L’Assemblea Nazionale Costituente è stata eletta [1]. La sua prima riunione si terrà il 22 novembre. Senza dubbio, il partito Ennahdha è emerso vittorioso dalle urne. I risultati del voto, tuttavia, hanno rivelato numerose sorprese. Anche se la vittoria dei candidati del partito Ennahdha era attesa, questo ha ottenuto un risultato ben più importante del previsto, con 1,5 milioni di voti. Ennahdha ha ottenuto 89 seggi (41%) sui 217 che conta l’Assemblea Costituente.
Sottolineare, come alcuni fanno, che il 60% degli elettori non ha votato per Ennahdha, ma per le 27 liste che hanno ottenuto dei seggi nell’Assemblea Costituente, non ha molto senso, nella misura in cui ciò vorrebbe dire che, nonostante le differenze, queste ultime liste avrebbero molte più cose in comune fra loro che con Ennahdha – un modo come un altro per dire che la frattura principale che attraversa la società tunisina è quella tra secolaristi modernisti e islamisti.
Meno prevedibile, è stata la sferzante sconfitta del PDP [2], che, contro ogni aspettativa, è stato superato dal CPR e dal FDTL (Ettakatol). Ha ottenuto 111.000 voti e 16 eletti (8%), contro 340.000 voti e 29 seggi (13%) del CPR e circa 250.000 voti e 20 seggi (9%) di Ettakatol. Il raggruppamento anti-Ennahdha, il Polo Modernista e Democratico, sembra essere il grande sconfitto di queste elezioni, con poco meno di 50.000 voti e 5 seggi (2%). L’estrema sinistra (PCOT e Movimento dei Patrioti Democratici) ha ottenuto solo quattro seggi – ben al di sotto delle aspettative. Altro fatto degno di nota, i membri dichiarati del partito disciolto di Ben Ali, il RCD, ora si trovano emarginati in Assemblea, rappresentati da soli cinque membri (quasi 100.000 voti del partito al-Mobadara, formato da un ex ministro, Kamel Morjane). Ma la sorpresa più grande è il successo delle liste della «Petizione Popolare per la libertà, la giustizia e lo sviluppo» (El Aridha), che ha ottenuto 26 seggi, e quindi si trova in terza posizione dietro il CPR.
I numerosi giudizi che sono seguiti a queste elezioni, interpretano i conflitti politici in Tunisia attraverso una chiave di lettura eurocentrica, in termini di contrapposizione destra/sinistra, conservatori/progressisti o secolaristi modernisti/islamisti. Ma ciò che caratterizza l’attuale Tunisia non è né una semplice opposizione tra sfruttatori e sfruttati, né la coesistenza di sfere moderne e pre-moderne, ma la giustapposizione, costitutiva della medesima modernità, in seno ai rapporti sociali, di modalità di potere capitaliste e di modalità di potere figlie del periodo coloniale, tuttora presenti. Nel contesto di questo articolo, non posso dilungarmi su tale tema.
La maggioranza dei giudizi successivi alle elezioni, peccano anche da un altro punto di vista: svuotano il conflitto politico dai suoi aspetti squisitamente politici e strategici. Infatti le strategie dei diversi attori, che siano le forze di potere o quelle politiche in competizione, hanno giocato un ruolo decisivo nelle loro rispettive capacità di ottenere i voti del popolo. Costruite in fretta, spesso esitanti, condizionate in parte dalla cultura politica dei vari partiti e dalle loro radici sociali, queste strategie hanno in gran parte determinato l’evoluzione dei rapporti di forza sul campo – favorendo alcuni e punendo altri. Il 14 Gennaio non era detto che Ennahdha avrebbe costituito la forza maggioritaria dell’Assemblea Costituente. Naturalmente, questo partito aveva diverse carte da giocare, tuttavia, non era certo che avrebbe riportato una tale vittoria.
Per comprenderne le ragioni, non si può prescindere, da un’analisi dell’evoluzione dei rapporti di forza politici e delle strategie adottate dai differenti attori sin dall’inizio della Rivoluzione.
Rivoluzione e Contro-Rivoluzione
Se è necessario attestare il carattere rivoluzionario del processo politico che si è sviluppato in Tunisia [3], basti ricordare la forza della mobilitazione popolare, iniziata il 17 Dicembre 2010. Si è trattato, infatti, dell’intervento diretto e massiccio della popolazione nel campo politico, in un miscuglio di tutte le categorie sociali, che ha portato alla fuga precipitosa del presidente Ben Ali -, al makhlou3, come ormai viene chiamato, “il caduto”, colui che è stato licenziato, rimosso, strappato come si strappa un dente infetto. Queste mobilitazioni si sono successivamente estese, radicalizzate, organizzate, a tutti i livelli della società, a scatti, ma in maniera crescente, e questo per diversi mesi. Nuovi settori sono entrati in lotta, forme di auto-organizzazione sono emerse dal basso, le rivendicazioni si sono diversificate, mentre il livello degli obiettivi politici si è approfondito. Per molte settimane è stata “la strada” che ha comandato, e non un potere politico, ormai in difficoltà, costretto a cedere di fronte ad esigenze fondamentali, fino a quella di un’Assemblea Costituente eletta democraticamente.
Questo ha portato, se non alla distruzione delle istituzioni e di tutti i meccanismi del precedente sistema politico, quanto meno ad una loro profonda disarticolazione.
Circa dieci mesi dopo la sconfitta del dittatore, la Tunisia rimane gravida di nuovi conflitti, incertezza e imprevedibilità continuano a regnare – tutto questo nonostante una relativa stabilità, il contenimento delle mobilitazioni e la creazione di nuove forme di istituzionalizzazione. Quali che siano i limiti di questi sconvolgimenti e le delusioni possibili, un nuovo periodo storico si è aperto. Ed è sufficiente per parlare di rivoluzione popolare.
Se vogliamo caratterizzare le scelte strategiche adottate dai circoli più influenti del potere (e, senza dubbio, dai loro “consiglieri” americani) allo scopo di contrastare la dinamica rivoluzionaria, l’idea di contro-rivoluzione, intesa nel suo significato storico di contro-mobilitazione di massa [4], non era conveniente.
Il dispiegarsi degli eventi suggerisce che diverse strategie si siano incrociate, che potrebbero aver ricevuto impulso da sfere più o meno concorrenti in seno al potere. Sembra che alcuni cacicchi del regime benalista abbiano accarezzato l’illusione di un rapido ripristino della loro autorità, senza limite, sotto la direzione di uno di loro, persino del presidente appena deposto [5]. Nei giorni che seguirono la fuga del dittatore, commandos non identificati hanno seminato il panico in molte città tunisine, mentre 11.000 prigionieri comuni “evasero” improvvisamente da diverse prigioni del paese.
Non sappiamo molto di ciò che è realmente accaduto nel corso di quei giorni di violenza né delle loro dimensioni reali, se non dalle tracce di incendio o di saccheggio, dalle testimonianze e dalle tante voci. Questi abusi, indipendentemente dalla loro reale importanza, sono addebitati alla Guardia presidenziale, guidata da uno degli scagnozzi di Ben Ali, il generale Seriati, o alla polizia politica e alle spie del RCD alle quali dei criminali sarebbero venuti a dare man forte. L’obiettivo era quello di diffondere paura e caos, idonei per il restauro del vecchio ordine – una strategia che si sarebbe scontrata, secondo la versione ufficiale, con l’intervento dell’esercito, sostenuto dalla mobilitazione popolare organizzata nei quartieri.
Sembra, infatti, verosimile, che la scelta di un ritorno al potere di Ben Ali o di un identico regime sotto un’altra autorità, non sia stata condivisa dai principali attori al potere, a favore di un’altra strategia, sviluppatasi a poco a poco negli ultimi giorni della dittatura. Così, è sembrato preferibile evitare che la crescente mobilitazione della popolazione rivelasse il suo pieno potenziale e giungesse a minacciare di far crollare tutte le istituzioni politiche, è anche sembrato opportuno sacrificare l’ex presidente e cooptare alcuni settori dell’opposizione al potere, elargendo qualcosa nel campo delle libertà civili. Ciò che si intendeva era una riforma dall’alto, progettata in fretta, per frenare l’espansione e la radicalizzazione del movimento di massa e incorporare, in parte, le richieste di cambiamento – ormai inevitabili – nel quadro istituzionale di una “transizione” negoziata. In altre parole, la sfida era trasformare la rivoluzione in “transizione nell’ordine”, secondo la formula costantemente ribadita dal governo degli Stati Uniti nel momento in cui la febbre rivoluzionaria si impossessava dell’Egitto. Il successo di una riforma dall’alto, naturalmente, dipendeva dalla capacità del potere di smobilitare le classi popolari e disorientarle, per emarginare le forze più combattive al loro interno.
L’ipotesi strategica di una “transizione nell’ordine”, sulla base di un compromesso tra élites, in grado di preservare le principali istituzioni del regime (in particolare il RCD), non era irrealistica. Tuttavia, la profondità delle ostilità verso il sistema di Ben Ali, ha costretto i circoli dirigenti dello Stato – e, senza dubbio, di molti oppositori – a fare nuove concessioni alla volontà di rottura espressa dalle mobilitazioni popolari.
Le forze d’opposizione dopo la Rivoluzione
La strategia di transizione aveva diversi vantaggi in mano. Il primo è che ha approfittato della relativa velocità con la quale è stata decisa la partenza di Ben Ali – verificatasi prima che la mobilitazione popolare scatenasse tutto il suo potenziale. Il secondo vantaggio è certamente il ruolo svolto dall’esercito. Rifiutando (di propria iniziativa?) di prendere parte alla repressione dei manifestanti, l’esercito si è ingraziato il popolo, evitandosi la contestazione toccata alla polizia. Ci si può chiedere se le violenze successive alla fuga del presidente non siano state strumentalizzate per accrescere ulteriormente il credito dell’esercito [6].
La strategia di transizione ha beneficiato soprattutto della moderazione della maggior parte dei partiti che erano all’opposizione al tempo di Ben Ali. Raggruppando alcune centinaia di membri la cui gran parte, privi di radicamento sociale, al massimo appena tollerati se non ferocemente repressi come il movimento Ennahdha, questi partiti si erano giustamente costruiti dentro una prospettiva di “transizione democratica” negoziata tra certe frazioni del potere e le correnti ragionevoli dell’opposizione, sotto la spinta di grandi forze. A parte alcuni gruppi di estrema sinistra, come il PCOT, o personalità come Moncef Marzouki, il presidente del CPR, che si appellava alla “resistenza” e alla ”disobbedienza civile”, la prospettiva di una grande mobilitazione popolare non faceva parte in nessun modo, dell’orizzonte strategico dei gruppi di opposizione.
E’ significativo da questo punto di vista, che nel 2008, durante la rivolta nel bacino minerario della regione di Gafsa, con l’eccezione della sinistra radicale, la maggior parte delle forze di opposizione sono rimaste fuori dal movimento – e per diverse settimane – prima di manifestare un timido sostegno, destinato più ad evidenziare la gravità della situazione sociale e l’urgenza delle riforme, piuttosto che ad allargare l’estensione della sfera della protesta popolare.
Devo anche sottolineare il terribile stato di necessità in cui sono venute a trovarsi le opposizioni tunisine: isolate e perseguitate dal regime, hanno dovuto trovare appoggi al di fuori del paese, aspettando dalle grandi potenze una pressione sul potere. Gli effetti perversi di una tale politica sono stati l’adozione di strategie di lobbying internazionale, articolate attorno alla questione dei diritti umani come alternativa alla costruzione di un rapporto di forze in Tunisia, e il rafforzamento dei legami – spesso non lontani dall’ossequio – con l’Unione europea e gli Stati Uniti. Infine, la maggioranza delle opposizioni a Ben Ali concepiva fondamentalmente la politica come guidata da una democrazia d’elite. Se avessero dovuto scegliere, è certo che avrebbero optato per una transizione negoziata, senza l’intervento popolare. Sorprese dalla rivoluzione, hanno dovuto farvi fronte, lasciandosi, più o meno, coinvolgere nelle proteste, senza cercare quindi, una rottura con l’ex dittatore. Infatti, la vigilia della sua fuga, la maggioranza delle forze politiche si sono pronunciate di nuovo per una sorta di riconciliazione generale. L’indomani del 14 gennaio, la linea generale del loro impegno è rimasta la stessa, preferendo – tranne in rari momenti – la via del negoziato al vertice e il rispetto della legalità istituzionale.
La strategia di transizione ha dunque scommesso sulle forze dell’opposizione, come l’opposizione ha puntato sul conservatorismo burocratico dei principali leader dell’ Ugtt [7], portati ad inserirsi positivamente in un processo di riforma dall’alto, a condizione di imbrigliare l’influenza dei sindacalisti radicali. Unica organizzazione di massa per decenni, radicata soprattutto nei settori più qualificati del mondo del lavoro – soprattutto tra i lavoratori della funzione pubblica – la direzione centrale del sindacato si era essa stessa compromessa con il regime per molti anni. Siccome la pressione popolare, si era fatta più pesante, in quanto trasmessa dalle sezioni di base delle regioni più svantaggiate e da alcune federazioni note per i legami con la sinistra radicale, essa è stata sicuramente spinta, negli ultimi giorni della dittatura, a sostenere con decisione il movimento rivoluzionario. Nonostante qualche esitazione nel periodo immediatamente successivo alla caduta di Ben Ali, essa ha accompagnato, ma per una fase solamente, il movimento di protesta.
Legittimità rivoluzionaria e legittimità istituzionale
L’attuazione della “transizione nell’ordine” ha dovuto tuttavia, affrontare una mobilitazione rivoluzionaria permanente che la partenza di Ben Ali non è stata sufficiente a contenere. Ventiquattro ore dopo essere stato nominato Presidente temporaneo, contro quanto sancito dalla Costituzione, Mohamed Ghannouchi, già primo ministro del dittatore, ha riguadagnato la sua posizione come capo del governo – ufficialmente in seguito alla decisione del Consiglio costituzionale – ed è a Foued Mebazza, un anziano signore dalla poca sostanza politica, che è stato assegnato, temporaneamente, il potere supremo. E’ stato designato anche un governo di transizione: questo governo riuniva alcuni dei principali funzionari del vecchio regime – in posizioni chiave [8], nonché, in posizioni secondarie, alcuni rappresentanti dell’opposizione (PDP, FDTL e Ettajdid) e dell’Ugtt. Incaricato di preparare le elezioni presidenziali e legislative entro sei mesi, questo governo non doveva durare.
Sotto la pressione di alcune delle federazioni più importanti (insegnamento primario e secondario, uffici postali, sanità, ecc.), la direzione dell’Ugtt ha immediatamente denunciato un governo che faceva buon viso ai leader benalisti e ha ritirato i suoi ministri. Essa è stata rapidamente seguita dall’FDTL. Si sono unicamente appoggiati il segretario del vecchio partito comunista, il movimento Ettajdid, e il leader del PDP, Ahmed-Nejib Chebbi, desideroso di porre fine alla rivoluzione e convinto della vittoria alle elezioni presidenziali annunciate. In tutto il paese, l’annuncio della composizione del nuovo governo ha suscitato, tuttavia, un’ondata di indignazione. Al centro delle rivendicazioni avanzate dai manifestanti, la partenza di Mohamed Ghannouchi, l’espulsione dei Ministri del RCD, la sua dissoluzione, e il processo di tutti i soggetti coinvolti nel sistema di Ben Ali. La rivoluzione iniziava un secondo ciclo che avrebbe costretto i diversi soggetti politici organizzati a correggere le loro strategie.
Non posso raccontare qui tutti i fatti verificatisi in questo periodo, se non per sottolineare il movimento d’insieme: di fronte ad una grande mobilitazione nazionale e alla graduale destrutturazione delle istituzioni del regime, il potere ha navigato a vista, facendo concessione dopo concessione, cercando di guadagnare tempo. Non è un caso, la contestazione ha continuato a crescere, portando a due eventi che segnano contemporaneamente il culmine del processo rivoluzionario e l’inizio del suo declino.
Il primo evento si è tenuto l’11 febbraio: la costituzione del Consiglio nazionale per la protezione della rivoluzione. Si tratta di un istanza formata dalla stragrande maggioranza delle organizzazioni della società civile a stretto contatto con i molti comitati locali di protezione della rivoluzione, creati nelle città e nei quartieri. A parte il movimento Ettajdid e il PDP – ancora al governo – c’erano molti partiti politici, fra cui il partito Ennahdha e i movimenti di estrema sinistra, numerose associazioni, l’Ugtt e l’Ordine degli avvocati: essi esigevano l’elezione di un’Assemblea Costituente, lo scioglimento del RCD e la formazione di un governo provvisorio composto da tecnocrati non affiliati all’ex partito di Ben Ali. In particolare, il Consiglio ha chiesto che la sua autorità fosse formalizzata da un decreto-legge del Presidente della Repubblica, che gli concedesse diritto di veto e di controllo sulle attività del governo, specialmente sulla nomina dei funzionari. Di fronte alla legittimazione istituzionale che il governo aveva fatto valere, un altro organo di potere nazionale provava ad emergere, dotato di una legittimità nata dalla rivoluzione.
Il secondo evento importante è senza dubbio la raccolta di diverse decine di migliaia di persone alla sede del governo sulla Place de la Kasbah, il 25 Febbraio. Abbiamo chiamato questo evento, la Kasbah II. La Kasbah I si era tenuta un mese prima, il 27 Gennaio. Molti manifestanti avevano occupato la Kasbah, sebbene il governo fosse stato epurato delle figure più influenti del vecchio regime. Questo sit-in era stato brutalmente disperso, senza porre fine alla tensione. I giorni seguenti, manifestazioni e scontri con la polizia si verificavano in diverse città. Organizzata, a quanto pare, indipendentemente dai partiti politici, la Kasbah II è stata un intenso momento di mobilitazione, avendo come principali parole d’ordine l’elezione di un’Assemblea costituente, la dissoluzione effettiva del RCD e l’allontanamento del primo ministro Mohamed Ghannouchi.
Mohamed Ghannouchi viene successivamente sostituito da Beji Caid Essebsi, un ex ministro di Bourguiba, presidente della Camera dei Deputati nei primi anni ‘90. Il governo viene rimaneggiato. Alcuni degli uomini del vecchio regime sono ancora lì, ma nessuno dei cacicchi di Ben Ali vi figura più. Tecnocrati, esperti e personalità secondarie della società civile sono, di contro, largamente rappresentate. Inoltre, promessa dal 6 febbraio, la dissoluzione del RCD è confermata. Ancora più decisiva è la sospensione della Costituzione del 1959 e l’istituzione dell’“Alta Istanza per la realizzazione degli obiettivi della rivoluzione, della riforma politica e della transizione democratica” sotto la direzione del neo-charfista [9], Yadh Ben Achour. Composta da 155 persone, rappresentanti quasi tutto il panorama politico, questa istituzione ormai aveva il potere di interpellanza del governo. Era responsabile, specificamente, di riorganizzare il processo democratico nel corso della “transizione” e di elaborare un progetto di legge elettorale, per consentire l’elezione di un’Assemblea Costituente, inizialmente fissata il 24 luglio.
Il nuovo governo cedette ad alcune delle principali richieste del Consiglio per proteggere la rivoluzione. Allo stesso tempo, cooptando in seno all’Alta Istanza la maggioranza delle forze che lo componevano, tra cui l’Ugtt e Ennahdha, il Consiglio si è visto defraudato della maggior parte della sua rappresentatività. La fretta con cui le forze di opposizione hanno rinunciato al Consiglio per proteggere la rivoluzione riflette l’ambiguità del coinvolgimento al loro interno. E’ vero che l’Alta Istanza, costituita dal Primo Ministro, è una critica forte della logica e delle pratiche del regime di Ben Ali. E’ anche vero che vi si sono espresse esigenze radicali e che decisioni importanti, da un punto di vista democratico, sono state prese e imposte al potere. Se la volontà di istituzionalizzare la rivoluzione, in un quadro negoziato con il potere costituito, ha predominato, rimane il fatto che, guidata dalla mobilitazione popolare, questa istanza ha sviluppato una dinamica che è sicuramente andata oltre quello che i suoi creatori immaginavano.
Facendo entrare la rivoluzione nel quadro dello stato, il nuovo primo ministro si è effettivamente assunto il rischio di essere intrappolato da essa. Salvo essere contestato come il suo predecessore, egli non poteva andare completamente contro le proposte fatte dai membri dell’Alta Istanza. Tuttavia, portando la rivoluzione nello stato, le autorità stavano progettando di spostare il centro di gravità della contestazione dalla “strada” ai palazzi lussuosi del potere, dove avvocati, insegnanti, medici e altri rappresentanti di partiti e della società civile dovevano prepararsi a condividere il potere con il vecchio quadro benalista. Con la creazione dell’Alta Istanza, lo spettro di una autorità esterna alle istituzioni ufficiali e forte di una legittimità rivoluzionaria è stato respinto, ma è stata concessa allo stesso tempo, la possibilità di decisioni contrarie agli interessi del potere e una totale revisione del sistema politico da parte della futura Assemblea Costituente. Infatti, con disappunto del Primo Ministro, poche settimane dopo la nascita dell’Alta Istanza, questa decide, con una maggioranza schiacciante, che non avrebbe potuto essere eletto nessuno di quelli che avevano ricoperto un qualsiasi ruolo all’interno del partito di Ben Ali, sin dall’inizio della sua ascesa al potere, 23 anni prima. Questo, non a caso, implica un ampio rimescolamento del personale al potere e la destabilizzazione delle reti di autorità e di clientela a livello nazionale. Bisognava, dunque, “liberare” i membri dell’Alta Istanza “dalla strada”, vale a dire indebolire la mobilitazione popolare su cui si basava la sua capacità di fare pressione al governo centrale, ma al contempo le vietava di fare troppe concessioni a quest’ultima.
NOTE
[1] Nel contesto altamente instabile dell’attuale situazione politica, non possiamo offrire qualcosa di diverso da un’analisi impressionistica delle dinamiche politiche in atto. Il significato degli eventi o dei loro effetti è tanto più difficile da decifrare in quanto l’informazione è molto parziale, distorta da conflitti e manovre, la realtà rimane opaca, molte decisioni sono in ombra, sia attori che giornalisti o ricercatori brancolano nel buio.
[2] Partito Democratico Progressista (PDP); Congresso per la Repubblica (CPR); Forum per la Democrazia, il Lavoro e le Libertà (FDTL); Partito Comunista dei Lavoratori di Tunisia (PCOT); Raggruppamento Costituzionale Democratico (RCD).
[3] In questo articolo, mi capiterà di riprendere, modificandoli, alcuni passaggi di un contributo, scritto a Luglio, dal titolo “Tunisia: Rivoluzione, Contro-rivoluzione e Transizione Democratica”, di prossima pubblicazione nella “Rivista Marocchina di Scienze politiche e sociali” nel mese di Dicembre a Rabat.
[4] Qualche giorno prima della sua caduta, l’ex presidente aveva tentato di mobilitare i quadri e gli aderenti del RCD, ma invano.
[5] A sostegno di questa visione, la nomina del suo uomo di fiducia e primo ministro, Mohamed Ghannouchi, come presidente ad interim, mentre l’articolo 57 della Costituzione tunisina stipula un interim del Presidente della Camera dei Deputati, in caso di vuoto di potere. Mohamed Ghannouchi è stato anche accusato di aver mantenuto rapporti telefonici con Ben Ali, rifugiato in Arabia Saudita. Si dice che la moglie si sia recata in Libia per preparare il trionfante ritorno della coppia presidenziale, con il sostegno di Gheddafi.
[6] La versione ufficiale suggerisce che i militari avrebbero schierato tutte le loro risorse al solo scopo di ristabilire l’ordine e proteggere la popolazione, così come quest’ultima ha invitato i cittadini a organizzare la propria difesa in ogni quartiere. Ora, non è completamente assurda l’ipotesi, se non di complicità attiva di ufficiali militari, almeno di una loro volontà di trarne vantaggio. Se le scene di violenza e di saccheggio sono una realtà innegabile, la loro reale ampiezza è ancora da valutare. Non possiamo escludere la possibilità di una drammatizzazione volontaria, destinata a rafforzare la popolarità dell’esercito. La mobilitazione popolare, organizzata attorno a comitati di autodifesa nei quartieri, avrebbe quindi oscillato dalla contestazione del regime al sostegno dell’esercito in modo da garantirsi il proprio ruolo di baluardo dello Stato, indispensabile per la soluzione transitoria. Notiamo inoltre, che, dopo la caduta di Ben Ali, la minaccia di un coinvolgimento militare nella repressione o addirittura di un colpo di stato militare, è stata costantemente avanzata per giustificare le concessioni fatte agli uomini del vecchio regime. Questo è stato in particolare, uno degli argomenti del capo del PDP, Ahmed Najib Chebbi, per giustificare la sua volontà di sostituire alla rivoluzione le elezioni presidenziali.
[7] Unione Generale Tunisina del Lavoro.
[8] 15 Ministri su 39 sono membri del RCD, alcuni dei quali occupavano già, sotto Ben Ali, importanti ministeri.
[9] Vedere nella seconda parte.
Traduzione dal francese a cura della Redazione