L’aumento delle bollette e le lacrime di coccodrillo del presidente dell’Enel
Fino ad un anno fa la dirigenza dell’Enel diceva «o nucleare o buio»; con la stessa faccia tosta oggi piange per la sovrapproduzione che riduce la redditività del termoelettrico tradizionale. Poco onesti allora o poco onesti oggi? Poco onesti ieri ed oggi.
Ieri appoggiavano il ritorno all’atomo, ma badando bene di assicurarsi l’immissione in rete del chilowattora nucleare, bypassando così la stessa borsa elettrica, come se si trattasse di una fonte rinnovabile. Oggi strillano contro gli incentivi all’eolico ed al solare (settori dove l’Enel è piuttosto debole), ma guardandosi bene dal citare gli affari lucrosi di cui l’azienda ha beneficiato con il CIP6 e con i certificati verdi nell’idroelettrico e nel geotermico, dove l’Enel ha una posizione dominante.
In questi giorni in molti hanno capito come la partita elettrica vada facendosi pesante. Ed è una partita in cui viene ora utilizzata un’arma di distruzione di massa: l’aumento del 10% delle tariffe. Un primo aumento (5,8%) è già scattato il 1° aprile, mentre il secondo del 4% andrà in vigore a maggio. Un 10% in due mesi in un periodo di recessione, di salari bloccati e tagliati dalle tasse, di pensioni falcidiate, di disoccupazione crescente.
Un’enormità decretata dall’«Autorità per l’energia», e presentata all’opinione pubblica come la conseguenza dell’aumento del prezzo del petrolio e degli incentivi alle rinnovabili. Un’enormità che ha soprattutto un preciso obiettivo politico: condizionare le scelte del governo sulla quinta versione del “conto energia”, in modo da colpire le rinnovabili, favorendo gli inquinanti impianti termoelettrici dei big del settore, Enel in primis.
Il gioco è alquanto spudorato. Gli stessi che invocavano il nucleare, come vi fosse una carenza di energia elettrica, oggi si lamentano della domanda insufficiente. Leggiamo cosa ha dichiarato il presidente dell’Enel, Andrea Colombo: «Lo sviluppo delle rinnovabili, unito alla stagnazione della domanda, sta rendendo difficile la copertura dei costi di produzione degli impianti convenzionali, mettendone a rischio la possibilità di rimanere in esercizio» (da Repubblica del 30 marzo).
Ci sarebbe da ridere. Fino a ieri si sosteneva la necessità di nuovi impianti convenzionali (meglio se nucleari) da mettere in esercizio, oggi ci si accorge che alcuni di quelli in funzione dovranno essere fermati a causa della sovrapproduzione. Eh sì, perché questo è il punto: la crescita delle rinnovabili porterà – ed è giusto e naturale che porti – alla progressiva chiusura delle centrali termiche, con un certo sollievo per i polmoni delle popolazioni che vivono vicine a questi impianti.
Se così non fosse, a cosa servirebbero le rinnovabili? Il fatto è che molti erano favorevoli alle rinnovabili solo perché credevano che non avrebbero mai superato una certa soglia. Ma le cose non sono andate così. Le fonti rinnovabili coprivano il 15% dei consumi nel 2007, il 18% nel 2008, il 22% nel 2009, il 23% nel 2010, arrivando al 26% nel 2011. Un dato ancor più significativo, quest’ultimo, perché penalizzato da un forte calo dell’idroelettrico dovuto alla siccità dello scorso anno, ed ancora in corso.
Il trend è chiaro, ed alcune centrali termoelettriche hanno ora un funzionamento di 3mila ore annue, contro le 4-5mila ritenute necessarie affinché questi impianti siano redditizi. Crisi da sovrapproduzione dunque, che ammette in via teorica solo 3 soluzioni: a) un aumento dei consumi superiore all’incremento dell’apporto da fonti rinnovabili, b) una progressiva chiusura programmata degli impianti termoelettrici a partire da quelli più inquinanti, c) uno stop più o meno brutale alle rinnovabili.
La prima soluzione è palesemente impraticabile, sia perché la recessione porta con se un’inevitabile stagnazione dei consumi, sia perché – come abbiamo visto – il trend delle rinnovabili non lascia speranze in assenza di un pesante intervento legislativo (vedi soluzione c) .
La seconda soluzione sarebbe ovviamente quella auspicabile, ma richiederebbe una politica di programmazione industriale e la rinazionalizzazione del settore elettrico. Una prospettiva per la quale noi ci battiamo, ma che è vista con orrore dal dogma liberista dominante e da una dirigenza, come quella dell’Enel, nominata da governi tutti invariabilmente liberisti.
La terza soluzione è dunque quella prescelta da lorsignori, con l’appoggio di un’«Autorità» assai poco autorevole come quella dell’energia. Citiamo da la Repubblica del 1° aprile: «L’Autorità dell’Energia ha spiegato che la possibilità di aumentare ulteriormente la bolletta dell’energia elettrica punta a dare un segnale ai “decisori” delle politiche energetiche impegnati a scrivere le nuove norme in materia di rinnovabili».
Avete letto bene: «dare un segnale». Dunque si ammette che gli aumenti non corrispondono ad un effettivo costo di produzione, bensì – almeno in parte – alla volontà di «dare un segnale». Nell’interesse di chi a questo punto l’avranno capito anche i sassi.
Ora, costoro, anziché «dare segnali» potrebbero ad esempio spiegarci quanto ha inciso sugli ultimi aumenti la speculazione borsistica (sì, anche nella borsa elettrica si specula ogni giorno e le speculazioni vengono pagate in bolletta) in occasione delle fredde settimane di febbraio. Ma possiamo star certi che di questo non gli chiederà conto alcuna forza politica né le organizzazioni sindacali del settore.
Attacco dunque agli incentivi. Attacco in parte facilitato dagli abusi degli anni passati. Abusi di cui peraltro l’Enel si è giovata più di tutti. E’ naturale che, di fronte alla riduzione dei costi degli impianti (ed in particolare dei pannelli fotovoltaici), si riducano proporzionalmente gli incentivi. Ma una cosa è la giusta riduzione, altra cosa la cancellazione o comunque la forte penalizzazione delle rinnovabili come pretende oggi l’Enel.
Le scelte dei governi precedenti sono state per certi versi disastrose. Hanno favorito speculazioni di vario tipo, ma nessuno critica un aspetto decisivo di quelle scelte, quello di aver scaricato i costi degli incentivi sulle bollette. Dato che lo sviluppo delle rinnovabili risponde ad un’esigenza sociale generale, in termini ambientali e di salute, non sarebbe stato più giusto far ricadere quei costi sulla fiscalità generale?
Già ci immaginiamo le grida di dolore dei rigoristi bocconiani di fronte ad una simile ipotesi, che infatti il governo neppure prende in considerazione. Ma se è così, inutile lamentarsi allora dell’incidenza sulle bollette. Gli incentivi – benché gestiti in malo modo e senza alcuna programmazione industriale, al punto che l’Italia ha un passivo di 11 miliardi per l’importazione di pannelli solari! – sono stati decisivi nel far partire davvero le energie rinnovabili nel nostro paese. Tornare indietro sarebbe un vero crimine sociale ed ambientale, ma anche economico visto lo sviluppo del settore e l’occupazione che ha generato in questi anni.
Eppure c’è chi lavora in questo senso. Nei giorni scorsi è stata prodotta una bozza sulla nuova regolamentazione del quinto «conto energia» assai penalizzante per le rinnovabili. Chi ha scritto quel testo? Ufficialmente non si sa, ma in alcuni ambienti parlamentari (in particolare del Pd) è stato attribuito ad un non meglio identificato ghost writer di Enel. L’azienda elettrica ha smentito, ma senza convincere troppo. Del resto, per come funziona la politica italiana, specie nell’epoca dei «tecnici», la cosa non stupirebbe più di tanto. Tantomeno dopo le pittoresche lacrime di coccodrillo di Paolo Andrea Colombo, nominato presidente dell’Enel dal governo Berlusconi, quando già era consigliere di amministrazione di Mediaset e Versace… a proposito di «tecnici» senza colore e senza macchia, e soprattutto senza pudore.