Cresce la pressione sociale nel regno alawita. Dopo le immolazioni dei cinque laureati-disoccupati a Rabat e la rivolta degli abitanti di Taza, è ancora la cittadina situata tra le pendici del Rif e del Medio Atlante ad essere al centro degli eventi. Nuove manifestazioni popolari hanno innescato la repressione violenta delle forze dell’ordine il 1° febbraio. Da allora la protesta va avanti, nonostante la città sia militarizzata. Il governo invece assicura il ritorno alla calma e condanna i media online. 

Taza atto primo
Il 4 gennaio scorso la città era stata teatro di duri scontri tra la popolazione in rivolta e le forze di polizia, accorse in gran numero dalla vicina Fes in seguito alla protesta partita dai coordinamenti dei laureati-disoccupati e degli studenti.
Marginalità sociale, mancanza di impiego e infrastrutture, oltre all’aumento delle bollette di acqua ed elettricità, continuano ad alimentare un malcontento che aveva già dato i primi segni di effervescenza durante il mese di dicembre.
L’economia di Taza, caratterizzata da una scarsa produttività locale e fortemente legata alle rimesse degli emigrati in Spagna, sembra aver pagato a caro prezzo gli effetti della crisi europea che ha drasticamente ridotto il ritorno di capitali sul territorio.
 
In quell’occasione i due sit-in organizzati di fronte alla sede della prefettura e nel quartiere residenziale, che ospita i quadri dell’amministrazione locale, erano velocemente degenerati in conflitto.
 
“La città ha vissuto momenti di guerriglia urbana dove i manifestanti, sostenuti dagli abitanti del quartiere popolare Koucha, hanno occupato le strade e contrastato l’avanzata degli agenti bruciando pneumatici. La polizia invece ha cercato di forzare i blocchi scagliandosi con le camionette sulla folla ad alta velocità”, ricordava Mohamed Chbairi, responsabile della sezione locale dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti umani).
Il bilancio era stato di una ventina di feriti tra i poliziotti, sconosciuto invece quello dei manifestanti che avevano evitato di recarsi all’ospedale per paura di essere sequestrati e condotti al commissariato.

 
Taza atto secondo
Ad un mese dalla prima rivolta, mercoledì 1° febbraio, il sodalizio tra gli chomeurs e le fasce più povere della popolazione locale è sfociato in nuove manifestazioni, in seguito all’arresto di cinque persone presumibilmente coinvolte negli scontri precedenti.
 
L’ennesima scintilla, in un contesto sociale ad alto rischio di detonazione, che è servita a riaccendere il fuoco della protesta.

I dimostranti hanno occupato le strade della città invocando la liberazione dei compagni e le dimissioni del governatore di zona.
Nella notte tra mercoledì e giovedì, dopo il confronto violento con le forze di polizia in cui è degenerato il sollevamento, gli agenti hanno atteso i reparti anti-sommossa in arrivo da Oujda e Fes ed hanno invaso il quartiere Koucha, dove molti dei manifestanti avevano trovato rifugio.
La dura repressione andata in scena fino alle prime luci dell’alba – violazioni di domicilio, minacce, arresti e percosse – è stata documentata dagli stessi abitanti, che hanno messo on-line foto, filmati e testimonianze diffuse attraverso Youtube e Facebook (il materiale è disponibile accedendo al gruppo “Koucha street“).

“Hanno sfondato la porta e sono entrati in casa. I poliziotti si sono scagliati contro di me e contro i miei figli. Nel quartiere hanno distrutto tutto, perfino i contatori dell’elettricità”, ha raccontato Aicha, un’infermiera del posto, sorpresa dalla furia degli agenti mentre stava prestando soccorso ad alcuni contusi.

A confermare la brutalità degli eventi, le dichiarazioni rilasciate al sito di informazione Lakome da Nabila Mounib, neoeletta segretario del PSU (partito della sinistra radicale che appoggia le mobilitazioni del “20 febbraio”), giunta a Taza poco dopo il rastrellamento notturno.
“Ho visto con i miei occhi madri e padri che rifiutano di accettare la profanazione delle loro case, che condannano le umiliazioni, le violenze e le intimidazioni per mettere a tacere le rivendicazioni di chi aspira ad una vita degna”.

Secondo la sua testimonianza, ribadita dagli altri attivisti presenti in loco, alcuni ragazzi sarebbero stati prelevati arbitrariamente dalle loro abitazioni o arrestati l’indomani sul luogo di lavoro.
In merito agli eventi il giornale Le monde ha parlato di almeno 150 feriti, mentre l’associazione marocchina per i diritti umani ha stilato una prima lista di quattordici detenuti, accusati di “aggressione alle forze dell’ordine, occupazione illegale di luogo pubblico e distruzione di beni pubblici”.
 

“Una rivolta sociale, almeno per ora…”
Quella inflitta nei giorni scorsi ai “ribelli” di Taza è stata una punizione esemplare, un episodio di violenza gratuita e indiscriminata che richiama alla memoria la spedizione effettuata nel giugno 2008 contro gli abitanti di Sidi Ifni, in seguito agli scioperi e al blocco del porto attuato dai disoccupati e dai piccoli pescatori per denunciare lo stato di degrado dell’ex enclave spagnola.
Come in quell’occasione, decine di carovane di solidarietà sono partite da tutto il territorio nazionale ed hanno raggiunto la “porta del nord-est” (il valico di Taza è storicamente considerato una cerniera tra l’oriente e l’occidente maghrebino) lo scorso fine-settimana. Obiettivo: sostenere la popolazione locale, documentare i fatti e reclamare la liberazione dei giovani finiti in arresto durante la repressione.

Non tutti gli attivisti, però, sono riusciti ad arrivare a destinazione; la carovana proveniente da Tetouan per esempio è stata bloccata dagli agenti all’ingresso di Fes e costretta a tornare indietro.
“La città è invasa dalle forze di polizia e nuovi effettivi continuano ad affluire con camion e mezzi corrazzati”, ha riferito ad Osservatorioiraq il giornalista Abdou Berrada (ex AFP), in arrivo da Casablanca.

Nonostante ciò le manifestazioni proseguono.
Nei giorni successivi al rastrellamento, migliaia di persone hanno marciato pacificamente prima di essere ancora disperse dai celerini.
Martedì era previsto un sit-in di fronte al tribunale, dove ha avuto inizio il processo contro i 14 imputati, mentre un corteo si sarebbe dovuto unire al picchetto scendendo dalla collina su cui sorgono l’antica medina e il quartiere Koucha.

“L’udienza è stata anticipata senza preavviso e rimandata a giovedì. Nessuno di noi ha potuto assistere. Quando i manifestanti, appresa la notizia, hanno cercato di risalire verso la città vecchia, sono stati fermati dall’ennesimo intervento della polizia che ha provocato una decina di feriti. Il diritto alla libera espressione del dissenso continua a non essere garantito”, è il racconto di Berrada.
Lo sciopero generale indetto ieri a Koucha in solidarietà con i detenuti non ha avuto seguito, dal momento che i poliziotti hanno obbligato i proprietari dei negozi ad aprire le saracinesche.
Allo stesso tempo il quartiere è stato invaso da gruppi di sconosciuti che hanno distribuito bandiere nazionali e ritratti del sovrano, preoccupandosi perfino di decorare i muri delle case con la scritta “viva il re”.

Secondo la testimonianza del giornalista, gli abitanti dei quartieri coinvolti nella rivolta vivono nella paura di nuovi attacchi da parte delle forze dell’ordine, che continuano a pattugliare le strade e a sorvegliare i domicili.
“Questa gente è sconvolta e non capisce il motivo di tanto accanimento. La loro è una protesta sociale, dettata da necessità contingenti, mentre il governo – piuttosto che intavolare trattative ed ascoltare le rivendicazioni – ha reagito come se si trovasse di fronte a temibili oppositori politici. Abusi, violenze e assalti indiscriminati. Le autorità vedono fantasmi dappertutto e finiscono per comportarsi in modo irresponsabile”.

Le famiglie sorprese nella notte e le persone finite in arresto, nella maggior parte dei casi, non hanno mai partecipato alle manifestazioni domenicali del movimento 20 febbraio e – salvo aver approfittato dell’atmosfera di generale mobilitazione diffusa nel paese – poco hanno a che vedere con i dissidenti che da quasi un anno chiedono la fine dell’autoritarismo monarchico e il passaggio ad un sistema democratico.

“Non è contro il regime – almeno per il momento – che è rivolto il loro malcontento, ma contro i baroni e i proprietari delle poche fabbriche presenti in città, che siedono in consiglio municipale e alla camera di commercio, responsabili ai loro occhi del degrado e del mancato sviluppo della regione. Una ragazza impiegata in uno stabilimento tessile mi ha confessato che il suo salario mensile non supera gli 800 dirhams (circa 80 euro), la metà dello stipendio minimo garantito per legge”, ha concluso il nostro interlocutore.

Se il clima di persecuzione dovesse continuare, tuttavia, non è escluso che la protesta degli abitanti di Taza possa estendersi alle città e ai villaggi della regione – che lamentano il medesimo stato di abbandono – e allo stesso tempo possa radicalizzarsi, alimentata da una nuova “linfa politica” che sta spingendo verso il cambiamento e che si oppone alle pratiche dispotiche tuttora in voga nel paese.

Intanto il governo Benkirane ha rotto il silenzio sull’accaduto con un comunicato diffuso dalla MAP (agenzia stampa di regime) sabato scorso.
Nella breve nota l’esecutivo ha assicurato il pieno ritorno alla calma ed ha difeso l’operato delle forze dell’ordine, omettendo le gravi violazioni compiute dagli agenti nella notte del 1° febbraio.

La comunicazione ufficiale è stata poi l’occasione per attaccare gli organi di stampa on-line, colpevoli di aver “amplificato gli incidenti e diffuso false informazioni”.
Una minaccia rivolta indirettamente al sito indipendente Lakome, che per primo ha assicurato la copertura degli eventi raccogliendo le testimonianze delle vittime e rompendo il blocco mediatico calato su Taza.

da Osservatorioiraq