Secondo la Repubblica l’accordo tra la Cgil e Monti sull’articolo  18 è cosa fatta

«E’ ormai evidente a tutti che un’intesa di fondo fra le parti sociali e il governo Monti per manomettere l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nelle grandi linee c’è già da un pezzo». Inizia così l’articolo di Cesare Allara che vi proponiamo di seguito. L’articolo è stato scritto 3 giorni fa, ma ha trovato una clamorosa conferma nell’odierno scoop di Repubblica, che dà notizia di un vertice segreto tra Monti e la Camusso per definire i termini generali dell’accordo.

Naturalmente i diretti interessati smentiscono tutto, Repubblica invece conferma facendo riferimento ad una «fonte certa». Per una volta tanto dobbiamo credere all’organo ufficiale dei golpisti in guanti bianchi che hanno preso il potere a novembre. Lo scopo di costoro è chiaro: ridicolizzare la Cgil e la stessa sinistra del Pd (e forse lo stesso segretario Bersani), proprio nel momento in cui incassano il loro ennesimo signorsì. Succede sempre così, anche se i collaborazionisti credono spesso di non lasciare tracce e di poterla fare franca.


Perché per Monti è decisivo il superamento dell’articolo 18

(di Cesare Allara)

E’ ormai evidente a tutti che un’intesa di fondo fra le parti sociali e il governo Monti per manomettere l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, nelle grandi linee c’è già da un pezzo. I due camerieri della Marcegaglia, Angeletti e Bonanni, parlano di “robusta manutenzione, anche se di certo non va abolito” e di “riscrittura”. Anche le quote rosa Fornero e Marcegaglia, dicono che non si tratta di abolirlo tout court, ma di modificarlo e cioè, tradotto dal politichese e dal sindacalese in italiano corrente, di sterilizzarlo. Con la scusa della lentezza della giustizia italiana che penalizzerebbe le aziende e scoraggerebbe gli investimenti, si tratta in sostanza di togliere di mezzo, per quanto possibile, il giudizio della magistratura notoriamente rossa, nei conflitti di lavoro, per lasciare mano libera in materia di licenziamenti ad accordi fra sindacati collaborazionisti e padronato.  

Come mai allora non si è ancora ufficialmente raggiunto un accordo sulla ridefinizione in materia di mobilità in uscita, cioè sui licenziamenti? La principale ragione della sceneggiata in corso di svolgimento, sta nel fatto che non è facile “trovare la quadra” per giungere alla formulazione più adatta a salvare la faccia di coloro che a quel tavolo, in parlamento e nelle piazze televisive, dicono di rappresentare gli interessi dei lavoratori, e cioè CGIL-CISL-UIL-PD-SEL-IDV. Ognuno recita la sua parte nella commedia sui diritti dei lavoratori, ma indubbiamente il ruolo più difficile è senz’altro quello del PD e dell’altra quota rosa, Susanna Camusso. La quale chiede aiuto al suo segretario Bersani, che ributta la pallina al mittente e con la solita lingua biforcuta rimanda tutto alla trattativa fra le parti sociali: “C’è un tavolo che deve trovare un accordo perché il Paese ha bisogna di riforme, ma anche di coesione, di solidarietà e di impegno comune” (Corriere della Sera, 6 febbraio 2012, pag.10).

Stessa sceneggiata anche all’interno del PD. Si prenda ad esempio  l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano che lo scrivente conosce bene sin dagli anni Settanta. Per chi se lo fosse già dimenticato, ricordo che Damiano è quello che solo qualche anno fa incitava i lavoratori a mettere il loro TFR nei fallimentari fondi pensione dove hanno una cointeressenza gli stessi sindacati collaborazionisti. All’interno del suo partito Damiano ha il compito di coprire elettoralmente l’ala “sinistra” interna (esternamente ci pensa Niketto), e perciò avverte: “La riforma senza accordo di CGIL-CISL-UIL potrebbe avere conseguenze politiche” (Corriere della Sera, 5 febbraio 2012, pag. 8). Damiano, come del resto tutto il suo partito, non dice mai che l’articolo 18 non va toccato, ma restando coperto dietro i sindacati collaborazionisti “minaccia” il governo. Perché a lui è stata affidata la parte della tigre di carta, mentre nel frattempo il suo segretario Bersani assicura l’appoggio del partito a tutte le manovre antipopolari del governo Monti: “Avanti così” con “lealtà” fino alla scadenza naturale della legislatura nella primavera del 2013.  

Perché per il governo Monti è decisivo il superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori? Dopo aver  frenato momentaneamente la crisi sul versante del debito facendone pagare i costi ai soliti noti con provvedimenti che devono ancora dispiegare del tutto la loro carica antipopolare e recessiva, Monti deve assolutamente rilanciare la crescita economica, e per ottenere ciò deve creare le condizioni che rendano attraente il paese agli investitori stranieri ed indigeni. Per un fanatico liberista come Monti, l’unico modo per raggiungere l’obiettivo di un forte aumento della competitività del sistema paese è offrire una manodopera senza diritti, disponibile a farsi sfruttare a piacimento dal padrone e a vendersi al più basso costo pur di portare comunque a casa un salario o qualcosa che gli assomigli. Ripristinare il licenziamento ad nutum con l’aggiramento/abolizione dell’articolo 18 è il modo più spiccio per abbassare il costo del lavoro e aumentare la produttività, cioè lo sfruttamento. Perché, con una buonuscita di qualche mensilità in più, si potranno mandare a casa i lavoratori “privilegiati”,  quelli con pieni diritti, liberi di protestare e scioperare, con salari ormai troppo onerosi che rendono i prodotti italiani poco competitivi, sostituendoli con lavoratori più giovani,  precari, senza diritti, schiavi dei padroni, e con salari ridicoli.

Sempre per favorire la crescita, dopo quello dei diritti, un ennesimo furto è in agguato per i lavoratori , quello che va sotto il titolo di “detassazione del lavoro”. “Occorre mettere più soldi nelle buste paga” è uno dei ritornelli che da anni canta il coro sindacal-confindustriale. Ovviamente, non volendo prelevare i  soldi dai profitti per alzare i salari altrimenti gli investitori scappano verso Est, il finale di questa vicenda appare già scritto: la detassazione per le imprese sarà assai consistente, mentre per i lavoratori ci sarà qualche briciola, giusto quei pochi euro per andare una o due volte al mese in pizzeria.  Date le conseguenti minori entrate per lo Stato, è chiaro che ciò significherà un ulteriore taglio del welfare che ormai l’Italia non si può più permettere. Come ha detto Monti i governi italiani sono sempre stati troppo “buonisti” sul welfare, verso i lavoratori ovviamente.

Riusciranno questi provvedimenti a promuovere un qualcosa che assomigli ad una crescita economica? Secondo il comunicato della presidenza del Consiglio sul decreto “Cresci Italia” del 21 gennaio scorso, “le liberalizzazioni potrebbero produrre una crescita significativa della produttività, quantificabile in oltre dieci punti percentuali. Altri studi sulla materia indicano che una riduzione delle rendite nel settore dei servizi al livello medio degli altri paesi dell’euro, si assocerebbe, nel medio periodo, a un aumento del prodotto dell’11%; il consumo privato e l’occupazione crescerebbe fino all’8%, gli investimenti del 18%; i salari reali di quasi il 12% senza effetti negativi sull’occupazione”. Roba da far impallidire il “boom economico” degli anni Sessanta, e tutto ciò solo con le liberalizzazioni; quando tra qualche mese sarà deregolamentato completamente pure il lavoro dipendente, il Vietnam, la Thailandia, il Burundi eccetera, dovranno cominciare a temere la nostra concorrenza.

Non è escluso che questo tentativo di fare dell’Italia una grande maquilladora nel cuore dell’Occidente industrializzato, una fabbrica di esclusivo assemblaggio stile Marchionne alla Carrozzeria della FIAT Mirafiori, e di operosi sottoscala in stile cinese, possa portare nel breve e nel medio termine a far muovere l’economia.  Ma, secondo me, il percorso dell’economia italiana ha iniziato a ricalcare quello della Grecia, mentre dal punto di vista  democratico, l’Italia tende ad assomigliare sempre più alla Tunisia o all’Egitto prima delle rivolte dell’anno scorso.

Cesare Allara
Torino, 9 febbraio 2012