Sulle elezioni del 2 marzo

Con la pistola occidentale puntata alla tempia, oltre il 65% dei 52 milioni di iraniani aventi diritto al voto, si sono recati alle urne il 2 marzo scorso, per eleggere i 290 membri del Majlis, il Parlamento.

Già questa percentuale di votanti è un dato denso di significato. Le potenze occidentali non hanno nascosto la loro speranza che l’affluenza scendesse sotto la soglia simbolica del 50%, in ciò spalleggiando la posizione astensionista della cosiddetta “opposizione riformista”, quella dei Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi, quella che nel 2009 fece un gran baccano per tentare di rovesciare la vittoria alle presidenziali di Ahmadinejad. Un’affluenza più che sufficiente per potere dire che i “riformisti” hanno ricevuto una sonora legnata.

Che ciò fosse nell’aria, in Iran, lo si sapeva da settimane. Indicativo che uno dei Maître à penser dell’opposizione, quella brillante mente di Mohammad Khatami (che ricordiamo fu presidente per ben due volte, dal 1997 al 2005, dopo venne Ahmadinejad) annunciò che avrebbe partecipato al voto.

La stampa occidentale, quando parla dell’Iran il più delle volte, mente. Essa tende a presentare il sistema politico iraniano come “totalitario e teocratico”, accreditando così la tesi che le elezioni sono state una mera farsa. Alle spalle della vulgata propagandistica, tuttavia, gli analisti più attenti non solo hanno sottolineato le peculiarità del complesso sistema istituzionale della Repubblica islamica [per quanto perfido consigliamo questo articolo: http://temi.repubblica.it/limes/chi-comanda-in-iran/5086], ma che queste elezioni sono state “una resa dei conti tra i due schieramenti contrapposti, quello della Guida suprema Ali Khameni da una parte, e quello del Presidente Ahmadinejad dall’altra”.

Com’è noto l’architettura costituzionale della Repubblica Islamica iraniana si ispira al principio khomeinista del Velayat-e faqih, del “governo del giureconsulto”, per cui la guida della comunità dei credenti spetta al giurista islamico, all’esperto religioso (che nella tradizione shiita duodecimana, al contrario di quella sunnita, è un corpo sociale a se stante, molto simile al clero dei cattolici o dei cristiani ortodossi). Avemmo modo, tempo addietro, di trattare la questione e non è qui la sede per tornarci su. Segnaliamo per dovere di cronaca che quando scrivemmo (vedi In morte di Montazeri) che il Velayat-e faqih implicava «il principio che la sovranità e l’autorità politiche spettano non tanto agli organismi di elezione popolare quanto ai “giusti faqih”, alle gerarchie religiose», fummo rimbrottati da amici shiiti, i quali ci segnalarono che in Iran gli 86 religiosi che compongono l’Assemblea degli esperti sono essi stessi scelti dal voto popolare.

Avremo modo di tornare sulla questione, di certo è risibile l’accusa degli occidentali che quello iraniano sarebbe un regime di dittatura. Anche volendo sorvolare sul pulpito da cui viene la critica (le “democrazie” occidentali sono oramai sistemi censitari in cui il sistema politico, quasi sempre bipartitico e presidenzialista, assicura l’accesso alle istituzioni solo a cricche con immense disponibilità di denaro), è palese le pretesa degli occidentali per cui essi e solo essi possono dare la patente di democratico a questo o quel regime, per cui il teorema che qualunque stato considerato “canaglia” per sua stessa natura è anti-democratico.

Tornando alle elezioni è un fatto acclarato che esse sono state, è vero, una specie di referendum sul Presidente Ahmadinejad e il suo governo. Inutile nascondersi che il Presidente è stato sconfitto, non per ultimo perché ha fatto da parafulmine per tutte le legittime lagnanze popolari causate dalla difficile situazione economica. Salito al potere sull’onda di una massiccio consenso da parte degli strati più umili della società e in virtù di un radicale messaggio di giustizia sociale e di contrasto alle diseguaglianze e ai privilegi delle classi più ricche, Ahmadinejad ha pagato a caro prezzo l’inadempienza alle sue promesse.

Sulla portata della sconfitta dei candidati filo-Ahmadinejad, raccolti nel “Fronte della resistenza” è presto per esprimere in giudizio definitivo. Solo 135 candidati sono stati eletti al primo turno, mentre 155 dovranno andare al ballottaggio. Tuttavia, la grande maggioranza degli eletti al primo turno fa parte del Blocco che si riconosce nella Guida suprema Ali Khameni, il “Fronte Unito principalista” (Fup). Degno di nota che subito dopo il Fup si è piazzato il blocco che va sotto il nome di “Fronte per la stabilità della rivoluzione islamica” (Fsri), un’aggregazione che ha ostentato una posizione di sostanziale equidistanza tra la Guida suprema e il Presidente.

In attesa di conoscere i dati dei ballottaggi va segnalata la comprensibile grande delusione dei governi occidentali. Il risultato non li conforta. La cosiddetta “resa dei conti” si è svolta infatti su un terreno che non ha nulla a che vedere con un eventuale ammorbidimento della battaglia contro le minacce imperialiste, né tantomeno con un ripensamento sulla scelta del nucleare. Per rendere conto di questa delusione ci pare interessante citare la curiosa posizione della rivista Limes. Nicola Pedde dichiara: «Se l’Occidente avesse veramente voluto appoggiare una politica orientata al regime change in Iran, paradossalmente avrebbe dovuto sostenere a spada tratta il presidente, Mahmoud Ahmadi-Nejad». (http://temi.repubblica.it/limes/elezioni-in-iran-la-resa-dei-conti/32858)

E’ evidente che con lo schiaffo subito certa gente non sa più che pesci prendere. Il fatto che dietro ad Ahmadinejad ci siano forze interne che vorrebbero limitare i poteri non solo della Guida suprema ma del clero shiita più in generale, viene inteso come se questo dissidio sia foriero di un cambio di regime vero e proprio. Errore! Una vittoria elettorale del “Fronte della resistenza” non avrebbe affatto mutato l’orientamento di fondo del regime iraniano, intendiamo non solo la scelta del nucleare, tesa a costruire uno scudo protettivo contro le perenni minacce d’aggressione (compresa quella sionista), ma quella di sostenere con ogni mezzo la resistenza palestinese e, con essa, quella libanese.

L’asse strategico della geopolitica iraniana non è in discussione. Ed è un bene che sia così.