Quando Bocca si schierò con il diritto a resistere del popolo iracheno

Giorgio Bocca è stato indubbiamente un grande giornalista. Così lo ricordano in tanti, anche quello stesso circo mediatico che egli detestava. Non che nella sua lunghissima attività siano mancate pagine buie, come quando negli anni ottanta partecipò alla campagna di stampa contro i lavoratori portuali, una posizione che egli seppe però correggere negli ultimi anni della sua vita, con numerosi articoli contro il “capitalismo reale” della nostra epoca.

Di lui si devono ricordare gli scritti sulla lotta armata e sulle Brigate Rosse. Dopo la cantonata iniziale (le Br come “una favola per bambini scemi e insonnoliti”), Bocca seppe trattare la questione in maniera assai diversa dai suoi colleghi, dando dignità politica alla lotta armata ed ai suoi protagonisti. In uno di questi scritti Bocca affermò che, così come lui aveva deciso di imbracciare le armi contro i nazi-fascisti, non trovava niente di strano che trenta anni dopo altri avessero fatto la stessa scelta contro la borghesia.

Oggi, nonostante l’assenza dei giornali dalle edicole (Bocca ha “scelto” di morire proprio il giorno di Natale), tutti ricordano il grande giornalista, ma siamo certi che una cosa verrà dimenticata: la sua posizione non solo contro le guerre americane in Iraq ed Afghanistan, ma a difesa del diritto a resistere di questi due popoli.

Giorgio Bocca aderì alla manifestazione di gemellaggio tra Falluja e Sant’Anna di Stazzema che organizzammo nel marzo del 2005, così come aderì – sempre nello stesso anno – alle proteste nei confronti del governo italiano affinché consentisse lo svolgimento della Conferenza internazionale «Lasciamo in pace l’Iraq – Sosteniamo la legittima resistenza del popolo iracheno», garantendo la partecipazione ad essa dei rappresentanti della Resistenza irachena.

Il vecchio partigiano della lotta antifascista capiva benissimo che le ragioni dei resistenti dell’inizio di questo secolo sono in fondo le stesse che lo avevano portato a combattere sulle montagne piemontesi tanti anni fa.

Ed a proposito delle guerre imperiali americane, ripubblichiamo questo articolo di Bocca contro il presidente americano George W. Bush, scritto agli inizi del 2005.

Giorgio Bocca: Iraq. La ricostruzione può attendere
da “l’Espresso”, n.2, 2005

Per il settimanale “Time”, il presidente George W. Bush è l’uomo dell’anno: ha vinto le elezioni, è il più potente del mondo, tutti i mezzi di informazione del pianeta riportano le sue dichiarazioni, i suoi discorsi. Anche quelli demenziali? Soprattutto quelli come i progetti per il suo nuovo anno.

Proviamo a rileggerli e a vedere che cosa contengono di razionale. Dice l’uomo dell’anno sui modi di uscire dal pantano iracheno: “Le truppe irachene sono ancora troppo deboli per garantire la sicurezza, la ricostruzione è solo agli inizi e quindi non è arrivato il momento di ritirare le nostre truppe”. Si tratta come ognun può capire di una contraddizione in termini, è evidente che la ricostruzione non è ancora cominciata e non comincerà mai se gli occupanti per annientare la ribellione bombardano città come Falluja dal cielo e da terra e la riducono a un cumulo di macerie, impedendo ai cittadini in fuga di ritornarvi.

Poi l’uomo dell’anno fa una geniale osservazione: “Le truppe irachene non sono ancora pronte a garantire la sicurezza del paese”. Beh, questo lo avevano capito anche gli uomini comuni che non vanno sulla copertina di “Time”: dal giorno in cui il presidente aveva annunciato al mondo che la guerra era finita con la vittoria degli Stati Uniti, la ribellione ha ucciso 1.300 soldati americani, ha reso le strade così insicure che la logistica militare è costretta a servirsi dei trasporti aerei e che in un paese che è fra i più ricchi di petrolio il petrolio deve essere importato dato che ogni giorno la produzione locale viene sabotata.

Il presidente e tutti i suoi più fidati collaboratori parlano della guerra come di un lavoro. Il capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, ha confessato che le forze armate americane non sono adeguate al dominio del pianeta, che devono fare la guerra al mondo intero anche se non ne hanno i mezzi, ma il presidente lo loda pubblicamente per “aver fatto un ottimo lavoro”.

Il presidente del più avanzato paese del mondo non pensa che la guerra sia qualcosa di diverso da un lavoro, che metta in gioco e a rischio la vita degli uomini, che sia una condanna da cui gli uomini non riescono a liberarsi e che, come ‘pecore matte’, continuano a farle le guerre con l’unico risultato di rendere sempre più probabile l’autodistruzione della specie? No, queste sono sciocchezze che un buon neo conservatore lancia al pacifismo imbelle.

Però non tutti considerano la guerra un lavoro, non tutti hanno voglia di fare questo lavoro per conto di un paese straniero, non tutti pensano che questo paese straniero sia l’Iraq, per regalare la democrazia agli indigeni e questo al presidente americano uomo dell’anno proprio non va giù e dice: “I nostri ufficiali lavorano molto per la formazione di questi reparti e noi vogliamo finire il lavoro il prima possibile, ma i risultati finora sono stati contraddittori. In alcuni casi le truppe irachene hanno abbandonato il campo di battaglia e questo è inaccettabile”.

Così ragiona l’uomo che pretende di governare il mondo? Vanno per la maggiore anche da noi i realisti cinici per cui alla resa dei conti decide la forza. Ma che senso ha, se si è per la democrazia e la libertà, esibirla questa forza, dire ogni giorno che è con questa forza che gli Stati Uniti vogliono risolvere i problemi del mondo? Dice il presidente Bush di paesi indipendenti come l’Iran e la Siria: “Per farci ascoltare da questi paesi abbiamo molti mezzi, economici e altro, non escludiamo nulla”. Per dire che all’occasione un bel attacco nucleare preventivo non sarebbe escluso? “Stiamo lavorando”, dice il presidente, “per risolvere questi problemi”. Per carità, signor presidente, lavori di meno, vada a Camp David e si riposi.