Giornalettume: il terrorismo mediatico di «Repubblica»

In questi giorni il sistema mediatico è sotto stress. Si tratta di dare una mano ai governanti dell’Europa nello spaventare i popoli. L’Eurozona è sempre più in crisi e la Grecia voterà (di fatto) sull’uscita dall’euro a metà giugno. Uno scenario considerato fino a poco tempo fa semplicemente come impensabile va invece prendendo forma.

Ma anziché produrre autocritiche e ripensamenti, la stampa mainstream continua a battere sullo stesso chiodo: la fine dell’euro sarebbe un disastro. Un disastro talmente grande, che per renderlo tale il giornalistume in servizio europeo permanente effettivo incorre spesso in cantonate assai pittoresche. E’ questo il caso – divertente quanto significativo – degli asini (naturalmente senza offesa per i simpatici animali) di Repubblica. Di costoro si occupa Alberto Bagnai nell’articolo che segue.

Il ritorno del terrorismo

di Alberto Bagnai (Goofynomics)

Come vedete, l’euro sta creando grandi tensioni sociali e internazionali. Quelle tensioni che la teoria economica, per bocca dei suoi massimi esponenti, aveva puntualmente anticipato. Mi piace ad esempio ricordare qui il più volte citato articolo di Martin Feldstein (“EMU and international conflict”, Foreign Affairs, vol. 76, n. 6, novembre/dicembre 1997), laddove dice testualmente: “invece di favorire l’armonia intra-Europea e la pace globale, è molto più probabile che il passaggio all’unione monetaria e l’integrazione politica che ne conseguirà conduca a un aumento dei conflitti all’interno dell’Europa” (p. 61), e aggiunge “un aspetto cruciale dell’Unione Europea in generale e di quella monetaria in particolare è che i paesi membri non hanno un modo legittimo di ritirarsi… L’esperienza americana, con la secessione del Sud, potrebbe offrire qualche lezione sui pericoli di un trattato o di una costituzione che non offre vie di uscita” (p. 72).

Stiamo parlando di un docente di Harvard, con questa produzione scientifica, che ha diretto il National Bureau of Economic Research (altri dettagli li trovate nel post sulla catastrofe annunciata). Astenersi blogger stralunati, questa è scienza, vi piaccia o no. Se non la capite, rimane tale.

Ciò posto, assistiamo in effetti in questi giorni a una escalation di terrorismo. Attenzione però, non voglio parlarvi del terrorismo al quale forse pensate voi. Sì, come ha dimostrato il mio maestro Francesco Carlucci nel suo lavoro “Un discorso statistico sulla violenza politica in Italia”, Statistica, 50, N.2, 1990, esiste, come è anche facile immaginare, un legame statistico ben preciso fra la violenza politica, il terrorismo, e le fasi del ciclo economico. La gente diventa violenta quando sta male, e forse lo diventa ancora di più se capisce di essere anche stata presa in giro. Un fenomeno che esiste, che i dati rivelano, e che condanniamo incondizionatamente.

Ma questo terrorismo lo lasciamo da parte, volevo parlarvi di un altro terrorismo, più insidioso, del quale dobbiamo essere consapevoli, per non soccombere ad esso. Sarebbe triste, perché possiamo combatterlo facilmente e senza violenza. Di quale terrorismo voglio parlarvi? Vi faccio un esempio.

Un prestigioso (valutate voi) quotidiano nazionale oggi (15 maggio, ndr) titola che “il ritorno alla dracma costerebbe 11000 euro all’anno per ogni europeo“.
Prima di entrare nel merito, cerchiamo di capire di che cifra stiamo parlando. Non è semplice, perché non è semplice capire cosa si intenda per Europa: di Europe oggi ce ne sono tante, tutte fasulle (Unione Europea, Eurozona), tranne una, quella che c’è sempre stata (almeno in tempi storici). Ma supponiamo che trattandosi di euro l’autore dell’articolo, Ettore Livini, intenda riferirsi all’eurozona. Dunque: secondo i World Development Indicators la popolazione dell’eurozona nel 2010 era di 331.675.464 abitanti (diciamo 332 milioni). Se li moltiplichiamo per 11.000 euro, il risultato è 3.648.430.108.771 euro, cioè 3648 miliardi di euro, cioè… cioè, per capirci, una volta e mezzo il Pil della Germania! Per di più “all’anno”, senza specificare per quanti anni…

Ehi, amico!? Ma ti rendi conto di cosa stai dicendo? Salvare la Grecia ci costerebbe una volta e mezzo il Pil della Germania? Ma la Germania è grande più di 10 volte la Grecia, in termini di Pil! Da dove salta fuori ‘sta moltiplicazione per dieci?

Aspetta, te lo dico in un altro modo, per capirci. Se i cittadini dell’eurozona volessero comprarsi l’intera Grecia, questa costerebbe loro un po’ più di 800 euro a testa, da pagarsi in un’unica soluzione. Sì, perché sai, tu sei un giornalista, hai studiato altre cose, ma la Grecia rimane pur sempre un 3% o giù di lì del Pil dell’eurozona. Ma come può venirti in mente che la sua uscita provochi uno sconquasso delle proporzioni che tu dici? Sai, stai parlando di una cosa seria, di una cosa che preoccupa la gente, pensaci, verifica, lo so che vai di fretta (sapessi io), ma ci vorrebbe un po’ di responsabilità…

Ma io lo sapevo da dove veniva quel numero. Lo sapevo anche prima di leggere l’articolo, perché, come vi ho più volte detto, sto organizzando un convegno scientifico dal titolo: “The Euro: manage it or leave it! The economics, social and political costs of crisis exit strategies”. Sono arrivati tanti lavori, di economisti tedeschi, belgi, irlandesi, spagnoli, portoghesi, greci, italiani, polacchi, cechi, insomma, un po’ di tutto, e da organizzatore del convegno devo leggere tutti questi lavori per organizzare le sessioni.

Ora, il lavoro di un collega tedesco molto preparato, Ansgar Belke, si occupa proprio degli scenari di uscita, distinguendo fra uscita di un paese “debole” (come la Grecia) e di un paese “forte” (come la Germania). E leggendolo sono venuto a conoscenza dello studio dell’UBS che Repubblica prende come base della sua incredibile asserzione. Lo studio è qui e potete leggerlo tutti. Cosa dice questo studio? Dice che

“a seceding country would have to expect a cost of EUR9,500 to EUR11,500 per person when seceding from the Euro area.” Cioè:

1) il costo verrebbe sostenuto dal paese che esce (la “seceding country”); e

2) nel primo anno (“when seceding”).

Quindi non dice, come riporta Repubblica: “Italiani e spagnoli, ha calcolato Ubs un anno fa, pagherebbero tra i 9.500 e gli 11.500 euro a testa all’anno per l’addio all’euro di Atene.” No. Quello che UBS dice è che italiani e spagnoli pagherebbero (separatamente) questa somma per il loro eventuale addio all’euro, cioè, rispettivamente per il ritorno alla lira o alla peseta, senza che questo evento coinvolga (o almeno non per un ammontare simile) tutti i cittadini dell’eurozona!

E ancora, ci sono parecchi dettagli da aggiungere.

Il primo è che lo studio UBS in effetti fornisce una stima in termini di Pil: secondo lo studio, la perdita sarebbe fra il 40% e il 50% del Pil per il paese che esce. Ci siamo? Siccome il Pil Italiano è attorno ai 1500 miliardi di euro, e noi siamo circa 60 milioni, a ogni cittadino italiano (non a tutti gli europei), con questa logica, il ritorno alla lira costerebbe fra i 12.500 e i 10.000 euro nel primo anno (con altre “rate” intorno ai 3.000 negli anni immediatamente successivi, ma su questo lo studio non è chiaro).

Con i numeri della Grecia, il costo del ritorno alla dracma sarebbe invece fra i 10.000 e gli 8.000 euro per cittadino greco (non per tutti gli europei). Sono sempre molti, ma non sono 11.000, non sono per tutti i cittadini europei, e sono solo per il primo anno.

La capite, la differenza, no? Quindi chissà perché qualcuno non la capisce…

Poi, c’è un ulteriore dettaglio da aggiungere. Lo studio dichiara che i modelli economici non sono uno strumento utile per effettuare analisi così radicali, e che secondo lui lo scenario più appropriato non sarebbe quello della “rottura” dello SME credibile (la svalutazione del 1992-93, che fu attorno al 20%), ma uno scenario argentino, con svalutazioni attorno al 60%.

Quanto dilettantismo…

Perché, vedete, la logica sottostante alla svalutazione argentina di fine 2001, o a quella italiana di fine 1992, è esattamente identica: cambiano solo i numeri. In entrambi i casi il cambio nominale si svalutò di quanto era necessario per recuperare il differenziale di inflazione cumulato rispetto al paese “core”, secondo il modello economico detto della parità relativa del potere d’acquisto, il quale stabilisce appunto che il cambio nominale tende a “recuperare” quello che il differenziale di inflazione ha fatto perdere al paese “satellite” rispetto al paese “nucleo”.

Vi faccio un esempio.

Nel 1992 l’Italia aveva mantenuto il cambio sostanzialmente fisso rispetto al marco tedesco per i cinque anni precedenti (il cosiddetto Sme credibile). Nello stesso periodo aveva avuto in media 4 punti di inflazione in più della Germania. Siccome 5×4=20, il cambio nominale dovette svalutarsi del 20% per rendere i prodotti italiani nuovamente competitivi (cioè: la valuta si deprezzò più o meno esattamente di quanto si erano complessivamente “apprezzati” i prodotti italiani rispetto a quelli tedeschi, ovvero di circa il 20%, cioè del 4% all’anno per 5 anni. Ai fini matematici e astrofili dilettanti segnalo che sto facendo un calcolo approssimativo e ne sono consapevole: il 4% all’anno per 5 anni non dà il 20% ma il 21.6%). Tutta la storia è raccontata in dettaglio qui, rispondendo a un altro, ben più illustre, terrorista (che, non a caso, è anche uno di quelli che “la moneta si crea col mouse”… Ma dove si compra ‘sto mouse?).

Nel 2001 in Argentina la svalutazione fu ben più importante: toccò addirittura il 200%. Ma un motivo c’era, ed è molto semplice: il differenziale di inflazione cumulato rispetto agli Usa nel decennio durante il quale il cambio col dollaro era stato fisso (un peso=un dollaro) era molto più importante. I dati, tratti dalle International Financial Statistics, sono qui, così come li presento, nella loro verità, ai miei studenti (mi hanno anche rimproverato questo, alcuni stralunati commentatori: non ci crederete, ma in privato mi hanno scritto che devo stare attento a dire la verità sul blog, perché i miei studenti potrebbero leggerlo!):


Eh sì, l’Argentina era entrata nella dollarizzazione con una signora inflazione (172%), che non si era annullata subito, ma dopo cinque anni (trasformandosi in deflazione prima della crisi: vedete, dal 1999 i prezzi stavano diminuendo dell’1% all’anno, il sogno di ogni banchiere centrale…).

Anche qui, a spanna, l’Argentina aveva cumulato 221 punti di inflazione durante la dollarizzazione, e sottraendo i 31 punti cumulati dagli Usa si arriva a 190 punti. La svalutazione del 2001 fu di quell’ordine di grandezza:


Ecco, vedete? Il cambio, e, passò da 1 peso a 3.32 pesos per dollaro: una svalutazione del 232% che però era esagerata rispetto all’assetto dei fondamentali (che implicavano una svalutazione di circa il 190%), e infatti l’anno successivo (nel 2003) il peso si rivalutò (da 3.32 a 2.91 peso per dollaro), portandosi in linea coi fondamentali. I quali, se si chiamano fondamentali, un motivo ci sarà. Che ci possa essere un overshooting nell’aggiustamento del tasso di cambio è cosa nota: Dornbusch ci avrebbe preso il Nobel per avercelo spiegato, se non fosse morto prima. Ma alla fine, placata l’isteria dei mercati, i fondamentali regnano, come la letteratura scientifica più recente ci insegna. E questo si verifica anche perché sappiamo che i mercati credono a certi modelli e li usano per le loro previsioni. Quindi l’economia va dove i modelli dicono che andrà perché chi ha il potere di mercato per condizionarla ce la porta, dato che crede a quei modelli. E questo i professionisti lo sanno e lo dicono. Ripeto: la teoria secondo la quale il cambio nominale tende a “recuperare” il differenziale di inflazione cumulato si chiama teoria della parità relativa dei poteri d’acquisto ed è sostanzialmente verificata dai dati. In ogni caso, è ad essa che fanno riferimento i forecaster ed è su quella formano le loro aspettative, come ci ricordano gli esperti del Fondo Monetario Internazionale.

Già che ci siamo, osservate un’altra cosa. Voi sapete che i nostri amici piddini in questo caso dicono: “ma la svalutazione avrà generato altrettanta inflazione e quindi non ci saranno stati benefici sul commercio e sulla bilancia dei pagamenti”. Ma noi sappiamo già che questo non è mai vero, e siccome non lo è mai, non lo è nemmeno nel caso dell’Argentina. A fronte di una svalutazione del 230%, l’inflazione fu del 26% (25.87%), poi scemò rapidamente (13% l’anno successivo, 4% l’anno ancora dopo), mentre il cambio si stabilizzava attorno a 3 pesos per dollaro. E quindi, siccome i benefici della svalutazione non furono, come non sono mai, annullati dall’inflazione, il saldo estero (CA) migliorò di dieci punti, dal -1% al +9%.

Cosa succederebbe a noi se uscissimo? Semplice: quello che è sempre successo perché i mercati si aspettano che succeda. Dal 1993 al 2010 abbiamo accumulato un differenziale di inflazione di circa 18 punti rispetto alla Germania. La svalutazione che ci attende sarebbe quindi di circa il 20%. Certo, all’inizio ci sarebbero fluttuazioni enormi, magari in un certo quarto d’ora di un certo giorno si potrebbe anche arrivare al 100%. Ma i mercati una lira svalutata del 100% se la comprerebbero subito, perché saprebbero che necessariamente si dovrebbe apprezzare, fino a tornare in linea con i fondamentali. E infatti, se ci fate caso, molti studi, citati via via in questo blog, danno per noi una svalutazione attesa fra il 20% e il 30% in caso di uscita dall’euro.

Sono studi seri, e ora sapete da dove esce quel numero.
Dice: ma UBS spara che la svalutazione sarà il doppio, che arriverà al 60%! E io vi rispondo, per esperienza diretta, che gli studi che queste grandi banche fanno vedere a voi sono molto diversi da quelli che si tengono per loro. E se non credete a me, credete allo studio del Fondo Monetario che ho citato sopra. Ci possono essere mille e un motivo per i quali una grande banca, in un certo giorno, vuole terrorizzare il mercato. Del resto, forse questo vale anche per i giornalisti, no?

Quindi, riassumendo:

1) 11.000 euro a testa per cittadino europeo una bella fava: in realtà, se la Grecia uscisse lo studio UBS dice che i greci (e non gli europei) pagherebbero fra gli 8000 e i 10.000 euro (e questa la dice lunga su come si fa informazione da noi);

2) che poi forse sarebbero quasi la metà, visto che lo scenario “argentino” del quale favoleggia UBS non è supportato dalla teoria della parità relativa dei poteri d’acquisto, che è quella che i mercati usano per fare le previsioni che usano (che non sono quelle che raccontano a voi).

Perché chi fa informazione si comporta con tanta leggerezza (si può dire leggerezza senza offendere nessuno)? Massimo, hai un’opinione? Vuoi chiederlo all’ex-direttore che tu conosci, al nostro editorialista di riferimento? Vuoi chiedere se gli sembra eticamente corretto agire in questo modo in un momento simile? Poi vieni a dirci cosa ti ha risposto, siamo curiosi di saperlo.

Dal canto mio, per una volta voglio astenermi da giudizi, voglio fare il Ponzio Pilato: “Quem vultis dimittam vobis: Livini an Feldstein, qui dicitur Martin?”

I chiodi li porto io.

Attenzione: non sto dicendo che uscire dall’euro sarà una passeggiata. Sto dicendo che c’è chi fornisce cifre assurde, tra l’altro omettendo regolarmente di scontare da queste cifre il costo della permanenza nell’euro. La gente sta morendo, anzi, peggio: si sta ammazzando.

Chi fornisce certe informazioni forse è in buona fede, ma magari, chissà, a modo suo lo sarà stato anche Curcio. Io, purtroppo, da maestrino quale sono devo giudicare dai risultati, alle intenzioni ci pensa Pesce. In questo momento temo sia lievemente imperdonabile fornire un quadro così drammaticamente distorto. Influenzare le aspettative in questo senso non può che concorrere, come ognuno vede, a rendere inutilmente e drammaticamente più pesante il costo di quello che tanto deve succedere. Perché prendersi una responsabilità simile?

Vedremo una smentita?