Il presidente yemenita ha firmato il documento proposto dal Consiglio di Cooperazione del Golfo per il passaggio dei poteri al vicepresidente Hadi. Ma il momento di gioia che il paese aspettava da mesi sembra lasciare spazio a una sola domanda: adesso cosa succederà?
Saleh ha dato le sue dimissioni da presidente dello Yemen. Ieri sera a Riyadh, capitale saudita, davanti ai sei membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo, ha firmato un documento stilato dal Consiglio stesso e appoggiato da Stati Uniti e Onu che stipula il passaggio di poteri al vicepresidente yemenita Abdrabuh Mansur Hadi. Nello stesso momento, a Sanaa, folle di manifestanti anti-governativi celebravano l’evento scontrandosi, in alcuni quartieri, con i partigiani di Saleh. E protestavano contro una decisione che non rispetta il loro volere.
“Come giovane yemenita, rifiuto l’accordo del CCG! Non ho partecipato alla rivolta perché il regime rimanesse al suo posto” commenta NajlaMo su Twitter. Le fa eco YusraAlA: “L’iniziativa del Golfo non ha accolto le richieste dei giovani e non ci sta bene”. Ma lo spiega meglio Dima_Khatib: “I manifestanti yemeniti a Sanaa rifiutano l’immunità per Saleh. Saleh deve essere processato”. Il presidente yemenita non subirà infatti lo stesso destino del suo omologo Mubarak, sotto processo in Egitto dal 3 agosto scorso. Né seguirà la sorte dell’ex presidente libico Gheddafi, ucciso dai ribelli mentre cercava di nascondersi a Sirte. A Saleh verrà garantita l’immunità e andrà in esilio, in Arabia Saudita molto probabilmente. Ma si vocifera addirittura New York “per un trattamento medico”, secondo lo stesso segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon. Il piano del CCG era stato proposto più volte nei mesi precedenti al presidente yemenita, che aveva sempre promesso di firmarlo per poi rifiutarsi all’ultimo momento. Tra i motivi che hanno spinto Saleh a firmare proprio adesso, l’opzione Stati Uniti sembra la più probabile.
Così dovrebbe quindi finire l’era Saleh, la cui contestazione durata circa 9 mesi lascia sul campo –oltre a un’economia in ginocchio – quasi 900 morti e più di 25.000 feriti, secondo le stime fornite dai manifestanti. Ma in molti, sulla rete o nella piazza, sono scettici sull’evolversi della situazione. Secondo il documento preparato dal CCG infatti, alle dimissioni di Saleh il potere passerebbe entro 30 giorni al vicepresidente, che dovrebbe lavorare con la coalizione dei partiti d’opposizione per formare un governo di unità nazionale. Le elezioni presidenziali si svolgeranno entro 90 giorni. Ma di riforma dei vertici militari, che vedono a capo di tutte le forze armate del paese parenti del presidente uscente, il documento parla poco. “Quindi Saleh è fuori. Ma rivoluzione significa cambiamento totale di regime. La lotta è solo all’inizio in Yemen”, avverte Christina Howerton, mentre yementribune puntualizza: “Suo figlio è sempre a capo delle guardie repubblicane, suo fratello delle forze aeree”. Ma c’è anche suo nipote Yehya che è a capo dei servizi di sicurezza, e l’altro suo nipote Tariq che controlla la guardia presidenziale. E la defezione del generale Ali Mohsen Al-Ahmar – anch’egli imparentato con Saleh – passato a marzo dalla parte dei ribelli, complica molto la riorganizzazione e la riunificazione delle forze armate yemenite. Se sulla carta il passaggio di poteri è già garantito, sul campo la transizione potrebbe non essere scontata.
L’opposizione, che ha controfirmato il documento del CCG, è lungi da essere acclamata dai manifestanti. “All’opposizione non è mai importato nulla dei manifestanti, altrimenti non avrebbe firmato l’iniziativa del Golfo” twitta TimaYasseen, perché “un accordo che lascia qualunque membro della famiglia Saleh in una qualsiasi posizione di potere è una svendita. Significa che 9 mesi non sono valsi a nulla” secondo NotUntilHeFalls. Un’opposizione divisa e debole, che avrà il compito di scegliere un candidato da mettere a capo di un governo di unità nazionale, incaricato anche di contrattare con i manifestanti. Ma in quell’intricata rete che compone la scena politica yemenita, dell’opposizione fanno parte i partiti e i movimenti più eterogenei: dagli islamisti di al-Islah al partito socialista yemenita del sud, dalla confederazione tribale degli Hashed a quella degli zayditi Houthi, dalla prima divisione armata guidata dal generale Ali Mohsen a varie tribù , compresi alcuni gruppi Qaedisti. Ognuno vuole il suo Yemen, o almeno una parte di potere nel nuovo Yemen. E quello che è stato un paese effettivamente diviso fino al 1990 tra Nord e Sud, potrebbe ritrovarsi ulteriormente frammentato nell’immediato futuro.
Comunque vada, per lo Yemen garantiscono Arabia Saudita, Emirati, Oman, Bahrain, Qatar e Kuwait. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo, l’unione economica e politica degli stati che circondano il Golfo Persico a ovest, non accetta l’instabilità politica del povero vicino meridionale. Rischiano troppo in casa: minoranze sciite che si sollevano contro i governanti – come nel caso di Bahrain (dove in realtà gli sciiti sono in maggioranza, ndr), Kuwait e negli ultimi giorni persino dell’Arabia Saudita – fanno temere l’avanzata politica dell’Iran nella Penisola arabica. E quindi devono essere schiacciate. Gli Stati Uniti – per mano del loro affidabile alleato saudita – controllano in questo senso tutta la regione, di cui lo Yemen è l’anello debole sia per la forte presenza zaydita (sciita) al suo interno sia per la sua posizione geografica, importantissima per i traffici marittimi. Ma controllano soprattutto che la produzione petrolifera del Golfo, la più intensa del mondo, rimanga tale. Dulcis in fundo, c’è al-Qaeda, che si è rosicchiata il suo spazio nel debole stato affacciato sul martoriato Corno d’Africa dal quale penetra tutto: armi, guerriglieri e ogni sorta di traffici. Lo Yemen è troppo importante per essere abbandonato al suo destino: resta solo da scoprire quale sarà.
Fonte: Nena News