Rabbia e disordine
Così, all’attuazione del governo guidato da Béji Caid Essebsi e l’istituzione dell’Alta Istanza ha fatto seguito un irrigidimento delle forze di sicurezza e una più dura repressione delle proteste.
L’occasione principale è stata fornita dallo scatenamento, in circostanze poco chiare, di una delle crisi più importanti conosciute dal paese dopo le violenze seguite alla caduta di Ben Ali. Dopo la decisione dell’Alta Istanza di escludere dal processo costituente gli ex funzionari del RCD, i membri di questo partito hanno organizzato delle manifestazioni. Come dopo la caduta di Ben Ali, si apprende l’evasione simultanea di centinaia di prigionieri da diversi centri di detenzione del paese. Questo è il momento scelto dall’ex ministro dell’interno, Farhat Rajhi [1], per rilasciare un’intervista, resa subito disponibile in rete, dove accusa un uomo d’affari, noto per il suo coinvolgimento sotterraneo negli affari politici, di tirare le fila del governo per il bene della gente del Sahel [2]. Egli si preoccupa anche di vedere lo stato maggiore dell’esercito prepararsi a prendere il potere nel caso in cui i risultati delle elezioni per l’Assemblea Costituente avrebbero dato agli islamisti la maggioranza. Mentre le autorità condannano con forza le dichiarazioni dell’ex ministro, molte città tunisine sono teatro di manifestazioni e chiedono più trasparenza se non addirittura l’allontanamento del governo di Caid Essebsi. Queste manifestazioni sono represse con estrema brutalità. Cosa è successo esattamente? Non lo so. Mi sembra che ci sia stata una svolta nella situazione.
Da allora, violenze spesso sospette si innescano ripetutamente in diverse città. Saccheggi, incendi, distruzione di beni pubblici, si moltiplicano mentre i movimenti di protesta degenerano improvvisamente, senza che sia stato possibile determinare quanto vi fosse di spontaneo o di provocatorio. Questo tipo di scontri, a volte attribuiti dai media a conflitti “tribali”, non ha più smesso di abbracciare città differenti. Che siano più o meno sollevati da alcune sfere del potere, nel quadro di una strategia atta a sviluppare insicurezza tra la popolazione, o che siano semplicemente la conseguenza della decomposizione dei dispositivi di vigilanza e controllo dello Stato, o che si possa aggiungere la rabbia e l’insofferenza di una popolazione trascurata, resta il fatto che questi abusi hanno inibito le mobilitazioni e seminato disordine tra tanti tunisini. Questi rimangono irritati e preoccupati nel constatare che, sebbene le controversie politiche fossero vive in televisione, era ancora difficile capirne il senso. La dinamica rivoluzionaria ne esce molto scossa. Mobilitazioni popolari, scioperi nelle aziende, si susseguono qua e là, ma lo slancio collettivo delle prime settimane della rivoluzione sembra essere stato fermato. Il rapporto di forza peggiora a discapito delle classi subalterne che assistono, molto spesso passive, alla preparazione delle elezioni in cui la posta in gioco sembra molto lontana dai loro problemi reali, mentre i partiti politici annegano in una controversia che per la stragrande maggioranza dei tunisini non ha motivo d’essere, il rapporto tra politica e religione.
La confusione che ha caratterizzato le classi popolari negli ultimi mesi si è manifestata con particolare evidenza in occasione delle elezioni. Così, nonostante le ingenti risorse mobilitate, la campagna organizzata per incoraggiare i 7 milioni e mezzo di elettori a registrarsi nelle liste elettorali non ha suscitato l’entusiasmo previsto. Al contrario. I Tunisini, in particolare nei quartieri e nelle regioni più povere, non hanno avuto fretta di regolarizzare la loro posizione, al punto che alla scadenza del termine fissato dall’Istanza superiore indipendente per le elezioni (ISIE), l’autorità incaricata dell’organizzazione delle elezioni, ha deciso che i non registrati avrebbero potuto votare con la semplice presentazione della carta d’identità nazionale. Questa relativa indifferenza ha segnato anche il voto. Infatti, il tasso di partecipazione è del 52%. Si tratta di una cifra che, per delle elezioni che coronano un processo rivoluzionario, esprime almeno un certo distacco dalla competizione politica le cui problematiche sembravano spesso incomprensibili agli occhi di molti tunisini.
Se c’è un punto su cui i sondaggi pre-elettorali non si sono sbagliati, è infatti l’indecisione mostrata da molti – almeno un terzo degli elettori – alla vigilia stessa delle elezioni. E’ vero che le condizioni in cui le elezioni hanno avuto luogo non potevano che aumentare la confusione nei confronti della rivoluzione, dato che le classi popolari percepivano che essa sfuggiva loro a beneficio delle classi medie e delle loro élites. Per 217 seggi dell’Assemblea, sono entrati in competizione più di 1500 liste, che rappresentano oltre 10.000 candidati appartenenti per più della metà a decine di diversi partiti aventi, per la maggior parte, un paio di mesi di esistenza, e per il resto a una sfilza di liste indipendenti. In ogni circoscrizione, diverse decine di liste, quasi un centinaio a volte, si sono disputate i voti degli elettori, con temi e slogan spesso molto vicini. Durante la campagna elettorale, i tunisini sono stati sommersi da volantini e inviti a partecipare a incontri pubblici. Essi sono stati sommersi di discorsi monotoni e senza sorprese, con più o meno analoga trasmissione quattro ore al giorno su emittenti televisive e radiofoniche (così come da spot elettorali delle liste in lizza).
Una brutta sorpresa: Hechmi Hamdi
Non è possibile proporre una dettagliata analisi dei voti espressi perchè i risultati resi pubblici riguardano le sole circoscrizioni. Si osserva, in primo luogo, che, contrariamente ai suoi concorrenti, Ennahdha ha ottenuto un risultato importante, anche se irregolare, in tutte le regioni del paese e probabilmente fra tutte le classi della popolazione. A parte il grande sud desertico, dove ha preso più del 50% dei voti, i migliori risultati, li ha ottenuti, come gli altri partiti, nella metà orientale del paese. Buoni risultati anche nella regione di Gafsa (sud ovest). In altre parole, è generalmente nelle circoscrizioni in cui il tessuto urbano, amministrativo, industriale e commerciale è più coeso, che l’influenza di Ennahdha è più forte. In assenza di dati più precisi, è comunque possibile affermare che la classe media e i lavoratori salariati hanno votato a stragrande maggioranza per Ennahdha.
Anche se destrutturata dalla repressione per lunghi anni, Ennahdha ha mantenuto, in effetti, il pubblico che era riuscita a conquistare durante gli anni ‘80, a differenza di altri partiti più confidenziali dell’opposizione. Molto rapidamente, dopo la fuga di Ben Ali, Ennahdha è riuscito a ignorare le divergenze tra i suoi principali leader e ricostruire un’organizzazione che ha investito tutti gli ambiti sociali, specialmente nelle piccole città e nei quartieri popolari in cui si è rapidamente affermato come un’autorità alternativa, o almeno, come una forza con cui tutti dovevano fare i conti, riconfigurando molte reti locali di potere intorno a sè. Questa legittimità acquisita attraverso il controllo del “territorio” è stata molto probabilmente rafforzata da una strategia intelligente di opposizione al potere costituito. Pur sviluppando canali di negoziato in ogni direzione, Ennahdha si è sempre mantenuto a debita distanza dai governi che si sono succeduti dal 14 gennaio, e allo stesso tempo, senza fare alcun tentativo per sviluppare la dinamica rivoluzionaria, si è schierato al fianco delle più grandi mobilitazioni come Kasbah I e Kasbah II. Anche se, come altri partiti, durante la campagna elettorale, ha sostenuto gli argomenti della democrazia, della giustizia sociale e della lotta alla corruzione, è stato l’unico a mettere al centro della sua campagna l’identità islamica. Non è apparso come il partito di una particolare interpretazione dell’Islam, legato ad un progetto politico specifico, ma molto semplicemente come il partito dell’Islam. Inserendo la laicità al centro del dibattito politico o facendo di Ennahdha il partito da battere, le correnti secolariste hanno contribuito a mettere Ennahdha al centro del gioco politico e a fare del rispetto verso l’Islam l’unica questione identificabile nella grande confusione che ha segnato la campagna elettorale. I partiti democratici e la sinistra che hanno rifiutato di partecipare al dibattito avviato dai secolaristi sono stati costretti, loro malgrado, a posizionarsi in un modo o nell’altro in relazione a questa controversia.
Ma l’Islam è il punto di riferimento più familiare e più vicino alla vita quotidiana e al comune sentire dei tunisini. E questo riferimento è tanto più forte in quanto la diagnosi spontanea dell’autoritarismo e delle pratiche del sistema di Ben Ali ha sollevato categorie morali, ivi comprese le questioni sociali ed economiche (corruzione, favoritismi, ecc). Ciò che i tunisini hanno rimproverato al regime di Ben Ali è l’immoralità. Al contrario, in ragione della dimensione principalmente morale che una lettura popolare gli associa, l’Islam può sembrare avere risposte concrete ai problemi della società. Meglio della fumosa retorica politica dei concorrenti di Ennahdha, il riferimento all’Islam converge con la necessità di riconoscimento e dignità espressa con forza fin dall’inizio della rivoluzione. Questo non vuol dire che i problemi sociali e politici non abbiano contribuito a determinare il contenuto concreto delle proteste che hanno portato alla cacciata del dittatore, ma che i metodi di governo istituiti dal regime benalista incorporano, come uno dei loro principi, la disintegrazione delle forme di solidarietà e di riconoscimento intersoggettivo e istituzionale, ingenerando scarsa autostima individuale e collettiva, di cui è stato testimonianza, al contrario, lo scatto d’orgoglio espresso in tutti i ceti sociali dopo l’annuncio della partenza di Ben Ali.
Certo, per molti tunisini, questa dignità ritrovata, è associata alla modernità europea alla quale la caduta del dittatore apre finalmente la strada. Per altri, a volte gli stessi, più numerosi certamente, la dignità non può essere compresa senza la valorizzazione di un modo d’essere al mondo, proprio della loro identità, una cultura in cui l’Islam come la lingua araba, sono inseparabili – un Islam di cui solo Ennahdha fra i maggiori partiti in competizione per l’Assemblea costituente, si è presentato come lo strenuo difensore. Di fronte a questa esigenza di dignità la cui torsione religiosa potrebbe urtare, le forme secolari del “vivere insieme” e della politica cui aspirano gli Eurotunisini, questi ultimi non avevano nulla da opporre se non alcune forme largamente inefficaci: 1) L’Islam è molto importante, ma è più importante metterlo da parte, 2) L’Islam di Ennahdha non è né il “buono” né il “vero” Islam.
In verità la vittoria elettorale del movimento Ennahdha potrebbe essere meno significativa che le percentuali più basse ottenute da Ennahdha come dagli altri importanti partiti, nelle regioni semi-rurali e meno industrializzate del centro-ovest del paese, in quelle città, abbandonate da tutti i governi dopo l’indipendenza, in cui, la ribellione nel mese di dicembre, ha segnato la fine del regime di Ben Ali. A Sidi Bouzid, per citare solo questa zona, Ennahdha ottiene una delle sue percentuali più basse. Numerose piccole liste vi ottengono, al contrario, dei risultati non trascurabili, che permettono loro di avere degli eletti. Più sorprendente ancora, nella circoscrizione di Sidi Bouzid hanno vinto i candidati della “Petizione popolare” (El Aridha). In altre città del centro- ovest, El Aridha ottiene altri buoni risultati. Anche altrove (a Cap Bon, in particolare), i suoi risultati sono tutt’altro che trascurabili. In totale queste liste, sorte dal nulla, vincono 26 seggi, cosa che li mette al terzo posto nell’Assemblea Costituente.
Prima di continuare, è ovviamente necessario dire qualche parola su queste liste, costituite da un personaggio molto poco chiaro, Hechmi Hamdi. Membro d’Ennahdha, è stato costretto a rifugiarsi a Londra nel 1999, dove ha fondato una rete televisiva (Al Mustaqila), permettendo a molti dell’opposizione tunisina di parlare liberamente. Pur avendo lasciato Ennahdha dal 1992, fu coinvolto in trattative discrete tra il suo partito e il precedente governo tunisino, per poi passare dalla parte della dittatura, trasformando la sua televisione in organo di propaganda televisiva al servizio della coppia presidenziale. Dopo la rivoluzione, ormai ricco uomo d’affari, si presentò come il naturale successore di Ben Ali al Palazzo di Cartagine, ha fondato il “Partito Conservatore Progressista”, di cui pochi avevano sentito parlare fino a quel momento, e crea liste conosciute con il nome di El Aridha. Sempre senza lasciare Londra, ha condotto una campagna sul suo canale televisivo, promettendo anche l’assistenza sanitaria gratuita a tutta la popolazione e 200 dinari (100 euro) di indennità mensile per tutti i disoccupati – cosa che, a dire il vero, non era più stupida delle grandi e astratte promesse fatte con enfasi, dai candidati principali. Provocando violenti disordini nella regione di Sidi Bouzid, l’ISIE aveva invalidato 6 liste di Hechmi Hamdi, con il sostegno di tutta la classe politica (i ricorsi, depositati in seguito, al tribunale amministrativo hanno annullato la maggior parte delle sue decisioni). I suoi detrattori hanno denunciato il carattere demagogico della campagna da lui condotta, e soprattutto il coinvolgimento di reti benaliste alle quali l’ex militante di Ennahdha si era strettamente legato. L’accusa è plausibile. Si accusano anche i suoi sostenitori di aver fatto un porta a porta, distribuendo soldi e promettendo a tutti un premio consistente se El Aridha avesse vinto le elezioni. Possibile. Tuttavia, questo non è sufficiente a spiegare perché così tanti tunisini si sono fidati di Hechmi Hamdi o perché, nelle stesse città sollevatesi contro Ben Ali e le sue reti, queste ultime sarebbero riuscite ad ottenere un ampio sostegno alle elezioni.
Ancora una volta, in assenza di dati completi sui risultati elettorali, è difficile essere assertivi. L’inaspettata svolta delle liste di Hechmi Hamdi rispecchia, a mio avviso, la delusione e lo sgomento, risultato di battaglie perse dal movimento popolare tra febbraio e maggio. Che il sostegno a El Aridha si sia espresso soprattutto a Sidi Bouzid, da questo punto di vista, non sorprende. Le regioni in cui El Aridha ha ottenuto il maggior numero di voti sono quelle in cui l’impegno per la rivoluzione era stato più determinato, quelle in cui bisogni e aspettative erano più alte, quelle che non hanno visto nessuna azione in loro favore, costatando ancora una volta, che la politica era monopolizzata dalle élites urbane della costa orientale e certamente a loro vantaggio. In queste condizioni, molti di coloro che non hanno rinunciato al voto hanno favorito, senza dubbio, i loro interessi materiali più immediati o affidandosisi ai notabili locali e alle reti clientelari tradizionali. Altrimenti detto, il voto ad El Aridha mi sembra si debba spiegare principalmente con il riflusso della rivoluzione e il deterioramento dei rapporti di forza politici a spese degli strati sociali più svantaggiati.
Note
[1] Nominato Ministro dell’Interno nel secondo governo di Mohamed Ghannouchi, questo magistrato aveva molto presto suscitato un fenomeno di rigetto nel suo ministero. E’ stato rimpiazzato il 28 Marzo da Habib Essid, capo di gabinetto di diversi ministri sotto Ben Ali
[2] Dopo l’indipendenza, i tunisini originari del Sahel, più precisamente della regione di Sousse-Monastir, dove è nato Bourguiba, sono stati privilegiati dal regime. Farhat Rajhi li accusa di “non voler lasciare il potere”
[3] Fermo restando che le pratiche politiche erano ciò che erano, non posso escludere che accordi segreti di ripartizione del territorio siano stati conclusi prima delle elezioni, tra Ennhdha, interessata a non trovarsi sola al potere, e altre forze meno popolari. E’ evidente che tali accordi pregiudicherebbero l’analisi dei risultati
Traduzione di Daniela Di Marco