Ho letto con molto interesse la prefazione al nuovo libro che Roberto Sidoli, Massimo Leoni e Daniele Burgio stanno scrivendo su scienza, tecnica ed effetto di sdoppiamento, lodevolmente riproposta nel nostro sito.
Spero che sia l’occasione per noi per riprendere e sviluppare il dibattito su razionalità, scienza e rapporti sociali, nel quale già altre volte ci siamo cimentati, credo utilmente e con considerazioni interessanti anche se almeno in parte reciprocamente divergenti.
Per parte mia, come chiunque abbia letto gli altri miei interventi su questi argomenti può facilmente immaginare, sono convintamente d’accordo con gran parte delle considerazioni degli autori (qualche accenno particolarmente entusiastico di apprezzamento della conoscenza scientifica potrebbe forse essere frainteso in senso scientistico, specialmente da parte di chi propenda per l’irrazionalismo; se ciò accadrà nella discussione che auspico si riapra nel sito mi riservo di chiarire la mia interpretazione delle tesi di questi compagni in termini di corretta, razionale valutazione dell’oggettivo valore conoscitivo e pratico delle scienze, interpretazione che ritengo sia quella “giusta”, corrispondente al loro pensiero e alle loro intenzioni; se poi intervenissero essi stessi a chiarire e difendere le loro tesi da eventuali obiezioni – oltre naturalmente da quelle che sto personalmente per esporre – credo che ne avremmo tutti quanti da guadagnare in termini di arricchimento culturale e di comprensione del mondo che lottiamo per cambiare.
Ma intanto, evitando inutili e fastidiose ripetizioni di concetti e affermazioni già chiaramente esposti da loro, vorrei ignorare il tanto su cui concordo per muovere alcune obiezioni al poco su cui dissento, sperando così di fare qualcosa di utile e interessante.
Nell’undicesima tesi Sidoli, Leoni e Burgio affermano che “all’inizio del terzo millennio non si è in presenza di un “eccesso” di scienza e di tecnologia, ma invece di un “sottosviluppo” di esse e di un loro livello di sviluppo ancora insufficiente per permettere la creazione del comunismo sviluppato (distinto dal socialismo) su scala mondiale”.
Queste parole mi sembrano chiaramente alludere alla concezione del comunismo esposta da Marx nella critica del programma di Gotha e ribadita da Lenin in Stato e rivoluzione (la concezione del comunismo propria del materialismo storico “classico”, implicante due distinte fasi di sviluppo postrivoluzionario della nuova e superiore formazione sociale comunista; una concezione classica che gli autori mi sembra accolgano pienamente al contrario di altre ugualmente proprie dei fondatori del materialismo storico che invece criticano e propongono di superare dialetticamente, considerando giustamente il materialismo storico stesso un insieme di teorie scientifiche (per quanto del tipo delle scienze umane) e dunque in linea di principio sempre criticabile ed emendabile in seguito alla verifica osservativa-empirica e pratica).
Semplificando selvaggiamente, in una prima fase “socialista”, quale sorge sulla base della preesistente società capitalistica, pur in presenza di mezzi di produzione di proprietà sociale e della pianificazione del loro uso, persisterebbero diseguaglianze nel lavoro e nella relativa retribuzione, rapporti di scambio mercantili dei prodotti del lavoro -non riguardanti ovviamente la forza-lavoro-, privilegi sia pure non classisti, differenze fra dirigenti e diretti per dirla con Gramsci, e il principio della distribuzione del lavoro collettivo e dei suoi prodotti sarebbe “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo il suo lavoro”; in una seconda fase propriamente comunista avanzata, quale si sviluppa sulla sua propria base, ogni differenza sociale verrebbe meno, così come lo stato, ormai progressivamente estintosi nel corso dello sviluppo della fase precedente, nonché la divisione sociale del lavoro, e il lavoro collettivo ed i suoi prodotti sarebbero distribuiti secondo il principio “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.
Vi è chi in ambito marxista (per esempio Domenico Losurdo) ha criticato questa concezione come espressione di una sorta di residuo utopismo anarchicheggiante dal quale, malgrado le loro intenzioni fortissimamente “scientifiche”, i classici del materialismo storico (o “socialismo scientifico”, come anche per l’appunto denominavano il complesso delle loro teorie) non si sarebbero mai completamente liberati.
E’ una convinzione su cui concordo principalmente per due motivi fondamentali.
Uno si sarebbe potuto in teoria obiettare a Marx ed Engels stessi, già nella seconda metà del XIX° secolo, mentre l’altro è divenuto evidente solo nel corso del ‘900, e soprattutto a partire dalla metà del secolo appena trascorso.
Il primo consiste nel fatto che a mio parere perché la produzione sociale “funzioni” correttamente allo scopo di soddisfare il più efficientemente possibile i bisogni individuali e collettivi della popolazione lavoratrice-proprietaria dei mezzi di produzione, un livello anche piuttosto elevato di specialismo è pur sempre necessario, e ciò non può non comportare differenze persistenti ed ineliminabili (anche nella fase “superiore” del comunismo, quale si sviluppa sulla sua propria base) nell’intensità quantitativa e qualitativa del lavoro dei singoli (gravosità e impegno diversi, oltre che necessità di praticare il proprio lavoro più o meno prolungatamente nel corso della giornata e della vita lavorativa per poterlo eseguire con la necessaria perizia e competenza); per esempio, se fossi un membro della società comunista avanzata (sarei fortunato, ma non “beato” in senso religioso: non si tratterebbe comunque certamente del paradiso!) e avessi bisogno di un intervento chirurgico non vorrei certo essere operato da uno che al mattino pratica sport, nel primo pomeriggio coltiva la filosofia, nel tardo pomeriggio fa per l’appunto il chirurgo, e dopo cena compone sinfonie; vorrei essere operato, magari di Domenica se necessario per l’urgenza della mia patologia, da uno che facesse il chirurgo trecentosessantacinque giorni all’anno, sia pure con adeguati riposi settimanali, adeguati “recuperi” per le festività perse, adeguate ferie, un orario di lavoro quanto più possibile ridotto compatibilmente con il mantenimento da parte sua di un’adeguata competenza teorica e abilità manuale.
Il secondo motivo è costituito dalla limitatezza delle risorse naturali, che all’epoca dei classici del materialismo storico poteva ancora essere ignorato: a causa della sproporzione esistente fra la loro entità e la potenza trasformatrice (cioè costruttrice ma anche distruttrice) delle forze produttive umane, le risorse naturali potevano essere considerate “con buona approssimazione” infinite pur non essendo effettivamente tali, bensì finite, esattamente come in ottica pratica (per esempio nella pratica della fotografia) i raggi di luce possono essere considerati “con buona approssimazione” paralleli qualora provenienti da una distanza maggiore di un certo limite, comunque finito (la loro origine può essere considerata essere a distanza infinita allorché supera un certo limite, che è pur sempre finito). Per “risorse naturali” intendo sia materiali e fonti di energia non rinnovabili in ”tempi storici”, sia le condizioni naturali (fisiche, chimiche, ecologiche) necessarie alla conservazione della materia vivente in generale e della vita umana in particolare, che produzioni e consumi umani, per la potenza trasformatrice che hanno ormai raggiunto e per il modo irresponsabile e sconsiderato (irrazionalistico) in cui inevitabilmente vengono sviluppati dai rapporti di produzione capitalistici, tendono ad alterare ed eliminare a velocità superiori a quelle con cui naturalmente si possono ripristinare, così da mettere sempre più a repentaglio la sopravvivenza dell’umanità: malgrado esse siano sempre state finite, e in particolare lo fossero già ai tempi di Marx ed Engels, credo che nessuno allora (nemmeno Malthus) avesse una chiara, corretta consapevolezza del problema, che di fatto non appariva ancora in tutta la sua drammatica evidenza, che “con buona approssimazione” poteva essere ignorato.
Nella tredicesima tesi di questa prefazione al libro che stanno preparando, i compagni Sidoli, Leoni e Burgio, affermando che “l’accumulo continuo, la crescita continua del “lavoro universale” di natura scientifico-tecnologica entra in contraddizione, come processo potenzialmente infinito ed illimitato, con i limiti e le barriere socioproduttive (e politico-sociali) imposte dal sistema capitalistico, come del resto dagli altri sistemi di matrice classista” mi sembrano ignorare questa limitatezza delle risorse naturali effettivamente, realisticamente (e non: fantascientificamente, cioè infondatamente, irrealisticamente) a disposizione dell’umanità.
La conoscenza scientifica, così come ogni altro aspetto teorico della cultura umana, dell’attività umana intellettuale (non solo scientifica ma anche per esempio artistica), cioè in ultima istanza del pensiero umano, può bensì crescere tendenzialmente all’infinito; ma invece non può affatto crescere all’infinito la pratica umana trasformatrice della natura materiale, stante la limitatezza quantitativa di quest’ultima, la finitezza di quella parte della natura materiale che realisticamente, effettivamente è a disposizione delle forze produttive umane.
La contraddizione veramente fondamentale, decisiva ai fini del destino dell’umanità, la contraddizione che sempre più drammaticamente si esaspera nel capitalismo e che richiede sempre più pressantemente il superamento rivoluzionario dei rapporti di produzione privatistici (ai fini della sopravvivenza umana) è, secondo me, quella che intercorre da una parte fra questi rapporti di produzione stessi che, implicando inevitabilmente la concorrenza “anarchica” fra singole imprese di proprietà privata attive individualmente e del tutto indipendentemente le une dalle altre, nella ricerca del massimo profitto possibile a breve termine temporale e a qualsiasi costo sociale ed ambientale, impongono inevitabilmente la crescita tendenzialmente illimitata di produzioni e consumi, e la limitatezza delle risorse naturali dall’altra parte.
Il problema non è costituito a mio parere dai limiti che i rapporti di produzione privatistici imporrebbero alla crescita delle conoscenze scientifiche e delle loro utilizzazioni tecniche, ma al contrario è rappresentato proprio dalla mancanza di limiti che questi rapporti sociali, in particolare nella loro attuale fase capitalistica avanzata, necessariamente impongono alla crescita tendenzialmente infinita di produzioni e consumi in un ambiente naturale finito: limiti che viceversa é oggettivamente indispensabile rispettare, pena l’estinzione “prematura” e “di sua propria mano” dell’umanità.
Per riprendere la tesi fondamentale della teoria dell’effetto di sdoppiamento, credo che oggi siamo ad un tornante della storia umana altrettanto fondamentale e decisivo di quello di undicimila anni fa, cioè dell’avvento del periodo neolitico e dell’era della realizzazione costante di un plusprodotto accumulabile che ha dato luogo all’effetto di sdoppiamento; e tale da chiudere definitivamente (in due ben diversi possibili modi reciprocamente escludentisi) questa lunga fase caratterizzata dalla possibilità di sviluppo alternativo (collettivistico o “rosso”, oppure privatistico o “nero”) dell’umanità: avendo raggiunto le forze produttive una potenza tale da poter determinare effetti dello stesso ordine di grandezza della natura umanamente praticabile, si pone oggettivamente un’alternativa: o la “linea rossa” collettivistica si impone per tempo e produzioni e i consumi umani vengono pianificati razionalmente tenendo conto dei limiti delle risorse naturali e mantenendosi a prudenziale distanza da essi, oppure in un tempo più o meno breve la specie umana si estinguerà insieme a molte altre, e l’ evoluzione biologica proseguirà senza di essa (come è successo altre volte nel corso della storia naturale biologica, da ultimo con la grande estinzione dei dinosauri).
E se questo è vero, come credo sia, allora una società dell’abbondanza materiale illimitata, nella quale a ciascuno verrà dato secondo i suoi (illimitati) bisogni non potrà mai realizzarsi (d’altra parte si tratterebbe di qualche cosa di molto simile al paradiso di molte religioni, certamente vagheggiabile ma mai realizzabile per lo meno in questo mondo che da ateo ritengo sia l’unico reale e che comunque per tutti – anche per chi crede in Dio – è l’unico in cui viviamo e in cui possiamo agire durante la nostra esistenza naturale-materiale o “terrena”).
E dunque contraddizioni e disuguaglianze interindividuali e fra gruppi sociali, e probabilmente anche fra popolazioni distinte su base geografica (sia pure non antagonismi propriamente di classe: “contraddizioni in seno al popolo”, se vogliamo) non verranno mai meno finché esisterà l’umanità, anche nell’ipotesi migliore possibile circa il suo futuro; e conseguentemente non verranno mai meno organi istituzionali atti a regolarle, per quanto assai diversi da quelli propriamente “statali”, cioè deputati a tutelare un potere e dei rapporti di produzione classisti: il paradiso su questa terra non si potrà mai realizzare, mentre potrà invece accadere la “infernale” distruzione dell’umanità, e certamente accadrà se non si supereranno per tempo i rapporti di produzione capitalistici.