«L’azzeramento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non è una misura per rendere flessibile il mercato del lavoro, ma per rendere rigidi (fino al parossismo) il regime di fabbrica e la stretta sui ritmi di lavoro. (…) si vivrà sotto il ricatto permanente del licenziamento individuale “per motivi economici”; e se questo potrà colpire solo pochi lavoratori per volta – non più di dodici all’anno per azienda – funzionerà perfettamente da deterrente per tutti gli altri.

Perché, con poche eccezioni, le imprese e l’imprenditoria italiana ormai impegnate a difendere i loro sempre più risicati margini di competitività contando esclusivamente sull’intensificazione dei ritmi di lavoro e la compressione dei salari, non hanno certo la cultura aziendale e la lungimiranza per farsi sfuggire un’occasione del genere: non avrebbero insistito tanto per l’abrogazione dell’art. 18.

Posto fisso vuol dire accumulo di esperienza, quel patrimonio aziendale – a patto di saperlo e volerlo valorizzare – che tante imprese italiane hanno sacrificato ai vantaggi offerti dall’ingaggio del lavoro precario e malpagato.

L’azzeramento dell’articolo 18 è un invito a continuare su questa strada, perché rinunciare all’esperienza dei lavoratori anziani vuol dire ricominciare ogni volta da capo e mantenersi ai livelli tecnologici più bassi. Così, quello che non sono riusciti a fare Berlusconi, Maroni e Sacconi in 17 anni, Monti lo sta portando a termine in pochi mesi. Il piatto è servito e quello che resta da fare, prima che passi in Parlamento il cosiddetto decreto sul mercato del lavoro – in realtà, sulla disciplina di fabbrica e l’ampliamento dell'”esercito industriale di riserva” – ma anche dopo, se sarà approvato, è continuare ad opporsi senza se e senza ma».

C’è un errore serio in questa giustamente spietata analisi di Guido Viale (il manifesto di ieri). E’ la considerazione, che sa di sinistrorso stantio, per cui, la soppressiomne dell’Art.18, ovvero l’estrema flessibilizzazione del mercato del lavoro e l’ampliamento delll’esercito industriale di riserva —fattori dirompenti per ottenere l’imposizione di un regime di fabbrica disumano nonché la compressione dei salari — siano l’espressione di un capitale “che non ha cultura e lungimiranza aziendale”.

E’ il consunto piagnisteo di sinistra per cui la borghesia italiana non saprebbe fare il suo mestiere, di qui la presunzione di insegnarglielo suo malgrado. Le cose non stanno così. L’ostinazione del governo Monti discende da una precisa visione globale, diremo strategica della classe dominante di questo paese.

C’è dietro una resa e una pretesa. La resa consiste nel fatto che si prende atto, magari affermando il contrario, che il capitalismo italiano ha perso il treno, da almeno tre decenni, della competitività qualitativa, che esso non ha né tempo né forze per riconquistare il posto di potenza industriale di prima linea che aveva conquistato col “miracolo economico”. E’ la presa d’atto che, nella divisione mondiale del lavoro, al capitalismo italiano, se va bene, spetta al massimo un ruolo di comprimario. Fateci caso, oramai l’Italia è considerata, nel consesso dell’Unione europea, già azzoppata dalla crisi e stretta nella triplice morsa degli Usa, della Cina e degli altri “emergenti”, un paese periferico. Monti, che sa il fatto suo, non ritiene soltanto che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, ma con Marchionne pensa che l’Art.18 (ovvero la politica della concertazione sindacale permanente) è un lusso che questo capitalismo declassato e marginalizzato non si può permettere.

Il “cerchio magico” dei dominanti che sta dietro a Monti, composto non solo da banchieri ma pure da ciò che resta della grande industria, sa infine, a maggior ragione se tiene l’Unione tedesco-centrica, che il capitalismo tricolore potrà stare a galla solo accettando il rango di paese di seconda linea, fornitore di semilavorati per il gigante germanico. Un capitalismo di subappalto che deve fornire manufatti a basso e bassissimo costo. Non alla Germania ci si può mettere a fare concorrenza, ma alla Polonia, alla Romania, alla Turchia o al Brasile. Di questo è simbolo il montismo, una sudditanza politica alle forze egemoni del capitalismo occidentale, espressione di una strutturale e irrevocabile subalternità economica.

Mettersi a fare le pulci al capitale, rimproverare alla borghesia di non essere sufficientemente illuminata, in altre parole di non essere sufficientemente renana o tedesca, è la spia infallibile di una sinistra che non solo ha perso la sua anima anticapitalista, ma che ha perso il senso di realtà.

Qual è la pretesa del “cerchio magico” dominante e di Monti è presto detto. Consiste nel delirio di onnipotenza. Spalleggiati da caste politiche oramai delegittimate e prive di ogni credibilità, i dominanti pensano, e noi riteniamo che ci credano davvero, non solo che la loro cura da cavallo sia la sola somministrabile. Essi ritengono che il paese possa sopportarla senza dare segni di rigetto. Al massimo avremo qualche spasmo, ma niente di davvero preoccupante. I 50mila portati in piazza dalla Fiom non gli fanno paura. Marchionne docet.

Ed è qui che si sbagliano, che si danno la zappa sui piedi. L’abolizione del’Art.18, che è solo un pezzo della loro strategia, come detto di una realistica visione del rango del capitalismo italiano nel mondo, non scatenerà forse la ribellione operaia, di certo susciterà quella sociale. Accusano la sinistra sindacale di guardare all’indietro, di avere il mito dell’operaio fordista che non c’è più. Per certi versi hanno ragione. Hanno ragione a ritenere che sull’Art.18 ce la faranno, che la resistenza della classe operaia tradizionale, ricordiamolo, vilipesa e tradita da sindacati e partiti che dicevano di fare le loro veci, sarà piegata. Se sono ricorsi alla mossa astuta del Disegno di Legge, dando l’illusione che il Parlamento possa apporre modifiche sostanziali, se hanno preso tempo, non è affatto per farla finire a tarallucci e vino, ma per prendere tempo. Il dado è tratto e la bomba del conflitto operaio è stata disinnescata. Con un Pd pronto al “dialogo” e una sinistra radicale appesa ad un pifferaio come Vendola, ad un sindacato che invoca la concertazione, non c’è molto da temere.

La sollevazione li colpirà invece, all’improvviso, come una fiammata, rabbiosa e incontenibile. Verrà da dove essi non se l’aspettano, o forse devono fare finta di non aspettarsela. Verrà dai marginali, da noi garantiti, dagli esclusi, dai disoccupati, dai precari, dalle partite Iva defunte, dai piccoli borghesi gettati sul lastrico, dai paria sociali. In due parole dai nuovi pauperes. Qui è il luogo dove si annida l’innesco che trascinerà e spingerà all’azione il popolo lavoratore, che produrrà l’esplosione sociale che tutto rovescerà e rimetterà in discussione.