I pesanti scricchiolii europei nel giorno della firma del nuovo trattato, il più folle di tutti
Formalmente un successo: venerdì scorso, 25 Paesi della Ue su 27 hanno firmato il Fiscal Compact, il nuovo trattato – il più folle di tutti – sui bilanci statali dell’Unione. Praticamente un mezzo disastro: Spagna e Olanda hanno annunciato che non rispetteranno le nuove regole un minuto dopo che le avevano firmate, Grecia e Portogallo sono sempre più in balia delle onde, in Irlanda l’adesione sarà sottoposta a referendum, in Francia la ratifica è legata anche all’esito delle presidenziali, mentre – come noto da tempo – Gran Bretagna e Repubblica Ceca non hanno proprio firmato.
Insomma, il trattato è davvero molto «Fiscal», nel senso della sua puntigliosità nel voler confiscare le residue sovranità nazionali, ma ben poco «Compact», dato che ci consegna un’UE assai più disunita di quanto non fosse solo qualche mese fa.
Ai tempi di Berlusconi, e sembra passata un’era geologica, era d’uopo dedicare due righe alla buffonesca comparsata del suddetto, normalmente condita con corna e barzellette. Ma siamo proprio sicuri che fosse quello il modo più grottesco per commentare i successoni europei? Che dire allora di Monti, che dopo aver apposto una firma che condannerà l’Italia ad una lunghissima recessione, ha avuto la faccia tosta di dichiarare che: «la crisi finanziaria sembra uscita di scena, ora si parla di sviluppo»? Con precisione teutonica la Merkel ha invece ammesso che «non siamo fuori dal tunnel» e che se oggi «c’è più calma sui mercati finanziari» è solo «per il maxi-prestito della Bce alle banche», ma «nulla ci indica che lo sconquasso sia stato superato». Questo solo per ricordarci che, in quanto a precisione, una tedesca vera è sempre più tedesca di un tedesco finto come il Professor Quisling.
Ma non facciamoci distrarre e restiamo al punto, cercando di analizzare tre questioni: 1) i contenuti del Fiscal Compact, 2) i suoi effetti sulla (dis)Unione Europea, 3) quelli sulla disastrata penisola, disgraziatamente nelle mani del Salvatore di cui sopra.
1. Il Fiscal Compact, una Maastricht al cubo
Come noto, il Trattato di Maastricht, del 7 febbraio 1992, sanciva il passaggio dalla CEE (Comunità Economica Europea) all’attuale UE (Unione Europea), definendo i criteri di convergenza economica che avrebbero spianato la strada alla moneta unica, cioè all’euro. Questi criteri riguardavano il tasso di inflazione, i tassi di interesse e la stabilizzazione monetaria, ma impattavano immediatamente sulle condizioni di vita di decine di milioni di persone soprattutto per i vincoli posti ai bilanci dei singoli Stati. Anche se dovrebbero essere arcinoti, giova ricordarli: il rapporto tra deficit e Pil non doveva essere superiore al 3%, il rapporto tra debito e Pil non doveva superare il 60%.
I sacrifici imposti negli anni ’90 erano invariabilmente targati Maastricht. Tuttavia quei sacrifici non consentirono a tutti il rientro in quei mitici parametri. L’Italia, ad esempio, riuscì a portare il rapporto deficit/Pil ben al di sotto del 3%, iniziò anzi una lunghissima serie di anni con consistenti avanzi primari, ma non riuscì affatto ad avvicinare l’obiettivo – assurdo, infatti, ieri come oggi – del 60% nel rapporto debito/Pil. Una sfasatura davvero interessante, perché ci consente di capire meglio cosa ci attende ora con la Maastricht al cubo del Fiscal Compact, ma su questo punto specificamente italiano torneremo dopo. Il fatto che qui vogliamo sottolineare è che i parametri di Maastricht servirono a tartassare le classi popolari su scala continentale, ma essi non vennero comunque raggiunti, e l’euro nacque in base ad un accordo politico che si accontentò di registrare quella che sembrava una convergenza tendenziale.
Ora, a vent’anni di distanza, le oligarchie europee – tedesche in primo luogo – ci riprovano. Dal loro punto di vista è comprensibile: Maastricht è fallita ma è stata utilissima a bastonare il popolo lavoratore, ed il Fiscal Compact – se non vi sarà una sollevazione popolare anti-europea – lo sarà ancor di più. Entriamo nel merito.
Il 3% nel rapporto deficit/Pil di Maastricht diventa ora al massimo lo 0,5%, ma la norma prevede addirittura il pareggio o l’avanzo. Il disavanzo dello 0,5% è infatti solo una soglia oltre la quale scattano le sanzioni europee (non entriamo qui, per brevità, nei meccanismi che le regolano), ma la norma del pareggio (o avanzo) dovrà essere inserita nell’ordinamento legislativo – meglio, nelle Costituzioni – dei singoli stati. E la Corte di giustizia europea dovrà verificare che ciò avvenga puntualmente. Insomma, il modello tedesco ha vinto brutalmente su tutta la linea. Ed in confronto Maastricht sembra quasi un gioco per educande. Ma il bello deve ancora venire.
Se nel 1998 ci si accontentò della «tendenziale convergenza» di paesi come Italia e Belgio (per non parlare della Grecia, che però venne ammessa nel club dell’euro solo successivamente) verso l’obiettivo del 60% nel rapporto debito/Pil, oggi non si scherza più. Oggi il dogma deve farsi realtà, ed il percorso di rientro è disegnato secondo tappe ben precise. La regola è chiara: gli stati che superano il limite previsto devono ridurre di un ventesimo all’anno la parte eccedente il 60%. Da notare che oggi, a differenza di vent’anni fa, si trovano oltre la magica soglia del 60% ben 14 paesi dell’Unione, di cui 12 dell’eurozona. Da notare anche che molti che ancora si trovano sotto (prevalentemente in area extra-euro), hanno però – causa la crisi sistemica che li ha investiti – rapporti deficit/Pil elevatissimi (è il caso, ad esempio, di Polonia, Lituania, Lettonia, Slovacchia, Slovenia e Romania) e non ci metteranno molto a raggiungerla. Ne consegue che quasi tutti gli stati dell’UE (uniche eccezioni prevedibili: Estonia, Finlandia, Lussemburgo, Svezia, Danimarca e Bulgaria) dovranno fare i conti con la regola del 60%.
Già, perché qualcuno pensa ancora che il problema sia solo dei Piigs, un acronimo che non del tutto casualmente è invece ormai scomparso dal gergo giornalistico. Eh no! I Piigs stanno ovviamente peggio, ma anche la Germania (dati 2010) è all’83,2%, mentre la Francia è all’81,7%, ma con un deficit gigantesco che non accenna a calare. Ma se per i francesi non sarà facile adeguarsi alle norme del Fiscal Compact, per i sudditi di Sua Maestà Britannica, con un deficit vicino al 10%, sarebbe stato addirittura impossibile. Ecco infatti che il governo inglese ha deciso di non farsi legare le mani. Tutta qui, permettetemi un breve inciso, la differenza tra l’ultra-liberista Cameron e l’ultra-liberista Monti. Insieme, i due firmano documenti a favore di liberalizzazioni (che loro chiamano «crescita») ancora più spinte, ma mentre uno si tiene ben stretta la sovranità monetaria e nazionale, l’altro sa solo dire Europa, Europa, Europa…
Il Fiscal compact è dunque una gabbia ancora più stretta di quella disegnata a Maastricht. Se allora molti l’accettarono coltivando un’illusione europeista variamente declinata, oggi che di quell’illusione non resta più niente, perché mai questa gabbia al cubo dovrebbe essere accettata? Si è già visto – basti pensare all’introduzione del vincolo di bilancio negli ordinamenti nazionali – che il salto di qualità che si vuol compiere è politico prima ancora che economico e finanziario. L’ennesima fuga in avanti di una classe dirigente che non vuol prendere atto, e che mai lo farà se non costretta, del proprio fallimento storico. E veniamo così al secondo punto.
La (dis)Unione avanza
Abbiamo aperto questo articolo ricordando i distinguo che hanno chiuso il Consiglio europeo di Bruxelles. Vediamoli più da vicino. Innanzitutto, la Spagna. «Più di così non possiamo fare. Le imprese chiudono, non c’è lavoro: alla Spagna non servono altri tagli, non è con i tagli e nemmeno con nuove tasse che possiamo far ripartire l’economia e combattere la disoccupazione». Così il premier, Mariano Rajoy, citato dal Sole 24 Ore del 3 marzo. Qual è la materia del contendere? Semplice: la Spagna, che ha chiuso il 2011 con un deficit all’8,5%, doveva impegnarsi, secondo l’Unione Europea, a scendere al 4,4% quest’anno. Niente da fare, Madrid ha deciso di fermarsi al 5,8%. Rajoy sperava forse di impietosire Bruxelles con il tasso ufficiale di disoccupazione che corre verso il 24%. Missione fallita. Nessuno si è commosso, ma l’UE ha una bella grana da risolvere.
A sorpresa, poi, è stato il turno dell’Olanda. Il signor Mark Rutte, liberista di ferro (del resto, come Rajoy) ha dovuto comunicare che i conti del suo paese sono assai diversi da quelli fin qui stimati. Ahi, ahi, ahi. A Bruxelles pensavano che certe cose succedessero solo ad Atene. Ed invece no, la virtuosa Olanda, fedelissima alleata delle Panzer-Division della signora Merkel nella lotta ai viziosi del sud, ha sbagliato i conti di un 50% (il deficit è al 4,5% anziché al 3% che era stato previsto). Saranno anche virtuosi questi olandesi, ma come ragionieri sono un po’ scarsi. Anch’egli, come il collega spagnolo, ha chiesto venia, ottenendo un rotondissimo Nein. Quando si dice la mancanza di riconoscenza…
Ora, però, per quanto risibili siano i due primi ministri in questione, resta il fatto che la situazione in cui si sono trovati li ha costretti a sollevare la spinosissima questione della sovranità nazionale. Rajoy è stato piuttosto lapidario: la determinazione del disavanzo spagnolo è una «scelta sovrana che spetta alla Spagna e che comunicherò come tutti ufficialmente in aprile». Più evasivo (e indispettito) Rutte, che ora proverà a convincere della necessità dei tagli (16 miliardi?) gli olandesi. Il governo dell’Aja ha il piccolo problema di doversi sostenere sul Partito della libertà, la formazione xenofoba di Geert Wilders che sembra voler proporre un referendum per un ritorno al fiorino. Più in generale, è ben noto che nel 2005 fu proprio l’Olanda, insieme alla Francia, a bocciare con un referendum la Costituzione europea. Dunque, anche questa grana non sembra poi tanto piccola.
Non entriamo qui sulle vicende irlandesi, né su quelle francesi, anche se alla fine potrebbero diventare esplosive, non perché vi siano così grandi differenze tra i candidati all’Eliseo, ma perché questo assalto finale ai residui di sovranità nazionale potrebbe avere contraccolpi oggi imprevedibili proprio sulle rive della Senna. Quel che importa rilevare è che la dis(Unione) europea continua ad avanzare. Alla faccia dei mariomonti, alcuni dei partecipanti alla riunione di Bruxelles hanno fatto rilevare il clima assai irreale di un incontro dove si è preteso di discutere del futuro dell’UE, senza affrontare un solo nodo del presente, ed in particolare la questione del fondo Esm che ancora una volta è rimasta in sospeso. Un’altra conferma della fuga in avanti della leadership europea, cui abbiamo già accennato. Una fuga in avanti che avrà conseguenze particolarmente nefaste in Italia. Ed arriviamo così al terzo ed ultimo punto.
L’Italia affondata dal suo Salvatore
Il Professor Quisling ha dunque firmato la condanna ad altri vent’anni di vacche magre. Certo non per lui, né per i suoi complici, ma questo lo sanno tutti.
A differenza dei correligionari di Madrid e dell’Aja, peraltro anch’essi (come Cameron) cofirmatari del documento per le liberalizzazioni, mariomonti si è vantato del suo sì. Bene, vedremo quanti monumenti avrà tra trent’anni.
Passiamo ora alle cose serie. Abbiamo già accennato alla sfasatura che si è prodotta nell’approccio italiano ai parametri di Maastricht. Mentre l’obiettivo sul rapporto deficit/Pil venne raggiunto già nel 1997 (deficit sotto il 3% ed addirittura avanzo primario del 6,8%) quello sulla riduzione del debito non è mai stato lontanamente avvicinato. Certo, vi sono stati anni in cui il debito è calato, ma sta di fatto che il dato di chiusura del 2011 (120,1%, lo ha comunicato l’Istat l’altroieri) è assai vicino al massimo storico del 124,3% dell’ormai lontano 1994. Eppure, dal 1997 in poi il deficit ha oscillato proprio attorno alla soglia del 3%, mentre il saldo primario è stato quasi sempre positivo, con l’unica eccezione del 2009.
Eppure, deficit e debito, come due carabinieri europei, avrebbero dovuto marciare assieme. Perché – è un fatto – non è avvenuto? Perché – sostiene il sottoscritto – non avverrà? La domanda è centrale, non solo perché siamo in Italia, ma anche perché il caso italiano conferma e spiega quello greco, portoghese, eccetera, ed indica cosa potrà accadere ad altri paesi in condizioni simili.
Innanzitutto, perché non è avvenuto? La risposta è abbastanza semplice: perché non poteva avvenire. Venti anni di tagli draconiani non hanno ridotto il debito, ma hanno dissestato l’economia. Il fatto è – la Grecia insegna – che quando lo stock del debito raggiunge una certa soglia diventa sostanzialmente incomprimibile. Se non si taglia, il debito si dilata; se si taglia l’economia regredisce. Ad un ammontare del debito corrisponde inevitabilmente la massa degli interessi da pagare. Ovviamente il rapporto tra queste due grandezze non è sempre uguale, dato che varia con il variare dei tassi d’interesse, ma è ben noto che questi ultimi salgono man mano che si avvicina il pericolo dell’insolvenza. Il circolo vizioso dovrebbe essere evidente anche per un lettore di Repubblica, indipendentemente da chi risieda a Palazzo Chigi.
Neppure vent’anni di avanzi primari sono stati capaci di aggredire la massa del debito, che anzi ha ripreso a salire. Perché mai questa terapia dovrebbe funzionare oggi, nel pieno di una recessione che si annuncia profonda e soprattutto lunga? Gli avanzi primari non bastano – come abbiamo dimostrato in un precedente articolo – perché non coprono neppure il pagamento degli interessi. Basterebbero solo se vi fosse un elevato tasso di crescita, ma abbiamo già visto che questo non può darsi (e proprio la situazione attuale lo dimostra) in presenza di manovre che inevitabilmente deprimono la domanda, in un quadro dove lo sbocco esportativo è impedito dal dogma dei dogmi, l’euro.
Naturalmente la fede è fede, ed i sacerdoti del mercato e dell’euro non molleranno mai. Leggiamo ad esempio cosa scrive Rossella Bocciarelli sul Sole 24 Ore del 3 marzo, a commento dei dati ufficiali Istat del 2011. «La nota dolente, ovviamente, riguarda lo stock del debito pubblico, che lo scorso anno è stato pari a 1897,9 miliardi di euro (ovvero al 120,1 per cento del Pil dopo il 118,7 fatto registrare nel 2010). Le solide basi delle tre manovre da 5 punti di Pil tuttavia fanno ritenere che quello raggiunto lo scorso anno sia un picco e che questa percentuale tornerà a scendere l’anno prossimo».
Come si conviene i sacerdoti di cui sopra arrivano quasi sempre al lieto fine, basta affidarsi alle loro cure, alla loro politica, alla loro fede. Ma è credibile questo lieto fine? Secondo l’articolista già nel 2012 il rapporto debito/Pil dovrebbe ridursi. E’ possibile? No. Vediamo brevemente il perché. Il 120,1% registrato nel 2011è il rapporto tra lo stock del debito (1897,9 miliardi) ed il Pil (1580 miliardi). Ma quali sono le previsioni per il 2012? Per il deficit il governo prevede un passivo pari all’1,6%, mentre per il Pil, l’Istat pronostica un -1,4% (il Fondo Monetario Internazionale il -2,2%, ma vedremo alla fine). Dunque i conti, almeno per il 2012, non potranno che peggiorare ulteriormente, ma la fede e fede e non si discute.
Conclusioni
E’ sostenibile una situazione del genere? Evidentemente no. Figuriamoci il folle obiettivo della riduzione al 60% in vent’anni! Perché insistono allora? Perché non hanno alternative, per ora non c’è un piano B per uscire dalla follia dell’euro. O, se c’è, nessuno ha il coraggio di tirarlo fuori.
Ecco perché tocca a chi vuol costruire un’alternativa sistemica occuparsi di queste questioni. La dittatura del debito, nel determinare le scelte economiche fondamentali, non è meno forte oggi di qualche mese fa. E con il Fiscal Compact lo sarà ancora di più nei prossimi anni. Avviare un’iniziativa concreta su questo fronte è dunque di primaria importanza: il debito pubblico va cancellato, è questa l’unica possibilità di fuoriuscita dal tunnel che sta conducendo verso un nuovo medioevo sociale. In quanto all’euro, gli scricchiolii avvertiti a Bruxelles non lasciano dubbi: il processo di integrazione politica dei paesi UE è in grave affanno, ognuno cura ormai i propri interessi ed i conflitti interni non potranno che aumentare.
A guardar bene non è difficile comprendere che il processo disintegrativo è già iniziato, e segnali di controtendenza non ce ne sono. Ma l’agonia non sarà breve. Troppi e troppo ramificati sono gli interessi legati al mostro UE. Ma la direttrice è tracciata. Lo sbocco lo deciderà invece lo scontro sociale e politico che finirà per aprirsi, prima o poi. E speriamo prima piuttosto che poi.
Le cattive abitudini acquisite in trent’anni di letargia di massa portano alcuni a pensare che anche questa volta finirà a tarallucci e vino. Dissentiamo profondamente. Non finirà così, anche se non possiamo certo sapere come se ne uscirà. Di certo, affinché vincano le ragioni delle classi popolari ci vogliono tre ingredienti: un forte movimento di massa incentrato sulle nuove generazioni, un chiaro programma d’emergenza attorno al quale costruire un autentico governo popolare, un’organizzazione ed un fronte politico ampio capace di guidare il processo rivoluzionario.
Anche per questo, nel nostro piccolo, avvieremo a Chianciano – sabato e domenica prossima – il processo costituente del Movimento Popolare di Liberazione. Anche per questo discuteremo lì questi temi con i protagonisti delle lotte che hanno scosso la Sicilia e la Sardegna alla fine di gennaio.