Correva l’anno 1995 e quell’uomo a Linate parlava da solo. Ad attrarre l’attenzione dei passeggeri in attesa del volo Lione-Strasburgo non erano le sue parole ripetute e riformulate in un monotone sottovoce, ma la sua camminata su e giù nella sala d’attesa dell’aeroporto più lugubre d’Europa: non muoveva le braccia ma le teneva inchiodate sui fianchi senza seguire il ritmo alterno dei passi.
Stessa scena nei mesi seguenti all’aeroporto Zaventem di Bruxelles; stessa camminata e più o meno le stesse parole: “Ineludibile l’esigenza di una ristrutturazione del sistema pensionistico europeo… Una vera riforma del mercato del lavoro che rilanci gli investimenti… Senza liberalizzazioni verranno elusi i vantaggi per l’Europa di un’economia globalizzata…”.
Era chiaro che il personaggio si preparava ogni volta a pronunciare dei discorsi in qualche sede europea, ma la nostra colpevole ignoranza sulla sua identità venne dissipata solo quando intervenne in una delle molte finzioni parlamentari europee, il cosiddetto “Comitato di Conciliazione”: si trattava del prof. Mario Monti al quale il Presidente della commissione Jacques Santer, poi dimissionato per corruzione dal Parlamento, aveva affidato su proposta del cavaliere d’Arcore la delega al Mercato Interno, ai Servizi Finanziari, alla Fiscalità ed all’Unione Doganale.
E’ vero che avrebbe dovuto essere nostro dovere di parlamentare sapere molto prima chi fosse quella specie di manichino che compiva i suoi esercizi oratori passeggiando nei due aeroporti, ma è anche vero che nei primi mesi ed anni del suo mandato il professore non aveva lasciato tracce di alta visibilità o rilievo nelle aule della Commissione, del Consiglio Europeo o di Rue Wiertz. Per citare l’ironica battuta di un collega britannico “He did not blaze a path of glory in Bruxelles or in Strasbourg”, alla lettera “Non tracciò un fiammeggiante sentiero di gloria a Bruxelles o a Strasburgo”.
La gloria, diciamo meglio un’indiscutibile notorietà, raggiunse Mario Monti quando nella sua nuova veste di commissario alla concorrenza (nominato all’incarico dal governo D’Alema) sfidò – a suo dire – “i poteri forti”, denunziò la Microsoft di Bill Gates per abuso di posizione dominante ed inflisse ad essa una pesante multa di 497 milioni di euro (per altro solo l’1,6% del suo fatturato). In pratica il colosso statunitense aveva approfittato del sistema operativo Windows (il 95% dei PC) per eliminare dal mercato i concorrenti dei server di fascia bassa, le reti presenti nelle imprese.
Il verdetto del commissario destò sensazione, anche se l’imposizione della multa rivelò carenze procedurali e divenne esecutiva solo grazie alle drastiche correzioni introdotte dal successore di Monti nel 2005, senza comunque bloccare i ricorsi della Microsoft, l’ultimo vinto l’anno scorso in un tribunale di Milano dalla multinazionale USA. Diciamo dunque che la sfida ad “un potere forte” venne posta in atto ma che il professore aveva alle spalle poteri altrettanto se non più forti.
Tanto vero che al termine del suo mandato venne prontamente premiato con l’incarico di international advisor dalla Goldman Sachs, incarico mantenuto nel suo “Research Advisory Council” fino al 2011, che nel 2010 era divenuto presidente per l’Europa della Trilaterale fondata nel 1963 da David Rockfeller e passata alla storia per la sua insistenza sulla necessità di limitare gli esercizi dei diritti civili nelle democrazie per “assicurarne la governabilità”, per non parlare poi del ruolo direttivo di Monti nel gruppo semisegreto di consulenti finanziari Bilderbeg.
Doveroso riconoscere al nostro presidente del Consiglio la stessa coerenza ideologica che per dieci anni aveva manifestato in maniera ossessiva nel consesso d’Europa. Entro e fuori il contesto dei temi trattati aveva ribadito un giorno sì e l’altro pure quelle istanze che avevano costituito oggetto delle sue esercitazioni mnemoniche ed oratorie negli aeroporti di Malpensa e di Bruxelles; tre imperativi categorici, tre passioni: riforma delle pensioni, riforma del mercato del lavoro, liberalizzazioni. Il tutto innaffiato di equità (in inglese equities vuol dire “azioni in borsa”).
Se come capo di governo sta raccogliendo insuccessi in tutti e tre i settori la colpa è naturalmente dell’inadeguatezza, incompetenza e inesperienza, sue e dei suoi ministri, nella gestione della cosa pubblica. Insuccessi naturalmente per chi ne paga le spese, il famoso 99% della comunità nazionale e non certo per coloro che ci governano e che sotto la maschera di supertecnici nascondono l’essenza di una forsennata ideologia di estrema destra, uno sprezzo viscerale per le classi subordinate, un malcelato compiacimento per ogni colpo inflitto allo stato sociale.
Come economisti potrebbero essere annoverati tra i più esaltati epigoni della scuola di Chicago e dell’iperliberale Milton Friedman, i famosi o famigerati Chicago Boys degli anni ’50 e ’60, ma anche in un contesto del genere sulla dottrina dei Monti, Draghi & Co. è giustificato avanzare fondate riserve. Non perché, come altri economisti di più grosso calibro, non avevano previsto la catastrofe che incombeva sul mondo da circa un decennio (Monti dichiarò nel 2004, e cioè tre anni prima dell’esplosione della bolla subprimes, che il suo intervento sulla Microsoft avrebbe portato ad una regolamentazione dei mercati e ad una disciplina delle transazioni finanziarie internazionali!).
E neppure perché qualche Bocconiano, avvertendo gli scricchiolii del sistema, aveva suggerito l’applicazione di cerotti sulle sue piaghe più purulente. No, qui parliamo di incultura, di mancanza di conoscenze o di una loro voluta emarginazione. Questi professorini di economia non sono certo tenuti a rileggersi il capitolo XXIX del terzo volume di Das Kapital (Le componenti dei capitali bancari) in cui Karl Marx aveva previsto gli effetti della ipercapitalizzazione del gettito basato su futuri plusvalori, l’accumulazione finanziaria non produttiva in poche mani, la saturazione dei mercati e via dicendo: in altri termini alcune delle cause primarie della crisi in corso. Ma dovrebbero sicuramente rispolverare qualche testo degli studi universitari, ripassare gli ultimi capitoli della “General Theory of Employment Interest and Money” di John Maynard Keynes o magari il “Pieno Impiego in Libero Stato” di Lord Beveridge.
E’ invece mai possibile che la loro Bibbia sia “Atlas Shrugged”, “La rivolta di Atlante”, di Ayn Rand, un romanzo intriso di baggianate economico-finanziarie ultra reazionarie e fascistiche tornato in voga negli Stati Uniti di Bush e di Obama?
E infine: si tratta solo di pessimismo dovuto alla tarda età se ci sembra di avvertire il tonfo ritmato di stivali sull’uscio di casa?
da www.luciomanisco.eu