Delusione all’estrema sinistra
Questo stesso fenomeno spiega anche la pungente sconfitta delle liste di estrema sinistra. Ma la spiega solo in parte. In un’intervista, il segretario generale del PCOT, Hamma Hammami, mette in campo delle irregolarità durante la campagna elettorale e durante gli scrutini, i modesti mezzi finanziari del suo partito, la minore copertura mediatica ricevuta a paragone di altri candidati e la confusione causata dal nome “Al Badil etthaouri” (l’alternativa rivoluzionaria) delle liste del PCOT, il cui nome, per contro, era poco conosciuto. Deplora inoltre la frammentazione delle candidature di estrema sinistra.
Questi fattori non sono certo trascurabili. Essi non sono sufficienti tuttavia, a spiegare perché i candidati della sinistra radicale, che hanno fatto campagna intorno ad una democrazia estesa, ad un progetto nazionale anti-imperialista orientato verso il soddisfacimento delle aspirazioni e delle esigenze delle classi lavoratrici, allo smantellamento delle istituzioni del vecchio regime, al processo agli ex funzionari corrotti o coinvolti in atti violenti, hanno attirato così pochi voti, anche nelle zone più povere e nei quartieri popolari. Soprattutto, questi fattori non spiegano perché, i sindacalisti più combattivi e i nazionalisti arabi, gli attivisti della sinistra radicale che hanno giocato un ruolo importante nella mobilitazione rivoluzionaria a Gafsa, Sidi Bouzid e altrove, sia prima della caduta di Ben Ali che nei mesi che la seguirono, non abbiano visto il loro ruolo riconosciuto e approvato dagli elettori. Potremmo discutere delle distorsioni nell’espressione e rappresentazione dell’opinione pubblica, causata dai meccanismi elettorali. Ma una volta prese in considerazione queste distorsioni, si pone la questione della strategia adottata per farvi fronte.
L’unificazione delle forze di estrema sinistra sarebbe stata sufficiente a contrastare gli effetti negativi della rappresentanza elettorale? Nel quadro dei rapporti di forza esistenti, questo sembra improbabile. Se una alternativa c’era, non la si trovava forse nell’allargamento progressivo dello spazio politico della sola sinistra radicale o di uno dei suoi componenti? Non la si trovava piuttosto in un’organizzazione di massa che, ben più di Ennahdha – almeno fino alle elezioni – era strettamente legata alle classi popolari, ovvero l’Ugtt?
Sin dalla sua fondazione in epoca coloniale, l’Ugtt ha giocato un ruolo politico fondamentale che non è sempre stato, anzi, quello di ricambio della politica del partito desturiano. Al contrario, nonostante il rapporto ambivalente di solidarietà conflittuale che aveva tenuto con il potere per decenni, è stato anche un contro-potere, attraverso il quale si sono espresse le opposizioni politiche, al punto che il progetto di fondare un partito a partire dall’Ugtt o la presentazione di liste elettorali è stata spesso all’ordine del giorno a tutti i livelli del Sindacato. Naturalmente, a partire dalla metà degli anni ‘90, esso aveva perso parte della sua forza e il margine di manovra dei sindacalisti in rapporto alle reti burocratiche legate al potere è stato fortemente limitato, ma, e lo si è visto, in un contesto di mobilitazione rivoluzionaria, sotto la pressione congiunta degli eventi, degli attivisti di base e delle sue organizzazioni di settore e regionali, l’Ugtt ha di nuovo svolto un ruolo politico centrale, fino alla partecipazione al Consiglio per la protezione della rivoluzione. Successivamente, sono confluiti gli interessi dei suoi vertici burocratici e le strategie di formazioni della sinistra radicale, giocando ciascuno la sua parte, affinchè l’Ugtt si attenesse ad un ruolo sociale rivendicativo e sostenesse il governo di Béji Caid Essebsi. Non sono certamente in grado di affermarlo con sicurezza, ma è ragionevole pensare che richiedere la creazione di liste dell’Ugtt o emanazioni delle sue strutture più combattive era una scommessa strategica spendibile e forse portatrice di una dinamica rivoluzionaria che le sole forze della sinistra radicale non avrebbero potuto portare avanti. Tale approccio, se fosse stato possibile, avrebbe imposto nel dibattito i problemi reali della rivoluzione (invece delle polemiche assurde “secolaristi contro islamisti”). Avrebbe portato alla Costituente un certo numero di deputati, che probabilmente non si sarebbero riuniti attorno ad un progetto rivoluzionario radicale, ma almeno attorno alle rivendicazioni nazionali, sociali e democratiche più urgenti delle classi popolari. Che non si veda, in questa analisi, il tentativo di dare lezioni a militanti spesso inflessibili e coraggiosi. Non sono in grado, da parte mia, di fare un millesimo di quello che hanno fatto loro per il trionfo della rivoluzione. Più modestamente, la mia intenzione è quella di evidenziare qui, come nel resto di questo articolo, che i risultati delle elezioni non erano già predeterminati da fattori culturali o sociali intangibili, ma dalle politiche e dalle strategie dei diversi attori.
Secolaristi contro islamisti?
Questo articolo, già lacunoso, sarebbe piuttosto incompleto se non mi soffermassi sulla famosa dicotomia “secolaristi contro islamisti”. I risultati più alti dei partiti considerati secolaristi – anche quando hanno rifiutato di condurre una campagna anti-Ennahdha – sono stati ottenuti nelle aree urbane più agiate della capitale e della costa nord-orientale. È indicativo, da questo punto di vista, che il Polo secolarista e democratico, costituito dall’ex Partito Comunista diventato il partito Ettajdid e dal Partito socialista di sinistra (PSG), nato dall’estrema sinistra, ha raggiunto i suoi migliori risultati, anche se deboli, nei sobborghi residenziali e ricchi di Tunisi. Ciò è tanto più paradossale in quanto, sia il PSG che Ettajdid, hanno mantenuto del loro passato una reale attenzione alla questione di classe. Tuttavia, quest’ultima ha senso per loro solo nel quadro di un modernismo secolarista prioritario rispetto a tutte le altre considerazioni.
Molto rapidamente, dopo la fuga di Ben Ali, mentre il partito Ennahdha aveva appena iniziato a ristrutturarsi, una frangia del movimento democratico ha reiterato un discorso che si potrebbe credere superato, quello degli anni ‘90, che aveva visto la stragrande maggioranza dei democratici tunisini e militanti di sinistra, sostenere più o meno esplicitamente, la repressione del movimento islamista. La figura emblematica di questa politica è stato il “secolarista” Mohamed Charfi, la cui partecipazione al governo aveva giustificato agli occhi di molti, il silenzio contro la feroce repressione del movimento Ennahdha, malgrado questa partecipazione permettesse la degenerazione poliziesca e “mafiosa” del sistema politico. Molti, pur rallegratisi della rivoluzione, hanno ben presto privilegiato la volontà di bloccare l’Islam politico rispetto allo smantellamento delle istituzioni repressive del vecchio regime [1], spesso cercando di negoziare una “transizione democratica” in condizioni che garantissero la marginalità di Ennahdha. La soluzione che essi hanno trovato, e devo dire che è la più maldestra, è stata quella di difendere la laicità come principio dello Stato. Inoltre, pur felicitandosi per il successo della rivoluzione, essi non hanno cessato di prendere le distanze dalle sue forme popolari, spontanee, non inquadrate, irrazionali, non integrabili nel seno di una modernità istituzionale, insomma, “non storiche”.
La mia ipotesi è che a monte della campagna contro Ennahdha, ci siano gli interessi congeniti di una frazione delle classi medie che io qualificherei come “burghibiste”. In questo ambito, il Polo modernista e democratico rappresenta l’espressione estrema di una ideologia eurocentrica, eredità della colonizzazione e del burghibismo, che attraversa, a vari livelli, tutta la società, compresi, in forme peculiari, i sostenitori di Ennahdha. Questa ideologia che contribuisce a perpetuare una condizione subalterna dei tunisini nelle relazioni sociali mondiali, funziona nello stesso movimento, come uno dei principali dispositivi di distinzione fondamentale a beneficio delle classi medie e superiori e come una delle procedure di espulsione delle classi popolari dal campo politico e dalla definizione di norme sociali, culturali e simboliche. Dal punto di vista delle classi medie è una delle principali sfide della rivoluzione.
Le motivazioni che sottendono le scelte politiche delle classi medie non sono espresse solo in termini di un progresso socio-economico, che garantisca il più largo accesso ai beni di consumo, ma anche in termini di status e di riconoscimento simbolico. Contro l’indegnità generalizzata promossa dal regime di Ben Ali, vale a dire, la svalorizzazione morale e la auto-svalorizzazione collettiva e individuale, i tunisini cercano di ricostruire una soggettività positiva. In questo processo, le classi medie urbane, e soprattutto gli intellettuali, giocano un ruolo di mediazione che consente loro nello stesso movimento di riaffermare lo status superiore nella stratificazione sociale, uno status che si costruisce nel quadro di una matrice ideologica e normativa fortemente segnata dalla supremazia del mondo euro-americano a livello internazionale.
Malgrado le apparenze, Ennahdha non fa eccezione. Anche se per alcune dimensioni culturali, questo partito guarda più all’ “Oriente” che all’ “Occidente”, anche se ricicla una concezione dell’Islam che si definisce più vicino al messaggio divino e ai tempi magnifici della profezia; anche se riattiva i riferimenti ritenuti non moderni in alcuni settori dell’organizzazione politica, del ruolo dell’individuo, dei costumi e delle questioni di genere, resta a suo modo, sotto l’influenza del modo di pensare egemonico della modernità occidentale (tecnologismo e scientismo, fascinazione per la potenza delle burocrazie statali, produttivismo, culto dell’impresa e del libero mercato, ecc.). Opponendosi su questo punto all’ideologia burghibista, nelle sue forme vecchie e contemporanee, il movimento Ennahdha non considera lo stato tunisino indipendente, ancorato al mondo occidentale, come un fine in sè, ma come un momento del processo di “rinascita” del mondo musulmano, una rinascita basata non sul potere popolare, ma sulla forza dello Stato, del capitale, della scienza, cementati da norme islamiche, tali quali Ennahdha l’interpreta. Questa intende in questo modo rivalorizzare i tunisini attraverso l’Islam e rivalorizzare l’Islam di fronte alla gerarchia eurocentrica delle culture e delle forze materiali.
Di contro a questo ideale che mobilita una parte delle classi medie, si oppone un’altra frazione delle classi medie che, in sostanza, è profondamente burghibista – anche se, al suo interno, molti sono sinceramente solidali con le lotte antimperialiste, sostengono le rivendicazioni dei gruppi svantaggiati contro lo sfruttamento e desiderano la liberazione del popolo palestinese. Modelli di consumo, costumi e pratiche culturali, attaccamento per certe forme di democrazia e a una certa laicità, difesa dei valori normativi della modernità come l’uguaglianza di genere, ecc., esprimono sia la loro distinzione dalle classi popolari, sia il fatto che la loro dignità si costruisce a imitazione della ex potenza coloniale, ancora onnipotente. Democratici o di sinistra, convinti di essere “progressisti”, identificano nel modello della modernità democratica europea (o nella sua variante marxista) e nei sui riferimenti filosofici e morali, la fonte della loro salvezza. Sono desiderosi di entrare nella storia moderna, vale a dire nella storia europea, e l’Islamismo, troppo in fretta identificato con le classi popolari, sembra sbarrare loro la strada. Attraverso l’opposizione al supposto “oscurantismo” del partito Ennahdha e del suo presunto carattere “medievale”, le correnti laiche rivendicano la loro distinzione dalle classi lavoratrici, soprattutto rurali, considerate arretrate, anacronistiche e appartenenti al passato (dell’Europa!) come fonte di irrazionalità, superstizione e anti-modernità.
Di contro all’accento posto sull’ “identità arabo-islamica” dalle correnti che sostengono l’Islam, è stato mobilitato, per fare un esempio, il tema della “identità tunisina” destinata ad includere la prima tra le altre componenti. I “moderni”, come Burghiba a suo tempo, riaffermano la centralità della “tunisinità”, si radicano in una Tunisia millenaria, in cui l’arabizzazione e l’islamizzazione non sono che un momento tra i tanti. Non si tratta di negare che la storia del territorio tunisino è stata attraversata da molteplici correnti civilizzatrici, nè di negare le particolarità che questa storia ha plasmato, ma di mettere a tema le questioni politiche relative alla riattivazione da parte delle frange “moderniste” delle classi medie, di un modello identitario costruito principalmente sul modello delle identità forgiate dagli Stati-nazione europei. Vedo, personalmente, tre problemi riguardo a questa riattivazione.
Per ovvie ragioni, non è loro possibile, oggi, rivendicare una “comunità di destino” con l’Occidente, per contro, anche quando si vantano di costituire lo spazio privilegiato della lotta contro la dominazione imperialista, il riferimento alla tunisinità, permette, senza apparentemente tradirsi, di guidare la Tunisia verso il nord del Mediterraneo piuttosto che verso Oriente. Questo riferimento, basato sulla identificazione tra identità, comunità nazionale e stato-nazione, secondo il modello promosso dal modello europeo, permette anche di inserire la Tunisia in questa traiettoria storica presumibilmente universale, che l’Occidente vuole imporre al mondo. Infine, questa tunisinità privilegia la storia delle regioni costiere, urbane, stataliste, “riformiste” del paese, infine privilegia la storia delle classi medie e della borghesia, e relega l’altra storia, quella delle profondità dell’ovest e del sud del paese, quella di questi strati popolari che hanno innescato la rivoluzione, alla non-storia. Non vorrei andare oltre su questo tema che merita una analisi più dettagliata. Ma questi pochi elementi appena menzionati, sembrano già fornire spunti per la comprensione delle questioni che mascherano le imprecazioni contro l’ “integralismo islamico”.
Lo dico brutalmente: escludere le classi più svantaggiate (siano sensibili alle opinioni islamiche o no) dai luoghi del potere e ancorare la Tunisia alla storia d’Europa.
[1] Il potere se ne è fatto gioco. Così Béji Caid Essebsi quando, per opporsi all’ineleggibilità degli ex funzionari dell’RCD, ha sottolineato che questo avrebbe potuto favorire i candidati di Ennahdha
Una rottura “nell’ordine”
Allo stato attuale della traiettoria politica tunisina, la rivoluzione ha messo sottosopra gli obiettivi limitati delle strategie di normalizzazione transitoria per rifluire, istituzionalizzandosi, in una rottura maggiore ma parziale, con la precedente forma di governo. Se l’esercito e la polizia non sono state smantellate e ricostruite, se l’ombra di negoziati con le élite del RCD e di alte sfere del regime benalista hanno continuato a determinare le scelte della vecchia opposizione, ora al potere, tuttavia, una rottura effettiva con 60 anni di sistema politico è avvenuta. Sia che ci si feliciti del risultato delle elezioni o che si resti desolati, resta il fatto che per la prima volta in molti anni, la Tunisia si è dotata di un’assemblea pluralista, che nei giorni e nelle settimane a venire, nominerà un nuovo presidente della repubblica, un primo ministro e un governo, prima di iniziare a scrivere una nuova costituzione. Si tratta di una rottura più grande rispetto al fatto che l’islam politico abbia ottenuto la maggioranza.
Il regime autoritario costruito da Burghiba era basato su un sistema costituzionale in cui il presidente della repubblica concentra tutti i poteri nelle sue mani, appoggiandosi a una enorme macchina burocratica, intrecciando amministrazione e partito unico, il Neo-Destour, più tardi Partito Socialista desturiano, infine, con l’avvento di Ben Ali, RCD. Per molto tempo poggiato su una sorta di compromesso sociale basato su di un equilibrio conflittuale tra il partito di governo, l’Ugtt e differenti settori della classe dominante, un compromesso reso possibile dall’interventismo economico dello Stato e da meccanismi di redistribuzione, di cui i contadini e, in particolare, le zone rurali dell’interno del paese, hanno pagato il prezzo a vantaggio delle grandi città costiere. È stata consacrata la permanenza di un divario storico tra oriente e occidente. Il regime di Burghiba traeva la sua legittimità anche dalla lotta per l’indipendenza e da un progetto di modernizzazione eurocentrata. Le sorti di questo sistema hanno cominciato a incrinarsi dagli anni ‘70 ma è soprattutto negli anni ‘80, che l’incapacità del potere di auto-riformarsi, ha portato a crisi successive che sono sfociate nella presa del potere da parte di Ben Ali, il quale, lungi dal tentare di rinnovare un sistema profondamente scosso, si è accontentato di accompagnare la sua decomposizione e di corazzare la sua autorità attraverso la proliferazione di servizi di polizia e di controllo della popolazione, attraverso la repressione, il controllo stretto dei quartieri, la creazione di una pleiade di reti sotteranee, che assicurano la dipendenza clientelare, ora forma preferita di “redistribuzione”, così come da un’apertura economica e dall’ampliamento dell’accesso al consumo di cui una porzione della classe media ha potuto beneficiare.
Mi si scuserà per la presentazione di un’immagine troppo schematica ed incompleta del sistema politico tunisino come si è costituito dopo l’indipendenza, ma questo mi sembra quantomeno utile per misurare l’importanza della rottura introdotta dalla rivoluzione e che consacrerà, in parte, la Costituente – e in primo luogo, i fondamenti della legittimità delle nuove autorità. Uscito da nuove generazioni che non hanno un rapporto con la storia del movimento nazionale nè con il suo partito storico, il potere nascente, trae ormai la sua legittimità dalla resistenza a Ben Ali e dalla rivoluzione, ma anche, di fatto, dalla decisiva rimessa in causa della matrice eurocentrica del burghibismo, nei riferimenti alla democrazia, all’Islam e la vicinanza di civiltà con il mondo arabo-musulmano. Tutto questo, ovviamente, non significa che ciò si manifesti automaticamente sul piano istituzionale di forme più o meno democratiche di governo. E’ evidente che il partito che ha dominato il potere dopo l’indipendenza non c’è più, e che la coppia partito unico/Ugtt appartiene al passato: la nuova formazione egemonica dovrà comporsi di altri partiti, nel quadro di istituzioni rappresentative. Il movimento sindacale non avrà più il ruolo centrale che ha avuto per molto tempo in quanto principale supporto sociale del regime e, allo stesso tempo, come forza di pressione e canale di espressione primaria dell’opposizione politica.
Questo significa anche che gli equilibri sociali caratteristici del burghibismo e già abbastanza sconvolti da Ben Ali, con la subordinazione della burocrazia sindacale e la liberalizzazione economica, rischiano fortemente di oscillare ancora di più a discapito delle classi lavoratrici e più diseredate. Naturalmente, nulla è certo. I rapporti di forza sono ancora instabili. La rivoluzione è stata accompagnata da una politicizzazione ampia e ha sviluppato una forte capacità di resistenza e di protesta che non saranno facilmente controllabili. Inoltre, i cambiamenti in Tunisia fanno parte di uno sconvolgimento generale nel mondo arabo di cui non è possibile oggi, prevedere le conseguenze. Molte cose possono ancora cambiare nei mesi e negli anni a venire, ma ciò che è certo è che la disintegrazione dei fondamenti del regime stabiliti con l’indipendenza, ha raggiunto il punto di non ritorno. Tuttavia, questa rottura non significa per il momento lo smantellamento di tutte le sfere del potere del vecchio regime. Alla vigilia delle elezioni per l’Assemblea Costituente, i tre partiti oggi maggioritari non hanno esitato a denunciare, e giustamente, l’autorità, ancora predominante, di alcune reti del regime di Ben Ali nei circoli del potere, le istanze nazionali, regionali e locali del ministero degli Interni, l’istituzione giudiziaria e la burocrazia dello Stato. E’ probabile che senza troppo sconvolgere la burocrazia statale o minacciare gli interessi delle classi dominanti, le nuove autorità saranno chiamate a negoziare e manovrare per neutralizzare le une e incorporare le altre nel nuovo sistema di potere in costruzione. Non si abbia fretta, in ogni caso, di trarre conclusioni; è particolarmente difficile distinguere le strategie dalle scelte tattiche fatte dai diversi attori. Inoltre, sappiamo per esperienza che le tattiche non sono innocenti, per sottili che siano, possono essere una trappola.
E’ forse nella natura di una rivoluzione essere incompiuta
La rivoluzione è un momento e un movimento. Il momento in cui, “quelli in alto” non possono più “governare come prima”, secondo la formula classica di Lenin, e “quelli in basso” sono decisi a non essere più “governati come prima”; il movimento attraverso cui il popolo si impadronisce del politico – e si autodetermina. Il momento ha trionfato con la fuga di Ben Ali; il movimento è stato interrotto, o forse semplicemente sospeso, in seguito agli eventi successivi la sconfitta della Kasbah II. Dunque, scosso dalla mobilitazione rivoluzionaria, il processo politico iniziatosi con la fuga di Ben Ali è andato molto più lontano di una “transizione nell’ordine” negoziata ai vertici. Si è imposta una rottura profonda, una rottura senza dubbio “nell’ordine”, per dirla come la Casa bianca, ma che, nel contesto della rivoluzione araba in corso, potrebbe aprire nuove prospettive di liberazione alle classi popolari. Bisogna sperare che allo slogan “il popolo vuole la caduta del regime” ne succeda un altro: il popolo vuole che il governo gli obbedisca.
Sadri Khiari, Ottobre 2011
Sadri Khiari è autore di molti articoli sulla Tunisia e di un libro intitolato Tunisie, le délitement de la cité edizioni Karthala, Parigi, 2003. Si vedano anche La révolution ne vient pas de nulle part, intervista di Béatrice Hibou con S. Khiari, in Politique africaine, n. 121, ed. Karthala, Parigi, marzo 2011, disponibile in francese ed in inglese su http://www.decolonialtranslation.com/francais/
Ha pubblicato anche Sainte Caroline contre Tariq Ramadan. Le livre qui met un point final à Caroline Fourest, ed. LaRevanche, Parigi, 2011, La contre-révolution coloniale en France. De De Gaulle à Sarkozy, ed. La Fabrique, Parigi, 2009, e Pour une politique de la recaille. Immigrés, indigènes et jeunes de banlieu, ed. Textuel, Parigi, 2006.
Traduzione di Daniela Di Marco