L’imminente default della Grecia e la sorte dell’euro
Le bugie hanno le gambe corte
I nostri lettori più attenti ricorderanno quando, all’inizio del 2010, esplose la questione del debito greco. Prendeva avvio il contagio ai cosiddetti Piigs e con esso il terremoto dell’eurozona. Nel maggio del 2010, a frittata mezza fatta, l’Unione europea, dopo aver apparentemente piegato le resistenze tedesche, si decise per il pacchetto d’aiuti di circa 120 miliardi di euro. Gli eurocrati ci dissero, a ruota i politici e i media mainstream, che l’euro e Atene erano fuori pericolo.
Noi fummo tra quelli che non credettero a questa favola. Dicemmo che l’aiuto-capestro, i prestiti concessi in cambio di lauti interessi e alla condizione della più severa austerità, avrebbero spinto il paese in recessione, causando un ulteriore avvitamento. Affermammo dunque, già nel febbraio 2010 [Sopravviverà l’euro fino al 2015?], che l’uscita della Grecia dall’euro non solo sarebbe stata la tendenza, sostenemmo, tra le urla isteriche degli europeisti, che il default era per le masse popolari elleniche il male minore.
Tabella 1. Quotazioni dei Cds su alcuni debiti sovrani
Quale sia adesso la situazione è sotto gli occhi di chi vuole vederla. La crisi greca è del tutto fuori controllo, molto più di due anni fa, a dimostrazione che gli interventi dell’Unione europea non solo non hanno evitato il precipizio verso il default, ma l’hanno addirittura codeterminato. I numeri parlano da soli: il rendimento dei titoli greci ad un anno è passato dal 50% di agosto all’astronomica cifra del 421% odierno! I titoli a due anni offrono oggi un rendimento del 171%; quelli a cinque anni del 56%; mentre quelli a dieci anni si attestano al 33,7%. Sono le regole dei mercati finanziari internazionali bellezza! Gli strozzini, davanti alla finanza predatoria ci fanno la figura di donatori benemeriti. Quest’impennata degli interessi che i creditori esigono dalla Grecia per erogare prestiti è la prova che per i biscazzieri del capitalismo-casinò il default ellenico, e quindi l’uscita dall’euro, sono oramai fatti scontati.
Tabella 2. Le quotazioni dei Cds dei diversi paesi sui debiti sovrani a gennaio 2012
La prova del nove è il mercato dei Credit default swap (Cds). I cds sono polizze con cui chi presta dei soldi si assicura dal rischio di default o insolvenza dell’acquirente. Più è alto il rischio di insolvenza del debitore, più è alto il costo della polizza. Non è qui la sede per spiegare perché i Cds sono diventati uno dei mezzi con cui si propaga la speculazione finanziaria. Basti sapere che la loro importanza dipende dal fatto che essi registrano la rischiosità di un asset, sia esso una banca, un’azienda o un paese. Come si vede dalle tabelle 1 e 2 la Grecia ha oramai superato di slancio, proprio negli ultimi mesi, la soglia della sostenibilità, oltre la quale non può che esserci quella che a torto viene spesso chiamata “bancarotta”. Da notare che il Portogallo sta andando sulla medesima china e forse raggiungerà la Grecia dichiarandosi presto insolvente: «Lisbona sarà presto costretta a chiedere nuovi aiuti, dopo averne ricevuti già per 78 miliardi di euro, oppure a tagliare il valore dei propri titoli di Stato. Altrimenti rischia l’insolvenza. Come Atene». [1]
La deriva della Grecia, l’aggravamento della crisi debitoria dei Piigs, è il fallimento più lampante delle cure europee e in particolare dei medici di Berlino. Gli eurocrati, si sono lagnati alcuni analisti di Sua maestà, non hanno agito in tempo e hanno preso misure insufficienti. Vero solo in parte. Chi scrive pensa che Bruxelles e la Bce, dopo lo scoppio della crisi greca hanno deliberatamente temporeggiato, tamponando al minimo costo, anzi aizzando la speculazione, anche per un’altra ragione, quella di dare tempo alle banche di sbarazzarsi dell’ingente quantità di titoli ellenici che avevano in pancia.
Così infatti è avvenuto. Chi doveva chiudere la stalla ha lasciato invece che i buoi scappassero così che adesso, un eventuale insolvenza di Atene non causerà un crack bancario europeo dall’esito devastante. Questo era l’obbiettivo vero degli eurocrati e di quelli tedeschi in particolare: non salvare la Grecia ma le banche europee e quindi l’euro, così che adesso l’uscita dall’eurozona di Atene non è solo possibile ma intimamente auspicata, visto che i danni sono ormai limitati. Una prova? «Il ritorno della Grecia alla Dracma è più o meno l’ipotesi che circola da almeno un anno nei corridoi della Commissione europea, del Fondo monetario internazionale, della Bce: un anno o sei mesi fa esorcizzata come una sciagura che avrebbe coinvolto tutto il continente, oggi considerata più freddamente, in modo laico». [2]
Tabella 3. Esposizione degli Stati UE sul debito greco
E’ in questo contesto che iniziarono ai primi di gennaio i negoziati tra il governo greco i due capibranco dei lupi mannari del sistema bancario globale, l’americano Charles Dallara e il francese Jean Lemierre. In ballo l’agognato secondo “pacchetto di aiuti”, erogabile solo in cambio di un incrudimento dell’austerità per la Grecia, ovvero la cura da cavallo per uccidere il cavallo.
Il negoziato della morte
Dopo la clamorosa rottura delle trattative venerdì 13 gennaio, sembrava che il negoziato in corso ad Atene per sbloccare questo secondo pacchetto di aiuti da 130 miliardi — in realtà si sa già che non saranno sufficienti, che ce ne vorranno ancora tra i 15 e i 25. [3] fosse finalmente in dirittura d’arrivo. “Mancano solo dettagli tecnici”, si diceva a fine gennaio, quando venne annunciato che il 30 del mese sarebbe stato il termine per raggiungere l’accordo.
Invece no, l’intesa tra il governo greco e i creditori primari non c’è stata e non c’è ancora, poiché le divergenze restano di sostanza. Tempo non ce n’è molto: la data limite è il 13 febbraio, ovvero il 20 marzo: «Al 13 febbraio è stato fissato l’ultimo termine tecnico per evitare la bancarotta, che scatterebbe il 20 marzo». [4] Perché la fatidica data del 20 marzo? E’ presto detto: Atene dovrà rimborsare quel giorno titoli in scadenza per 15,5 miliardi di euro, mentre in cassa ne ha solo 11. Per cui, senza un nuovo prestito ci sarà il default conclamato — default si badi, non bancarotta.
Di sostanza, appunto, le divergenze, malgrado Atene e i creditori privati pareva fossero vicini allo swap (scambio). Quale? «Un haircut (un taglio sul valore nominale) del 50% del debito, un periodo di grazia di un decennio sui pagamenti del debito (cioè senza pagamento di interessi) e l’eventuale perdita dei creditori privati che potrebbe raggiungere così la notevole percentuale del 65-79% complessivo. I privati (banche, assicurazioni e hedge fund) detengono 260 miliardi di euro sui 357 complessivi del debito greco». [5] Vedi tabella n. 3
Tabella 4. Esposizione dei privati sul debito della Grecia
In questo caso le banche rinuncerebbero volontariamente a qualcosa come 100 miliardi di euro di crediti, così da ridurre il peso del debito ellenico per portarlo nel 2020 al 120% del Pil — uno dei famigerati parametri di Maastricht, ribadito dal recente Summit europeo del 30 gennaio. Le teste d’uovo di Bruxelles (che disegnarono questa soluzione nell’ambito del Consiglio europeo del 26 ottobre) la chiamano “ristrutturazione”, si tratta invece di un default, per quanto programmato dagli strozzini.
Il diavolo si nasconde nei dettagli… e che dettagli!
I creditori chiedono alla Grecia, in cambio del prestito, ancor più drastiche misure d’austerità, tra cui il taglio alle tredicesime e alla quattordicesime, la riduzione pesante dei salari del settori privato (dopo quella nel settore pubblico). Tuttavia, malgrado la Grecia sia in recessione profonda, malgrado ci sia entrata anche a causa delle cure dimagranti suggerite da Bruxelles e Francoforte, malgrado sia evidente che ridurre alla fame milioni di greci è la via sicura per impedire ad Atene di onorare il suo debito, nonostante questa follia, non è questo il primo pomo della discordia tra i negoziatori. Il Primo Ministro (tecnico) Lucas Papademos, ha già accettato, pur di avere il prestito, di usare la mannaia contro i suoi cittadini, contro il suo paese, e malgrado frizioni ha il sostegno dei tre partiti che lo sostengono. [6]
Il primo ostacolo da superare è rappresentato dal contrasto tra banche private e Bce. La Banca centrale di Draghi è infatti «l’istituzione più esposta sul paese ellenico: a furia di comprare i suoi titoli nel sui bilancio si trovano 55 miliardi di euro di debito ateniese. Se l’haircut sarà del 79% la Bce incasserebbe una perdita di 22 miliardi, ma la Bce non intende accettare alcuna perdita». [7] Vedi tabella n. 4
La cosa può apparire singolare e in effetti lo è: si chiede ai creditori di Atene, tra cui extra-Ue, un sacrificio di 100 miliardi in nome dell’Unione europea e dell’euro, ma proprio la Banca centrale europea, il simbolo stesso dell’Unione, portandosi appresso le sue filiali nazionali, non è disposta ad alcuna rinuncia, vuole un trattamento di lusso, esige la restituzione per intero dei 55 miliardi.
Ovviamente la cosa fa imbestialire le banche d’affari private, anglo-americane e europee, nonché i vari fondi d’investimento e pensionistici, rappresentati appunto da Charles Dallara e Jean Lemierre. Dal loro punto di vista è necessario mettere anche i crediti della Bce e delle banche centrali europee nel frullatore dell’haircut, spalmare quindi e condividere le perdite: un po’ per uno non fa male a nessuno.
Tabella 5. L’impennata dello spread nel 2010-11, la prova provata del fallimento dell’Unione e dei “salvataggi”
Il secondo pomo della discordia, anche questo, non tra i banchieri e i gaulaiter del governo greco, ma tra i primi da una parte e la Bce coi governi europei (tranne l’inglese ovviamante, prono agli interessi della City) dall’altra, riguarda la sorte di chi ha in tasca una montagna di Cds sulla Grecia. Vediamo di vederci chiaro.
Nel caso venga firmato l’accordo avremo quella che viene chiamata “svalutazione consensuale” delle obbligazioni greche in portafoglio, il famoso sconto da 100 miliardi di cui sopra. A quel punto, come ha già annunciato Lucas Papademos con l’avallo degli eurocrati, il governo di Atene «… dovrà modificare la normativa in vigore inserendo la cosiddette clausole di azione collettiva che costringerebbero retroattivamente tutti tutti i detentori di bond greci ad aderire allo swap… un passo inimmaginabile in un paese dell’Eurozona». [8]
Ma di che stiamo parlando? Stiamo parlando che una simile procedura, non solo terrebbe al riparo la Bce dalle perdite, essa costringerebbe gli hedge fund americani ad aderire forzatamente allo scambio e con ciò andrebbero in fumo gli incassi dei Cds. Infatti «… gli hedge fund speravano di scongiurare le perdite sui titoli mettendosi in tasca, oltre agli interessi stratosferici garantiti dai “sirtaki bonds”, gli incassi dei Cds, le assicurazioni che hanno comprato nel frattempo scommettendo sul default della Grecia. Hanno giocato anche sul fatto che ogni ritardo nelle trattative avvicina la fatidica data del 20 marzo». [9]
Gli Hedge fund hanno minacciato addirittura di rivolgersi alla Corte dei diritti dell’uomo, pensate un po’, per “violazione dei diritti degli obbligazionisti”. Non negoziato quindi, ma un gioco al massacro, in cui la posta in palio è la pelle stessa del popolo lavoratore greco.
Tabella 6. L’evoluzione del deficit della Grecia sul Pil con l’ingresso nell’euro è passato dal 2% al 12%
La storia non sarebbe conclusa se non ricordassimo che il 28 gennaio scorso la cancelliera tedesca Angela Merkel, guarda caso in un’intervista al quotidiano Bild, è intervenuta a gamba tesa sui negoziati, affermando che il “salvataggio” della Grecia è vincolato, dato che questo paese è incapace di rispettare i patti, ad un’altra condizione, estrema, il commissariamento diretto del paese. Cosa questo significhi ce lo dice una voce al di sopra di ogni sospetto, quella del padrone: «La proposta della Germania prefigura una perdita di sovranità senza precedenti per la Grecia e gli altri paesi eventualmente inadempienti, con un trasferimento di poteri all’Europa. Il Commissario avrebbe potere di veto sulle decisioni del governo in materia di politica fiscale se queste non fossero in linea con i target fissati nel pacchetto di salvataggio. Il Commissario avrebbe una supervisione su tutte le maggiori voci della spesa pubblica». [10]
L’ingorgo
Non basta più, quindi, agli imperialisti tedeschi, installare propri tecnici-Quisling alla Papademos e alla Monti. In futuro nemmeno più la finzione del consenso dei Parlamenti. Nemmeno più la parvenza di procedure democratiche. Il protettorato coloniale punto e basta. Hanno di che riflettere coloro i quali si rifiutano ancora di sollevare l’obbiettivo dell’uscita dall’Unione europea e il ritorno alla sovranità nazionale, politica e monetaria. Ci riferiamo sia a quelli di tipo A che di tipo B., sia a quelli che rifiutano per principio come retrograda (sic!) la sovranità nazionale e ritengono comunque preferibile quest’Unione imperialista, sia a quelli che farneticano che la crisi dell’euro è dovuta all’assalto della finanza anglosassone. Non si vuole credere ai fatti? Non si vuole credere a noi? Non c’è analista serio che non affermi che i primi becchini dell’Europa unita sono proprio gli oligarchi di Bruxelles e Francoforte e più ancora il governo tedesco.
Per concludere un pensiero corre a coloro che, pur condividendo gli obbiettivi di uscita dall’Unione dall’Euro come misure imprescindibili per evitare che il nostro paese, e in particolare il popolo lavoratore, siano spinti nel baratro di una recessione distruttiva sul piano economico, sociale e civile, ci rimbrottano di essere catastrofisti. Questi pensano che non c’è alcun disastro imminente dimostrando, magari non volendo, di aver abboccato alla fanfaluche di Monti (che non sono minori di quelle berlusconiane).
Ricordiamo loro che, ammesso e non concesso che il secondo pacchetto di “aiuti” alla Grecia vada in porto prima del 13 febbraio, evitando così ad Atene le Forche caudine del 20 marzo, e quindi un effetto domino, il marzo 2012 sarà decisivo comunque, avremo un vero e proprio ingorgo di fattori di crisi. Lo disse lo stesso Draghi: «Parlando a Bruxelles davanti alla Commissione affari economici del parlamento europeo, il banchiere centrale ha ammonito che nel primo trimestre del 2012, vengono a scadere 230 miliardi di obbligazioni bancarie, 250-300 miliardi di titoli pubblici, e più di 200 miliardi di debito a collaterale». [11]
Draghi, che aveva già portato il tasso di sconto all’1%, immediatamente dopo offrì alle banche europee la somma di quasi 500 miliardi di euro freschi di stampa. La qual cosa spiega il recente rally (aumento degli acquisti) delle borse e la discesa dei alcuni spread, tra cui quello dei titoli italiani (altro che efficacia della cura Monti). Sarà sufficiente ad evitare il collasso imminente? Fossimo trader scommetteremmo di no e faremmo man bassa di Cds. Per posporre il crack occorrerà un’altra iniezione di droga (per le banche e la finanza) da parte della Bce e altro olio di ricino (manovre d’austerità) per le masse popolari, anzitutto dei Piigs. Comunque vada c’è da prepararsi al peggio. Perfetta o imperfetta sarà un’altra tempesta.
Note
1. Fabio Pavesi, Il Sole 24 ore del 1 febbraio 2012
2. Luigi Offeddu, Il Corriere della Sera del 6 febbraio 2012
3. Gianluca Di Donfrancesco, Il Sole 24 Ore del 5 febbraio 2012
4. Corriere della Sera del 6 febbraio 2012
5 Vittorio Da Rold, Il Sole 24 Ore del 21 gennaio 2012
6. Il Pasok di George Papandreu, Nuova Democrazia di Antonis Samaras e l’estrema destra del Laos di George Karatzaferis.
7. Morya Longo, Il Sole 24 Ore del 5 febbraio
8. Vittorio da Rold, Il Sole 24 Ore del 21 gennaio 2012
9. Tonia Mastrobuoni, LA STAMPA del 21 gennaio 2012
10. Alessandro Merli, Il Sole 24 Ore del 29 gennaio 2012
11. Beda Romano, Il Sole 24 Ore del 20 dicembre 2011