Euro-crisi – Verso l’ultimo atto

«Che le sinistre (dal Pd al Pcl, passando per Sel, Fiom, Rifondazione, sindacalismo di base, Sinistra critica, Rete dei comunisti, Carc, anarchici, ecc.) vadano, sua sponte, a farsi impiccare in corteo sul patibolo predisposto dalla finanza plutocratica, sarebbe affar loro. La tragedia è che si portano appresso milioni di cittadini. E’ questo che non dev’essere consentito».

Non c’è quasi nessuno, tra i leader della sinistra, che ci prenda sul serio quando diciamo che occorre prepararsi alla fine dell’euro. Fanno spallucce.

Gli spread europei al 30 maggio 2012

La sinistra “keynesiana” senza Keynes

I sinistrati rimuovono questa possibilità e, dato che non hanno la più pallida idea di cosa sia necessario fare in tal caso, intrugliano esorcismi e, in cuor loro, sperano che chi comanda alla fine riuscirà a tenere in piedi la baracca. Così cazzeggiano di eurobond e quantitative easing (immissione sul mercato di ingenti somme di nuova moneta) e, abbandonato Marx e le sue analisi delle crisi, con una superficialità disarmante, si scoprono tutti keynesiani e propongono una politica anticiclica di deficit spending (aumento della spesa e dell’indebitamento pubblici) considerandola una specie di panacea. Il tutto, ben inteso, sì in polemica col monetarismo tedesco, ma pur sempre in nome della difesa di quell’assurdo logico che è la moneta unica. Dio ce ne scampi dal ritorno alla… liretta! Verrebbe da ridere se non ci fosse da piangere.

Ciò che stupisce non è tanto la dabbenaggine dei caporioni di sinistra. Poco avendo capito di Marx, non si può pretendere che abbiano compreso il keynesismo e la sostanza classista e illusoria delle sue terapie. Ma dal momento che si atteggiano a keynesiani dovrebbero almeno accogliere le tesi degli economisti keynesiani che vanno per la maggiore (i Paul Krugman, i Nouriel Rubini, ecc.) che da anni non solo pronosticano la fine dell’euro, ma spiegano che con la moneta unica nessuna politica keynesiana è praticabile, che occorre sovranità monetaria, ovvero che le autorità politiche possano disporre, oltre tutto, della facoltà di emettere moneta.

La domanda da un milione di dollari è quindi la seguente: perché mai intellettuali e dirigenti di sinistra che dicono di essere keynesiani respingono le tesi degli economisti keynesiani secondo cui la moneta unica è condannata a schiattare? Perché mai sono avvinghiati all’eurozombie?

L’abbiamo segnalato altre volte, ripetiamolo. Per due ragioni fondamentali.
La prima è che, avendo essi voltato le spalle a Marx, non afferrano né la natura delle crisi generali del capitalismo, né sono in grado di capire la peculiarità di quella attuale — da ciò appunto ne consegue che non la prendono sul serio e, al fondo, ritengono che se ne verrà fuori senza troppi casini. La seconda è che essi sono prigionieri del paradigma sviluppista per cui “non si può far girare all’indietro la ruota della storia” — il che sottende l’idea che ogni atto o opera compiuti dal capitalismo (in questo caso dell’imperialismo europeo) siano di natura necessariamente progressista ed evolutiva. Tutto il contrario, tanto per capirci, di quel che affermava Lenin, e perfettamente in linea con quel che sosteneva Kautsky ieri e Toni Negri oggi.

Ma non vogliamo ri-fare qui un pistolotto teorico, a poco serve, come s’è visto. Vogliamo invece segnalare ciò che è accaduto negli ultimissimi giorni, proprio per aiutare i nostri lettori, anche i più scettici, a farsi un’idea di come vanno davvero le cose.


(1) La Grecia, l’euro e le convergenze parallele

Il grosso della speculazione finanziaria spera che la Bce e l’Unione europea giungano in soccorso della Grecia ed evitino l’uscita dall’eurozona — malgrado gli strozzini e i banchieri possano portare all’incasso i Cds, le polizze assicurative per proteggersi dall’uscita. In ciò concordano perfettamente non solo con Syriza e le sinistre quasi tutte, ma con Parigi e i governi dei “periferici”.

Strambe convergenze parallele: partiti di sinistra che dicono di rappresentare gli interessi delle classi subalterne che hanno una posizione coincidente a quelle dei biscazzieri del capitalismo-casinò. La posizione della speculazione è fin troppo ovvia: se avviene un “contagio”, se dopo la Grecia si innesca un effetto a catena, se crolla la moneta unica, non ci sono Cds che tengano: verranno polverizzati i valori dei loro investimenti in azioni e titoli. Ma mentre la sinistra si trastulla con l’illusione che la Grecia resterà nell’eurozona, i mercati finanziari danno il ritorno della Grecia alla Dracma per scontato. Passi che le sinistre, nella loro supponenza autocefala, non credano agli economisti keynesiani, ma che esse non diano credito nemmeno ai pescecani della finanza che la sanno lunga, questo ha davvero dell’incredibile.

Cercando la spiegazione del perché sui mercati c’è una corsa a comprare titoli tedeschi malgrado il loro rendimento sia negativo, l’analista scrive:
«La scommessa su un tracollo dell’euro si fa, dunque, sempre più consistente e la stessa valuta è scivolata nel pomeriggio sotto 1,25 sul dollaro dopo il declassamento a “B” della Spagna. Infine sul circuito InTrade (una sorta di bookmaker per professionisti) l’uscita di un Paese dall’euro è data al 40% entro fine anno. L’uscita di una Paese diverso dalla Grecia, s’intende, visto che Atene è già considerata fuori pressoché al 100%». [1]

Voi a chi dareste retta? Ai predatori della finanza che gestiscono montagne di soldi o agli azzeccagarbugli di sinistra?

(2) Gli “strani casi” della Svizzera e degli Usa

A causa della crisi dell’euro il franco svizzero è considerato, da chi ha grandi liquidità e cerca di metterle al riparo dalla svalorizzazione (flight to quality), un bene rifugio. Malgrado le autorità elvetiche abbiamo inchiodato il cambio alla soglia di 1,20 per un euro, accade che il franco si apprezzi, volando verso quota 1 a 1; un disastro per l’export svizzero, in gran parte orientato verso la Ue. A causa delle voci sulla spaccatura nell’eurozona, la qual cosa alimenta enormi flussi verso le banche svizzere, la Bns, la banca di Stato, starebbe addirittura valutando «…la possibilità di frenare esplicitamente l’afflusso di capitali sul franco e/o di stabilire tassi negativi sulla moneta nazionale». (2)

Che il rischio di un collasso dell’eurozona sia incipiente, da differente angolatura, è preso in considerazione dalle stessa Federal Reserve statunitense:

«Via dall’Eurozona. E’ l’imperativo della Fed, che sta chiedendo ai fondi di liquidità Usa di abbandonare l’Europa, liquidando tutti i loro investimenti. In un’intervista al Wall Street Journal, il governatore della Federal Reserve di Philadelphia, Charles Plosser, ha spiegato che “l’Europa è chiaramente vicina alla recessione. E questo avrà un impatto negativo sugli Stati Uniti. In particolare, la vera preoccupazione riguarda una potenziale implosione del sistema finanziario europeo, con un conseguente congelamento del mercato. Ci sono diversi modi perché questo possa accadere. Ed è su queste basi che l’America ha deciso di isolarsi da tale rischio. Così, la Fed e i regolatori stanno invitando i fondi di liquidità a tenersi lontano dalla zona euro e più in particolare a ridurre la loro esposizione alle istituzioni finanziarie europee”». [3]

E’ evidente che la fuga degli investitori americani dall’eurozona contribuisce ad avvicinare l’endgame, l’ultimo atto, un approccio, quello della grande finanza americana, che certamente non fa piacere ad Obama «… che deve fare i conti con la sua rielezione e una crisi dell’euro metterebbe a rischio l’economia americana e il suo bis alla Casa Bianca». [4]

(3) La Spagna sull’orlo del doppio crack

La Spagna ha un Pil che è il doppio di quelli di Grecia, Portogallo e Irlanda messi assieme. Un paese Too big to fail, troppo grande per fallire, poiché se ciò accadesse tutta l’eurozona sarebbe travolta e addio sogni euristi di gloria.
La vicenda Bankia è davvero istruttiva. Nata nel 2010 come fusione tra sette casse di risparmio fallite, e quindi nazionalizzata e stampellata da ingenti aiuti governativi, si ritrova oggi sull’orlo del crack. In verità tutto il sistema bancario spagnolo è in bilico: «Il sistema finanziario spagnolo ha accumulato verso il settore immobiliare un’esposizione stimata in circa 320 miliardi di euro, gli asset tossici dell’immobiliare ancora presenti nei bilanci delle banche spagnole potrebbero causare perdite fino a 260 miliardi nei prossimi anni». [5]
Non solo a nulla è servito il “salvataggio” governativo, per niente risolutivo è stato lo stesso maxi-finanziamento dell’inverno scorso della Bce alle banche iberiche (Ltro).

La conseguenza è che le sofferenze del sistema bancario si ripercuotono automaticamente sul debito sovrano: è in atto un fuggi fuggi dai bonos. La Spagna paga così, proprio in questi giorni, sui titoli a dieci anni, un interesse del 6,7%, prossimo alla soglia critica del 7%, quella oltre la quale sono crollati Grecia, Irlanda e Portogallo.

Chi ci accusa di essere catastrofisti e ritiene che… “tanto alla fine la salveranno con gli eurobond e quantitative easing“, dovrebbe spiegarci perché fino ad ora non è stato fatto (che facendolo adesso i costi sono decisamente più alti di solo alcuni mesi fa).

La ragione è semplice, sta davanti agli occhi di chi vuol vedere: non c’è un’Unione ma una dis-Unione europea. Non solo con l’euro si sono ampliate le distanze tra i paesi, il fatto è che gli Stati-nazione, anzitutto quello tedesco, esistono ancora, e i governi che ne hanno la forza seguono una politica di stretta osservanza degli interessi del proprio capitalismo. Chi ha scambiato la Ue per una brutta copia degli Stati uniti socialisti d’Europa dovrebbe prendere atto che siamo in presenza non solo di fisiologica competizione mercantile; siamo in uno stato d’eccezione, e in questa situazione gli interessi nazionali dei più forti finiscono per prevalere su quelli comunitari. Chi ritiene che alla fin fine la Germania muterà approccio, che vorrà fare cassa comune, che accetterà di mutualizzare il debito pubblico dei periferici Eurobond, accettando di fare da fidejussore dei Piigs, prende, a nostro avviso, una cantonata. Come minimo dovrebbe essere cacciata la Merkel, ma ci sono di mezzo le elezioni tedesche, che non solo si svolgeranno l’anno prossimo (un tempo troppo lungo per evitare il collasso europeo), ma la Merkel non ha alcuna intenzione di perdere chiedendo ai tedeschi di stringere ulteriormente la cinghie per salvare i Piigs.

(4) Il rischio italiano e l’ultima trovata di Draghi

Partiamo dal dato fondamentale. Il nostro paese vive una recessione da diversi anni. Tutte le promesse di ripresa sono andate a ramengo. Se la ricchezza complessiva diminuisce non solo aumentano i rischi di conflitto sociale, è impossibile centrare gli obbiettivi imposti dal Fiscal compact: il pareggio di bilancio e la progressiva riduzione del debito pubblico. E’ facile dunque pronosticare che la cura da cavallo montiana farà fallimento.

Non è che “i mercati” — che sono come i computer, stupidi velocissimi — non sappiano queste cose. Essi danno per scontato che senza ingenti aiuti europei, quindi un radicale cambio dell’approccio tedesco, l’Italia, da sola, non potrà evitare il default sul debito.

L’indicatore infallibile che si è innalzato il livello di rischiosità dell’Italia, è costituito dal sostanziale flop dell’ultima asta di titoli pubblici italiani, quella del 29 maggio. Nemmeno nell’autunno scorso un’asta era andata così male. Pochi acquirenti rispetto alle attese, così che il Tesoro ha dovuto alzare i rendimenti (interessi) pur di collocare i suoi titoli. Il rendimento del nuovo BTp a cinque anni si è attestato al 5,66% (+0,80 punti sull’asta precedente); il Btp (decennale) si è attestato al 6,03%, —spread giunto a 470 punti base. Non meno preoccupante che i Buoni a sei mesi, da un rendimento del 1,77% siano balzati al 2,10%. Bazzecole? Nient’affatto se la stessa Commissione europea ha parlato di “rischio di disintegrazione finanziaria”: «Bruxelles segnala come le attività finanziarie trasfrontaliere e le banche si stiano ritirando entro i confini nazionali. Le banche hanno cominciato a disinvestire gli asset no-core che spesso includono asset non Ue». [6]

In poche parole una conferma che il temuto “contagio” ha iniziato il suo corso. Così la Commissione, a conferma che di Eurobond, data l’opposizione tedesca, non se ne parla, ha tirato fuori dal cappello l’ultima trovata: «… per spezzare il legame perverso crisi bancarie-debito sovrano occorre procedere subito verso una “unione bancaria”, un sistema europeo di garanzie dei depositi per ricapitalizzare le banche». [7]

La Commissione aveva da poco avanzato la sua proposta che Mario Draghi, intervenendo al Parlamento europeo, l’ha perorata con forza: occorre «una unione bancaria fra i paesi europei dell’eurozona basata su tre pilastri: un sistema di garanzia europea dei depositi, un fondo europeo di risoluzione per i fallimenti bancari e una più forte centralizzazione della vigilanza bancaria a livello Ue». [8]

Che giudizio dare di questul’ultima trovata? Altro che bazooka! Essa non è altro che una variante per far funzionare l’Esm (Meccanismo europeo di stabilizzazione) dopo il fallimento dell’Efsf. Per dirla tutta il fatto che le supreme autorità tecnocratiche l’abbiano escogitata dimostra tre cose: la prima è che esse per prime temono devastanti crack bancari a catena (con le immaginabili conseguenze sui debiti sovrani); la seconda, repetita juvant, che lo sbarramento tedesco agli Eurobond e ad una politica di deficit spending è insormontabile; la terza è che lo stesso intervento in tre mosse della Bce (tra cui l’acquisto diretto da parte di quest’ultima di titoli di stato) non è affatto scontato. [9]

La crisi sta precipitando. Il Summit dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea del 28-29 giugno (preceduto dalle elezioni greche del 17 e dal Vertice a quattro (Germania-Francia-Italia-Spagna) del 22 giugno, sarà la prova del nove. Noi prevediamo che la Merkel terrà duro sulle questioni essenziali. Al massimo verranno adottate nuove pidocchiose misure tampone che non fermeranno la corsa verso il precipizio.


(5) Lo scenario da incubo degli Eurobond

La corsa verso il precipizio potrà essere quanto meno fortemente rallentata, non invertita, beninteso, se questo cruciale Summit adotterà almeno due misure radicali. Quali? Ripetiamolo: la mutualizzazione dei debiti con l’emissione di titoli di stato europei o Eurobond e il semaforo verde alla Bce affinché segua le orme della Fed americana (Quantative easing).

Noi scommettiamo che il Summit del 28-29 giugno non adotterà questa due misure bazooka. Il grosso delle sinistre europee invece, terrorizzate all’idea del crollo dell’eurozona, tutto hanno scommesso sul fatto che l’eurocrazia le adotterà e che l’euro sarà finalmente salvo. Vedremo chi avrà avuto ragione.

Ammettiamo per un attimo che noi si abbia torto, e che i nostri critici abbiano ragione, ovvero che la Merkel, al Summit, faccia una svolta di 90 gradi. Sorgono due domande: (a) sarebbe davvero sventato il collasso dell’eurozona? (b) Sarebbero accettabili, dal punto di vista del popolo lavoratore, le conseguenze?
«Gli union bond (o Eurobond) sarebbero l’equivalente dei Treasuries americani, ovvero veri e propri titoli di Stato europei garantiti da tutti gli Stati dell’Eurozona e da un’unione fiscale e politica totale e da un budget federale europeo. I tempi di attuazione degli union bond, che difficilmente avrebbero il rating “AAA” stando agli esperti della materia, sono però lunghissimi, equivalenti all’adozione di un nuovo Trattato, con modifiche costituzionali nei singoli Paesi, perdita violenta della sovranità nazionale nell’adozione delle politiche fiscali e rischio elevato di azzardo morale [leggi speculazione, Nda]». [10]

Alla prima domanda si deve dunque rispondere come segue: ammesso e non concesso che la Germania accetti di adottare nuovi Trattati “keynesiani”, i tempi necessari sono troppo lunghi, mentre quelli della disintegrazione finanziaria dell’eurozona, sono incalzanti, sono tempi corti.

Ma la seconda domanda è quella decisiva. Cosa avrebbe da guadagnare il popolo lavoratore (tutti i popoli europei) dalla «perdita violenta della sovranità nazionale» perorata e richiesta dalla grande finanza predatoria? Evidentemente le sinistre europee, schiave del totem europeista, questa domanda non se la sono posta. E ciò è gravissimo. Poiché la risposta è inequivocabile: le masse lavoratrici avrebbero tutto da perdere dalla nascita di una unione statuale federativa europea, prolungamento rafforzato di quella oligarchica attuale. Se i lavoratori già oggi hanno poche possibilità di incidere sulle politiche dei loro governi, figuratevi domani. Scomparsa ogni traccia di sovranità nazionale (involucro di quella popolare), tutti i poteri decisionali concentrati nelle mani di una autocrazia tecnocratica, non ne avrebbero più nessuna. Sarebbe una dittatura imperiale di tipo fascista.

«Il futuro della zona euro passa da una cessione di sovranità dalla periferia al centro. (…) La Germania non accetterà [nemmeno, Nda] di garantire i depositi bancari dei suoi vicini o di mutualizzare parzialmente i debiti pubblici dei suoi vicini senza che autorità sovranazionali possano intervenire sulle politiche nazionali». [11]

Sbaglia chi vede la posizione tedesca come opposta a quella della grande finanza globale! Entrambi premono affinché si compia il salto verso un super-Stato europeo a guida tedesca. Entrambi considerano stati e barriere nazionali ostacoli al loro proprio libero dispiegarsi. La grande finanza predatoria, per sua natura, ritiene l’ordinamento imperiale il più confacente al suo inveramento. In questa luce si comprende quanto affermato dal Governatore della banca d’Italia Ignazio Visco, in occasione delle sue considerazioni il 31 maggio. [12]

Che le sinistre (dal Pd ai Carc, passando per Sel, Fiom, Rifondazione, sindacalismo di base, Sinistra critica, Rete dei comunisti, Pcl, anarchici ecc.) vadano, sua sponte, a farsi impiccare in corteo sul patibolo per esse predisposto dalla finanza plutocratica, sarebbe affar loro. La tragedia è che si portano appresso milioni di cittadini. E’ questo che non dev’essere consentito.

Note

[1] Walter Riolfi, Il Sole 24 Ore del 30 maggio 2012
[2] Lino Terlizzo, Il Sole 24 Ore del 29 maggio 2012
[3] TuttoFondi del 29 maggio 2012
[4] Loris Palmerini, Il Sole 24 Ore del 1 giugno
[5] Luca Veronese, Il Sole 24 Ore del 31 maggio 2012
[6] Il Sole 24 Ore del 30 maggio 2012
[7] Ibidem
[8] Il Sole 24 Ore del 31 maggio 2012
[9] «Insomma: l’Unione va verso la disgregazione e l’euro verso la fine. Prima del crollo, tuttavia, l’eurocrazia ha a disposizione un’ultima chance. Quale? la Bce potrebbe dare avvio ad una terza misura di tamponamento in tre mosse: portare i tassi di interesse a zero, una terza operazione di finanziamento delle banche (Ltro, Long Term Refinancing Operation), e addirittura acquistare, questa volta direttamente in asta, ingenti quantità di titoli di Stato. Anche questo dipende dalla luce verde tedesca. Staremo a vedere, di sicuro queste misure devono essere adottate in settimane, non in mesi». In: Disunione europea, SollevAzione, 26 maggio 2012
[10] Isabella Bufacchi, Il Sole 24 Ore del 30 maggio 2012
«L’azzardo morale è presente anche in macroeconomia, laddove gli operatori economici possono sentirsi incentivati ad intraprendere comportamenti eccessivamente rischiosi, qualora essi possano preventivare una significativa probabilità che i costi associati ad un eventuale esito negativo ricadano sulla collettività, o su altri operatori o categorie di operatori. Ad esempio, una politica di intervento delle autorità per salvare imprese a rischio di fallimento potrebbe indurre gli operatori a finanziare progetti eccessivamente rischiosi, nell’ottica di realizzare i benefici in caso di successo e di affidarsi all’intervento dello stato in caso contrario».
[11] L’euro si salva se gli Stati cederanno altra sovranità. Beda Romano, Il Sole 24 Ore del 31 maggio 2012
[12] Europa, serve una federazione di Stati. Celestina Dominitelli, Il Sole 24 Ore del 1 giugno 2012