Dove va Hamas?

Hamas ha il consenso della maggioranza dei palestinesi, ma chi ha la maggioranza nel Movimento Islamico di Resistenza?

Si annunciano settimane molto intense per le formazioni politiche palestinesi. Diverse novità sembrano alle porte, e non tutte sono facilmente interpretabili. Intanto, dopo un lungo periodo caratterizzato da molto fumo e poco arrosto, sembra proprio che il processo di «riconciliazione» tra Fatah ed Hamas sia sul punto di partorire un nuovo governo di unità nazionale.

L’accordo è stato sottoscritto a Doha, il 6 febbraio, con l’evidente benedizione del governo qatariota e della componente della Fratellanza Musulmana maggiormente collegata alle monarchie assolute del Golfo. L’ufficializzazione avverrà al Cairo il 18 febbraio, in occasione di una riunione dell’Olp, ma già la notizia dell’accordo sottoscritto tra Abu Mazen e Khaled Meshaal rappresenta una svolta piena di conseguenze politiche.

La guida del nuovo governo verrà assunta proprio da Abu Mazen, e già questo fatto sta provocando notevoli tensioni nel gruppo dirigente di Hamas. Sembra che Abu Mazen volesse la pura e semplice riconferma, nel ruolo di premier, di Salam Fayyad, uomo di fiducia degli occidentali ancor più dello stesso presidente dell’Anp. Hamas chiedeva invece un primo ministro espressione della Striscia di Gaza. Alla fine è uscito dal cappello il nome di Abu Mazen, che verrà così a ricoprire il doppio ruolo di presidente dell’Anp e di primo ministro, sia pure ad interim, fino alle prossime elezioni legislative.

Mentre il Fronte Popolare denuncia questo «doppio incarico» come una violazione della Legge fondamentale approvata dal Consiglio legislativo palestinese sulla separazione dei poteri, a nessuno sfuggono le implicazioni politiche di tale scelta. Israele tuona contro l’accordo, e non potrebbe essere diversamente: «Se Abu Mazen applica ciò che è stato firmato a Doha, sceglierà di abbandonare il cammino della pace, per Hamas» ha dichiarato Netanyahu. Quale fosse questo «cammino della pace» ben lo sanno i palestinesi, ma – com’era prevedibile – la scelta di Fatah è stata criticata anche a Washington.

Queste dichiarazioni potrebbero però far parte di un «gioco delle parti» neanche troppo misterioso. Sicuramente alla Casa Bianca non avranno certo appreso dell’accordo di Doha dalle agenzie. E non a caso l’accordo rischia di far precipitare lo scontro politico proprio all’interno di Hamas. Diversi dirigenti del Movimento Islamico – tra cui Mahmud Zahar, uno dei fondatori di Hamas – hanno manifestato il loro dissenso.

Vedremo gli sviluppi, ma la partita non sembra affatto chiusa. Da una parte sembra essersi formato un asse tra Meshaal, che ha annunciato di voler lasciare la guida del movimento, ed il premier del governo di Gaza, Ismail Haniyeh. Dall’altra, si oppongono all’attuale svolta dirigenti non meno importanti e prestigiosi. Quel che è certo è che in ballo non c’è soltanto – e forse neppure principalmente – la questione del nuovo governo, bensì la più generale ricollocazione strategica del movimento in un quadro mediorientale profondamente mutato nell’ultimo anno.

Le sollevazioni arabe hanno dato forza ad Hamas. Il successo elettorale delle formazioni riconducibili alla Fratellanza Musulmana, in Egitto e Tunisia, hanno evidenziato questo mutamento dei rapporti di forza nella regione. E se fino ad un anno fa Hamas era per l’occidente un’organizzazione terroristica, i cambiamenti intervenuti rendono ormai irrealistico – checché ne dica il governo sionista – questo approccio. Ma c’è, come sempre, il rovescio della medaglia. Che nel nostro caso prende le sembianze delle monarchie assolute del Golfo, mai attive come oggi.

Il loro disegno è chiaro: mettere sotto la propria tutela le formazioni politiche palestinesi (Hamas in primo luogo), legittimandole ma «congelandole» al tempo stesso. Un progetto che va visto nel più ampio disegno di sterilizzazione della spinta democratica e rivoluzionaria emersa con i sommovimenti che hanno interessato un po’ tutti i paesi arabi. Ma c’è anche un altro obiettivo, non meno ambizioso: l’isolamento dell’Iran.

La discussione in Hamas è dunque inevitabilmente difficile. Da un lato è ben comprensibile che si cerchi in tutti i modi di uscire dall’accerchiamento, ponendo così fine all’incredibile campagna di demonizzazione che il movimento ha dovuto subire in questi anni; dall’altro è ben motivata la preoccupazione di possibili scivolamenti politici dalle conseguenze difficilmente controllabili. Come sempre avviene in queste circostanze, il problema non è il compromesso in sé, ma la corretta valutazione delle conseguenze che da tale compromesso deriveranno.

Senza dubbio la maggioranza del popolo palestinese, che certo non ama Abu Mazen, è però favorevole al processo di «riconciliazione», ma un movimento di resistenza deve saper guardare più avanti. Secondo il quotidiano egiziano Al-Ahram, la divergenza tra Meshaal e Zahar sarebbe raffigurabile nel fatto che oggi il primo si pronuncia per la «resistenza popolare» e non per la «resistenza armata». Una differenza, non soltanto terminologica, tra chi ritiene che sia il momento di mettere l’accento sull’azione politica, e chi pensa che invece la resistenza sia ancora centrale.

La situazione è veramente complessa. La lotta di liberazione dal mostro sionista si presenta lunga e difficile, nonostante i miglioramenti del quadro politico regionale determinati dalle sollevazioni arabe. Hamas, grazie anche all’eroica resistenza di Gaza, sembra avere il sostegno della maggioranza del popolo palestinese, anche in Cisgiordania. Un dato che verrà probabilmente confermato nelle prossime elezioni, la cui data definitiva non è stata però ancora fissata. Ma se questa sembra una certezza, resta invece l’incertezza sulla strada che prenderà Hamas. Una scelta, qualunque essa sia, che avrà grandi conseguenze sul futuro della lotta di liberazione del popolo palestinese.