Considerazioni a margine di un convegno militante tenutosi recentemente ad Ankara

Data la mole di letteratura ormai disponibile, non c’era bisogno di partecipare a un convegno internazionale – “Crisi del capitalismo e salute” – per avere conferme che il capitalismo fa male alla salute. Ciò che invece i partecipanti hanno vissuto in tre giorni di discussioni ad Ankara, Turchia, è stata l’energia intellettuale che scaturiva dalla percezione di far parte di una lotta comune di cui ciascuno portava la propria testimonianza[1].

Dai vari interventi è apparso chiaro il violento assalto che in questo momento storico sta subendo la sanità di tutti i paesi, stretta tra forze che tentano di trasformarla in una merce e tra quelle che premono per renderla (o mantenerla) un servizio totalmente pubblico.

È sotto gli occhi di tutti la devastazione sociale che sta provocando la crisi economica e politica dei paesi a cosiddetto capitalismo avanzato[2]. Come tutti sanno, il capitalismo è quel sistema economico in cui la ricchezza prodotta, chiamata capitale, e i mezzi per produrla, sono nelle mani di una minoranza di persone che può farne uso come proprietà privata. Questo sistema si affida alle dinamiche del mercato cui è lasciato il compito sia di distribuire le risorse tra la popolazione sia di stabilire il livello dei salari e dei profitti delle diverse classi sociali.

Un risultato evidente del capitalismo è la produzione di ricchezza. L’altro fatto che l’accompagna è la creazione di disuguaglianza. Quest’ultima è vista come il naturale effetto della libera concorrenza a sua volta intesa come segno della lotta salutare che rinvigorisce l’intera comunità.  La filosofia che sottende questo tipo di organizzazione della società è la massimizzazione del profitto ottenuta attraverso un concetto di efficienza che trascende ogni considerazione etica. In questo senso vanno intese, per esempio, le cosiddette “curve d’indifferenza”[3] con cui gli economisti mostrano i vari gradienti di disuguaglianza tra gli uomini suggerendo – secondo la teoria utilitarista – come una maggiore uguaglianza conduca a una somma minore di soddisfazioni, perché la somma della tanta ‘felicità’ di pochi sarebbe superiore alla somma della poca ‘felicità’ di molti.  La capacità potenziale che avrebbe il capitalismo di risolvere i problemi dell’umanità’ attraverso la produzione di ricchezza non può, tuttavia, essere realizzata a causa della trappola rappresentata dal fatto che profitto e concorrenza vengono prima dei bisogni e dei diritti umani.

Di conseguenza è ovvio che libero mercato e uguaglianza non vanno d’accordo.
L’umanità se ne sta tragicamente accorgendo soprattutto da quando, oltre trent’anni fa, venne risuscitato quello stesso sistema economico, detto liberismo, che era nato con la rivoluzione industriale e aveva imperato fino alla crisi del 1929. Di fronte a quel fallimento sociale ed economico una nuova idea si era fatta strada per organizzare l’economia della società umana: con il “new deal” americano e le politiche keynesiane lo stato era diventato il promotore di crescita e sviluppo economico, fino ad arrivare al boom che aveva fatto seguito alla seconda guerra mondiale. In quel periodo chiunque avesse osato proporre le ricette economiche neo-liberiste che oggi dettano legge avrebbe suscitato ilarità.

A partire dagli anni settanta, tuttavia, grazie al dispiegamento massiccio di istituzioni accademiche (come l’Università di Chicago), filantropiche (prima fra tutte la Rockfeller Foundation), finanziarie (Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale), multinazionali etc., la dottrina neo-liberista, compendiata e propagandata nel cosiddetto Washington Consensus, entrava potentemente nell’immaginario collettivo come un’opzione ineludibile a cui non esiste alternativa. Qualsiasi altro esperimento di società (come quello della rivoluzione cubana o del Cile democratico di Salvador Allende) era represso con la forza, boicottato o cancellato dai principali mezzi d’informazione. Il crollo del sistema sovietico alla fine degli anni 80 fece il resto.

Per una strana ironia della sorte, tuttavia, fu proprio con l’avvento al potere dei due maggiori campioni del neo-liberismo, il presidente degli USA Ronald Reagan e il Primo Ministro britannico Margaret Thatcher, che coincise la comparsa sulla scena di un nuovo protagonista nella guerra delle idee: l’improvvisa e avanzante produzione di letteratura scientifica sulle disuguaglianze socio-economiche in salute. L’uscita nel 1980 del Black Report[4] rappresentò la scintilla di questa esplosione. Da questo momento un crescente corpo di conoscenze osava sfidare ciò che ormai era diventato opinione comune e dogma indiscutibile, che cioè il capitalismo moderno è il sistema migliore (o addirittura l’unico) per risolvere i problemi dell’uomo.  Emergevano così prove sempre più inoppugnabili di come la disuguaglianza, pilastro portante del neo-liberismo, sia deleteria per la nostra salute e ci accorci la vita.

Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nonostante sempre più preda del potere finanziario dei paladini del neo-liberismo (FMI, Banca Mondiale, e Organizzazione Mondiale del Commercio) e succube della loro ideologia mercantilistica, non poteva non occuparsi di ciò che ormai era emerso come il principale fattore di rischio (o “determinante”, come veniva ribattezzato nel gergo ufficiale) per la salute dell’umanità: la disuguaglianza socio-economica. Nel 2003 usciva la seconda edizione di una pubblicazione divulgativa dal titolo “I Fatti Concreti”[5] (The Solid Facts) edito da due dei più attivi ricercatori nel settore, Michael Marmot e Richard Wilkinson. In essa il “gradiente sociale” (comodo eufemismo per rendere meglio accettabile il concetto di disuguaglianza tra le classi sociali) era indicato come il principale responsabile, la “causa delle cause” di malattia e morte prematura.

Il percorso dell’OMS in questa direzione continuava con l’istituzione nel 2005 della Commissione sui Determinanti Sociali della Salute che tre anni dopo produceva il Rapporto “Closing the Gap in a Generation”[6]. Il suo messaggio principale era: “Le disuguaglianze in salute sono causate da ineguale distribuzione di potere, reddito, beni e servizi, a livello globale e nazionale… Esse non sono un fenomeno naturale ma il risultato di una combinazione tossica di politiche sociali sbagliate e situazioni economiche ingiuste… C’è bisogno di un nuovo approccio allo sviluppo: la semplice crescita economica non basta se non c’è ridistribuzione delle ricchezze prodotte”.

Il concetto centrale che sottende le conclusioni del rapporto:
L’ingiustizia sociale sta uccidendo le persone su vasta scala.
Ciò che vediamo succedere sotto i nostri occhi allibiti è la messa in atto di politiche che, da una parte, massimizzano l’accumulo del profitto e la sua ridistribuzione nelle mani di pochi e, dall’altra, socializzano i rischi e i costi della crisi attraversata dal capitale. Gli effetti di queste politiche su cittadini e lavoratori sono instabilità economica, disoccupazione, povertà, disuguaglianza, distruzione dell’ambiente fisico e aumento delle malattie e morte precoce per le classi meno abbienti.

È la trasposizione moderna dell’Assassinio Sociale (Social Murder) descritto da Frederic Engels nell’Inghilterra della rivoluzione industriale: “Se un individuo arreca a un altro un danno fisico di tale gravità che la vittima muore, chiamiamo questo atto omicidio [preterintenzionale]: se l’autore sapeva in precedenza che il danno sarebbe stato mortale, la sua azione si chiama assassinio. Ma se la società pone centinaia di proletari in una situazione tale che debbano necessariamente cadere vittime di una morte prematura, innaturale, di una morte che é altrettanto violenta di quella dovuta ad una spada o a una pallottola; se toglie a migliaia di individui il necessario per l’esistenza, se li mette in condizioni nelle quali essi non possono vivere; se mediante la forza della legge li costringe a rimanere in tali condizioni finché non sopraggiunga la morte, che é la conseguenza inevitabile di tali condizioni; se sa, e sa anche troppo bene, che costoro in tale situazione devono soccombere, e tuttavia la lascia sussistere, questo é assassinio, esattamente come l’azione di un singolo, ma un assassinio mascherato e perfido, un assassinio contro il quale nessuno può difendersi, che non sembra tale, perché non si vede l’assassino, perché questo assassino sono tutti e nessuno, perché la morte della vittima appare come una morte naturale, e perché esso non è un peccato di opera, quanto un peccato di omissione. Ma è pur sempre un assassinio… ciò che i giornali operai inglesi a pieno diritto chiamano assassinio sociale .”

Sempre con Engels, ora come allora, è necessario dimostrare, e i dati che lo confermano sono ormai inconfutabili, che:  “la società sa quanto questa situazione sia dannosa per la salute e per la vita degli operai e che tuttavia non fa nulla per migliorare questa situazione. Per dimostrare che essa conosce le conseguenze del suo sistema, e che quindi il suo modo d’agire non è solo omicidio [preterintenzionale], ma assassinio, mi basterà citare documenti ufficiali, rapporti del parlamento e del governo che attestino il fatto dell’omicidio.”[7]

Questi “documenti ufficiali” sono a nostra disposizione sotto forma di un ormai imponente corpo di letteratura scientifica che racconta chiaramente la realtà dell’assassinio sociale di cui l’attuale moribondo sistema socio-economico si è reso responsabile. Mantenerlo in vita nella sua forma attuale sarebbe tragico.

Angelo Stefanini, Centro Salute Internazionale, Università di Bologna

Bibliografia
1. XVIth Conference of IAHPE, 29 September – 2 October 2011, Ankara Turkey  International Association of Health Policy. Visitato l’11-10-2011
2. Maciocco G. Crisi economica, sistemi sanitari e salute. Il caso Grecia. Saluteinternazionale.info 27.10.2011
3. Venuti F. Le curve di indifferenza.
4. Inequalities in Health. The Black Report 1980. Visitato l’11-10-2011
5. Marmot M, Wilkinson R. Social determinants of Health: the solid facts [PDF: 480 Kb]. 2nd edition. Geneva: WHO, 2003. Visitato l’11-10-2011
6. Commission on Social Determinants of Health – final report. Closing the gap in a generation: Health equity through action on the social determinants of health. Visitato l’11-10-2011
7. Engels F. La situazione della classe operaia in Inghilterra. Lotta Comunista, 2011, pagg. 163-4.

da Salute internazionale