
Quanti siriani sono stati uccisi dall’inizio della rivolta popolare? 5400 come affermano le forniti ONU? Più del doppio come denunciano le opposizioni? O poche decine come sostiene il regime? E quanti i feriti, gli arrestati, gli scomparsi? Poche centinaia o decine di migliaia?
E’ anche sulle cifre che si combatte la battaglia tra il governo di Damasco e i suoi molti nemici. La verità è difficile da stabilire, visto che il regime ha messo un bavaglio soffocante sull’informazione, ha sigillato le frontiere, bloccando le notizie in entrata e in uscita. Questa formidabile stretta censoria è la più evidente smentita della prima versione ufficiale esibita dal regime: la tesi che la Siria non sarebbe scossa da una sommossa di grandi dimensioni ma dalla sobillazione di isolati gruppi terroristici salafiti.
Se si trattasse di “pochi terroristi salafiti”, perché mai il governo avrebbe dovuto mobilitare intere brigate dell’esercito? Perché mai nascondere al mondo quanto sta accadendo? Se la repressione del regime e dei suoi apparati si fosse scagliata contro pochi fanatici islamisti, il governo avrebbe avuto ben pochi motivi per nascondere il suo operato, per quanto spietato, visto che la persecuzione dei gruppi islamisti radicali è lo sport preferito dell’intera comunità internazionale degli Stati, nonché dei servizi di intelligenza e dell’antiterrorismo mondiali.
C’è chi per mesi ha creduto alle bugie del regime. Per mesi alcuni, arrampicandosi sugli specchi, hanno escluso che la protesta fosse della stessa natura di quelle tunisina, egiziana o yemenita. Per loro la “primavera araba”, una volta attraversati i confini siriani, si era trasformata in una cospirazione terroristica. Nel disperato sforzo di negare i fatti, gli amici di Bashar al-Assad, invece di analisi rigorose sulla natura di classe e nepotistica del regime, delle esplosive contraddizioni interne della società siriana, dell’impatto devastante della crisi economica globale; invece di provare a comprendere le ragioni del movimento di massa e il suo carattere composito, si sono raccontati storie, hanno capziosamente cercato il pelo sull’uovo, argomentando che le informazioni diffuse dalla stampa occidentale erano tutte menzogne. Non c’era alcuna rivolta popolare ma solo una campagna di satanizzazione ai danni del regime di Damasco.
Ora, che i grandi media occidentali e del Golfo, al-Jazeera in testa, abbiano presto approfittato della rivolta per sputtanare il regime del Baath, su questo non c’è alcun dubbio, ma che alla campagna mediatica, sia corrisposta un’offensiva politica frontale, questo è palesemente falso. Non solo la Casa Bianca, ma pure gli europei e i sionisti si sono mossi per mesi con estrema circospezione. La ragione è semplice: per quanto detestino Bashar gli imperialisti hanno tenuto e temono ancora di più una “rivoluzione al buio”. Nell’incertezza, davanti al rischio di scoperchiare il Vaso di Pandora, hanno in realtà fatto per molti mesi una manfrina diplomatica, una guerra di parole. La musica è iniziata a cambiare dal novembre scorso, e non a caso, poiché solo a novembre non soltanto la Fratellanza Musulmana siriana ma anche diversi esponenti di sinistra del Consiglio nazionale provvisorio in esilio, tra cui Ghalioun, si sono allineati, via Qatar e – solo per certi versi – via Turchia, sulla posizione degli imperialisti.
Ma su questo torneremo più avanti. Qui corre l’obbligo di segnalare che una posizione politica non è considerabile seria se viene presa solo per il suo essere opposta a quella ostentata dagli imperialisti. Chi ha memoria ricorderà, ad esempio, gli ultimi anni del pinochettismo in Cile e quelli del regime di apartheid in Sudafrica. Nessun rivoluzionario si sognò allora di prendere una posizione indifferentista o, addirittura filo-Pinochet o filo-Apartheid solo a causa della martellante campagna demo-imperialista. Gli antimperialisti prendono posizione dopo accurata analisi dei vari fattori in gioco, dei processi sociali e politici, non in base al criterio sterile di fare dispetto ai padroni del mondo. I rivoluzionari furono sulla prima linea di molte lotte democratiche e nazionali, malgrado queste fossero appoggiate dagli americani e dagli europei.
Ci fu allora chi scelse l’altro criterio di cui sopra. Si trattava non a caso di rottami fascisti o di destrorsi fissati con il paradigma dogmatico della geo-politica. Oppure, hainoi, di stalinisti o di maoisti di ferro, che non consideravano altro elemento decisivo se non quello di sostenere la politica estera, o di Mosca o di Pechino a seconda dei casi — per cui, una volta i primi, l’altra i secondi, giunsero a sostenere regimi e forze spesso infami solo perché foraggiati da russi o cinesi.
Solo dopo molti mesi, dopo che un fiume di sangue era già scorso, gli amici del governo siriano, hanno aperto gli occhi, si son visti costretti a smentire se stessi, prendendo atto che non della sobillazione di minuscoli gruppi terroristici si trattava, ma di una vera rivolta di popolo. Meglio tardi che mai.
Il fatto è che, mossi dall’ostinata volontà di difendere ad oltranza il regime, essi hanno camuffato la loro capriola affermando finalmente che la rivolta era sì di massa, ma si trattava di una “rivoluzione colorata”, ovvero di un tentativo di “regime change”, ovvero “di rovesciare il regime antimperialista siriano per mettere al suo posto un governo fantoccio dell’Occidente”. Quindi giusta la repressione del regime in tutti e due i casi: prima era giustificata dall’intento di schiacciare il “terrorismo salafita”, ora da quello di impedire il regime change.
Qual è l’argomento decisivo degli amici di Bashr al-Assad e della sua cerchia? Che siccome il regime siriano ha svolto una “coerente funzione antimperialista”, qualsiasi rivolta contro di esso è per ciò stesso reazionaria.
Che dire? Anzitutto che la “coerente funzione antimperialista” del regime del Baath siriano, oltre ad essere una insopportabile tiritera con cui si giustifica ogni abominio contro il popolo in rivolta, questa “coerente funzione antimperialista” è una mezza verità. Chi dimentica la funzione controversa della Siria durante la guerra civile palestinese? L’alleanza coi falangisti? La strage di Tel al-Zaatar del 1976? Come dimenticare la partecipazione della Siria di Assad alla guerra d’aggressione contro l’Iraq nel 1991? L’avallo fornito alla seconda invasione dell’Iraq nel 2003?
Bisogna essere prudenti a dare patenti di antimperialismo a questo o a quel regime nazional-capitalista, tanto più oggi giorno che la guerra fredda è finita da un pezzo. La funzione di contrasto al sionismo (al sionismo più che all’imperialismo) da parte del regime siriano è solo uno dei fattori da tenere in considerazione. Qui non si sta parlando di un contenzioso internazionale, dove quindi l’elemento cruciale è il posizionamento nei confronti del nostro comune nemico. Qui si sta parlando di una rivolta di popolo, un popolo che non solo non è nostro nemico, che non può essere considerato una longa manus dei disegni sionisti e imperialisti.
Entrano quindi in gioco altri fattori, la natura sociale e politica del regime statuale, la natura di classe e politica dell’opposizione popolare, la natura di classe e politica delle opposizioni politiche che pretendono di porsi alla testa della rivolta.
Manco vale la pena di rispondere a certi babbei che parlano in Siria di “regime socialista”. Figurarsi che c’era anche chi aveva le traveggole e considerava la Libia un paese socialista! Magari perché l’industria del petrolio era nazionalizzata, c’era un certo benessere sociale e poi perché sul Libro verde dell’eccentrico “migliore amico di Berlusconi” c’era scritto che il potere spettava alla masse.
La Siria è un classico paese capitalista, ma un paese capitalista arabo (senza petrolio), dove cioè la classe dominante non è una borghesia all’occidentale, ma è una lumpen-borghesia che trae linfa non da rapporti sociali di produzione modernamente capitalistici, bensì dall’avere il monopolio assolutistico del potere politico e statuale. Da qui il peso del familismo immorale, del nepotismo più sfrontato, della corruzione dilagante. Il Baath è certo un partito politico moderno, ma il suo sostrato consiste in una rete di clan e sotto-clan che si ripartiscono pro domo loro, in via piramidale (dove al punto più alto ci sono i parenti e i sodali della famiglia Assad), il grosso del reddito nazionale. Basta andare in giro per la Siria e non fermarsi negli scintillanti Hotel a cinque e anche sei stelle di Damasco per farsene un’idea lampante. Occorre guardare, per capire da dove viene la sollevazione, alle desolate periferie urbane che pullulano di sottoproletari e di morti di fame, alle campagne e ai villaggi dimenticati dove i contadini campano di stenti — tanto più dopo l’arrivo della crisi finanziaria globale del 2007-08, che non a caso ha colpito l’economia siriana in maniera micidiale, causando un aumento dei settori di popolazione che vivono al di sotto della soglia di povertà o peggio.
I settori più poveri della Siria, non tutti certo, ma quasi tutti sunniti, non hanno mai avuto a simpatia, e come poteva essere altrimenti, il regime. Lo avevano dimostrato già tra la fine dei settanta e gli inizi degli ottanta, quando sostennero la rivolta armata della Fratellanza musulmana, conclusasi, nel febbraio del 1982 (20mila morti ammazzati dal regime) nel massacro di Hama. Il popolo non ha memoria corta, la povera gente tanto meno.
La novità è che la gravissima crisi economica siriana e l’onda lunga venuta dalle Primavere arabe, ha spinto anche i ceti piccolo e medio borghesi a scendere sul sentiero di guerra. La crisi economica, l’insofferenza verso un regime assolutistico e corrotto, l’odio vero e proprio verso il clan Assad, il disprezzo verso una minoritaria élite intellettuale privilegiata (non tutta, ma per la gran parte alawita): ecco la miscela esplosiva che ha gettato la Siria sull’orlo di quella che oramai appare una vera e propria guerra civile.
Il regime di Assad ha ancora un ampio sostegno? E allora? Anche Hitler, tanto per fare l’esempio estremo, godette fin quasi alla fine della guerra, di un sostegno popolare di massa. Semmai il problema è vedere quali strati sociali lo sostengono e perché. E’ legittimo che gli alawiti non ci pensino nemmeno a tornare nelle condizioni di minorità ed emarginazione che hanno subito per secoli sotto il dominio ottomano. Ma questo non può giustificare la loro sordità alle istanze delle altre comunità. Se la persecuzione nazista non può giustificare l’oppressione sionista verso i palestinesi, quella subita dagli alawiti da parte dei sunniti ottomani non può legittimare, ex ante, il rovescio.
Abbiamo scritto altrove del carattere composito delle opposizioni politiche siriane. Liquidarle tutte come marionette dell’imperialismo non è solo una bestialità, è un crimine. Che la Fratellanza musulmana e indirettamente anche Ghalioun e certi intellettuali laici e di tradizioni di sinistra, dopo essere stati in Qatar, chiedano l’intervento esterno pur di porre fine alla dittatura del Baath, non fa della rivolta popolare una sceneggiata filo-imperialista. Né cancella il dato decisivo che nel movimento anti-Assad pulsa una sinistra molto forte, che non solo combatte contro il regime, che contrasta con ogni mezzo chi, nel movimento popolare e in esilio, si è venduto agli sceicchi del Golfo e quindi indirettamente agli imperialisti. Questa sinistra siriana, dalle profonde radici, merita il nostro rispetto e pieno appoggio.
Le notizie che giungono ormai copiose dalla Siria ci dicono che non solo i disertori dell’esercito ma migliaia di giovani, stanchi di subire vessazioni e angherie stanno raggiungendo la lotta armata. E chi ha preso le armi detta il ritmo delle danze e può prendere la testa della sollevazione.
Che gli imperialisti (via Turchia e Libano) forniscano armi ai nuclei combattenti, è oramai un fatto acclarato. La speranza di un rovesciamento pacifico del regime, dopo quella di un’autoriforma, si va volatilizzando. Il paese precipita nel caos militare.
Che possa avvenire un intervento esterno in stile Libia noi lo escludiamo. Quello che può accadere è invece un processo simile a quello algerino (dopo il golpe militare del gennaio 1992): una guerra civile sanguinosissima che potrebbe durare anni. In Algeria i militari riuscirono a controllare le grandi città, o almeno la loro gran parte, mentre i guerriglieri del Fis prima e del Gia poi, avevano preso il sopravvento subito fuori delle cinture urbane più importanti.
In Algeria, dopo fiumi di sangue, dopo che la comunità internazionale (imperialista) assistette inerme al macello, anzi sostenendo sottobanco i militari nella speranza che la rivolta islamista fosse stroncata, l’Esercito riportò una sofferta vittoria. Sarà così anche in Siria?