fazioni, la componente preponderante è quella legata ad al-Qaeda e all’islamismo fondamentalista. Rispetto ai lealisti, invece, si è avuta notizia negli ultimi giorni di un forte contingente (circa 33mila uomini) che si è ricompattato e ha dato battaglia a Zawiah e in altre zone. E credo che questa sarà una fase molto lunga.
Questo quadro potrebbe essere dovuto alla mancanza, come già accaduto in Iraq e in Afghanistan, di una strategia di lungo periodo, che dovesse prevedere gli scenari una volta che il regime fosse stato rovesciato?
Il progetto c’era come c’era anche in altri conflitti. Ed era proprio quello di gettare nel caos un Paese del quale tutti conoscevano la composizione sociale. Un sistema tribale nel quale, a differenza di quanto si è raccontato, esisteva un equilibrio differente da quella che secondo parametri nostri chiamiamo dittatura.
E’ più corretto parlare di un primus inter pares, che per altro non ricopriva alcuna carica politica ufficiale. Gheddafi era la guida, una figura carismatica, che in quanto leader della Rivoluzione teneva in equilibrio un mondo di un centinaio di tribù differenti. Gli analisti, tutto questo, lo sapevano benissimo. Dal mio punto di vista l’obiettivo, fin dall’inizio, era questo caos. Il primo gruppo di ribelli, molto ridotto, a Bengasi si sono inseriti in un colpo di Stato classico. Se un gruppo armato assalta edifici pubblici, in qualsiasi Paese, esercito e polizia reagiscono. Gli analisti sapevano dall’inizio che a questo gruppo mancava la forza di imporsi alle tribù in Libia. Quelle della Tripolitania e del Fezzan mai avrebbero accettato, e mai accetteranno, di essere dominate da questo piccolo gruppo della Cirenaica, che rappresenta circa il 25 percento della popolazione libica. Quando si è deciso di appoggiare questa cosiddetta rivolta, il piano più che evidente era quello di destabilizzare un Paese.
Secondo lei per quale motivo si è deciso di liberarsi di Gheddafi?
Di sicuro le sue scelte in campo petrolifero hanno influito nella decisione di rimuoverlo. Al culmine di una lunga storia, che inizia con la rivoluzione del 1969 e con la nazionalizzazione di gas naturale e petrolio. Come c’entra di sicuro la monumentale opera idrica realizzata, negli anni Ottanta, il Grande Fiume artificiale, che fa gola a molti. La partita più grossa però, a mio avviso, come dimostro nel mio libro, è la politica di Gheddafi con l’Unione Africana. Della quale il Colonnello era l’artefice, il motore propulsore. Lavorando a un’unione doganale africana, con una banca centrale e un fondo monetario africano, in una prospettiva unica nella storia di dare all’Africa una propria politica di sviluppo lontana dalla politica colonizzatrice delle grandi potenze. Lavorava già alla moneta unica: il dinaro d’oro.
Un’iniziativa già in fase avanzata che ora viene affossato in modo decisivo. Il primo passo era già stato compiuto, togliendo dalla circolazione il Franco CFA, utilizzato da quattordici ex colonie francesi. Mossa per la quale il presidente francese Nicholas Sarkozy accusò Gheddafi di terrorismo finanziario. Con il solito atteggiamento per il quale all’Europa è riconosciuta la dignità politica di creare una moneta unica, mentre all’Africa no. Un altro esempio, in questo senso, è quello del satellite RASCOM 1. Anche in questo caso la Libia era stato il motore dell’iniziativa che liberava gli stati africani dalla necessità di affittare i satelliti altrui.
Queste e altre iniziative di indipendenza sono state il motivo per rovesciare Gheddafi, compreso la gestione del petrolio.
In questo piano, la morte di Gheddafi rappresenta un incidente di percorso o una strategia precisa?
E’ stato l’obiettivo principale, fin dall’inizio. Lo dimostrano i bombardamenti. La missione Nato è stato un intervento armato a tutti gli effetti, altro che Responsibility to Protect, come nel mandato per la protezione dei civili. Scientemente, dal primo momento, si è perseguito l’obiettivo di eliminare Gheddafi. E’ stato subito ucciso un figlio del Colonnello e i suoi nipotini, ed è stata colpita Bab el-Azizia – il luogo della sua residenza abituale – decine e decine di volte.
Noi stessi, con la Commissione, abbiamo potuto verificarlo di persona. Una strategia che è terminata solo con la morte di Gheddafi. Anche in quell’occasione, inoltre, non è stato catturato dai ribelli. La sua colonna in fuga è stata bombardata da caccia inglesi e francesi con il supporto di droni, senza che ci fossero civili in pericolo. La morte di Gheddafi era l’obiettivo principale della missione, che fa cadere la foglia di fico della protezione dei civili. La Nato è intervenuta, dall’inizio, per mutare lo scenario politico del Paese. Provocando vittime tra i civili, anche se si diceva che si interveniva per proteggerli, andando ben oltre un mandato che prevedeva solo una no fly zone. Non a caso la missione è finita con la morte di Gheddafi. Passando a quel punto il testimone al Qatar, vero artefice del cambio di regime, prima con al-Jazeera a livello mediatico, e poi a livello militare con le armi e i combattenti che sono stati fatti affluire in Libia.
Qual’è il ruolo dell’Italia in tutto quello che è accaduto?
L’Italia non esce bene da questa vicenda. Un legame importante, cominciando dal ruolo di fornitore energetico della Libia per l’Italia con la pipeline che collega Mellitah a Capo Passero. Che era una delle misure contenute nel Trattato di Cooperazione e Amicizia disatteso e tradito in modo fraudolento dall’Italia. E l’Italia non ne esce bene. A cominciare dal fatto che è stato disatteso l’articolo 11 della Costituzione, a partire dal presidente della Repubblica Napolitano, che della Costituzione è garante. Come lo è dei trattati internazionali e anche lui ha firmato il Trattato di Amicizia. Che piaccia o meno chiudeva un contenzioso storico. Due anni dopo siamo coinvolti in un conflitto, guarda caso, per l’ironia della storia, esattamente cento anni dopo l’occupazione italiana della Libia.
Cosa crede che accadrà in Libia?
A Bengasi, qualche giorno fa, sul palazzo di Giustizia, campeggiava la bandiera di al-Qaeda. Jalil, presidente del Cnt, lo ha dichiarato: tutte le leggi che verranno promulgate non dovranno essere in contraddizione con la sharia, con tutto quello che questo comporta. Decisamente un passo contraddittorio per un Paese nel quale si è intervenuti per portare la democrazia. A Tripoli, il comandante della piazza militare è Abdelhakim Belhaj, fondatore del Gruppo Islamico Libico Combattente, una delle personalità di riferimento di al-Qaeda, come sostenuto dagli stessi statunitensi che lo hanno arrestato in Iraq prima e in Afghanistan dopo, facendolo passare da svariate carceri tra le quali Guantanamo. Questo è il quadro che emerge, con un islamismo radicale che Gheddafi ha tentato di contenere. E del quale poco si sa in Italia. Io ho lavorato su questo aspetto, dedicandogli un capitolo del mio libro, con studi che arrivano dall’accademia militare Usa di West Point, dai quali emerge che il numero più consistente di attentatori suicidi – in percentuale rispetto alla popolazione – proviene dalla Cirenaica. Con la variabile che un arsenale enorme e moderno è finito nelle mani di questi personaggi. C’è poco da aspettarsi, secondo me, in senso democratico. Al contrario di quello che certi soloni occidentali hanno sostenuto e continuano a sostenere.