Giulio Bonali risponde a Roberto Sidoli, Daniele Burgio e Massimo Leoni sulla questione della limitatezza delle risorse naturali

Cari compagni, proseguo la discussione sulla questione della limitatezza o meno delle risorse naturali di fatto disponibili all’ umanità, e conseguentemente dello sviluppo quantitativo delle forze produttive, esponendo alcune obiezioni al vostro precedente intervento nella discussione su “Microsoft o Linux?” (che auspicherei si allargasse ad altri compagni).

Per prima cosa credo si debba distinguere fra infinità del conoscere (o illimitatezza del pensiero umano) e finitezza del fare (o limitatezza dell’agire umano di fatto possibile).

Sono certamente convinto che la civiltà umana potrà indefinitamente progredire qualitativamente, nel rispetto dei necessari, ineludibili limiti quantitativi nella produzione di beni (oggetti materiali e servizi) dotati di valore d’uso, fino alla estinzione naturale della nostre specie (comunque inevitabile, anche se remotissima nel tempo), purché si superino i rapporti di produzione capitalistici attualmente dominanti prima che essi determinino l’estinzione “prematura e di sua propria mano” dell’uomo (e di molte altre specie poiché questo credo sia il bivio attualmente di fronte all’umanità stessa); e purché inoltre si imponga per tempo un’adeguata coscienza diffusa di tali limiti delle risorse naturali e della necessità di usarne in maniera oculatamente programmata e calcolata con la dovuta prudenza, cioè in maniera pienamente razionale (ulteriore condizione, pure necessaria per la sopravvivenza umana, che non è certo sarà rispettata; sopravvivenza umana per la quale la realizzazione del comunismo ritengo che non possa essere considerata una condizione sufficiente – di per sé – ma solo necessaria).

Ma per l’appunto ciò che potrà crescere indefinitamente sarà la componente qualitativa delle produzioni e consumi, la varietà (comunque entro certi limiti) dei manufatti, e soprattutto la produzione culturale o “di pensiero” (conoscenze, arti) e non la quantità di “cose” (oggetti materiali) costruiti o più in generale di trasformazioni materiali compiute.

Probabilmente ci sono ancora margini di crescita per l’utilizzo di parte delle materie prime e fonti energetiche non rinnovabili (ma non ne sarei troppo sicuro; e comunque ritengo necessario un’approssimazione prudenziale – cioè “pessimistica” – nel necessario calcolo – inevitabilmente gravato da un “residuo insuperabile di imprecisione ed incertezza” – della loro disponibilità); e tuttavia mi sembra una regola generale inderogabile quella per la quale un suo incremento non può che essere “asintotico”, tendendo al massimo ad avvicinarsi progressivamente ad un limite comunque non superabile, rappresentato dalla loro quantità – finita! – esistente sulla terra ed eventualmente al massimo (a voler essere molto ottimisti!) nelle sue “immediate vicinanze”; limite comunque ovviamente non superabile (e in realtà nemmeno raggiungibile: la “perfezione”, che lo consentirebbe, può esistere solo nel pensiero ma non nella realtà).

E le stesse energie “rinnovabili” (ma non senza effetti entropici nel loro concreto utilizzo; di tutte indiscriminatamente!), tutte di origine più o meno direttamente geologica o solare sono di entità finita (in quanto flusso nell’unità di tempo, che si può ovviamente prolungare – ma con una massima intensità istantanea finita e non superabile – fintanto che geologia e astronomia lo consentano: anche la durata del sistema solare ha un termine cronologico insuperabile, così come l’intensità della sua radiazione elettromagnetica istantanea; e senza dimenticare il secondo principio della termodinamica che consente di utilizzarne di fatto solo una parte molto limitata; e che inoltre implica inevitabilmente una crescita dell’energia termica terrestre diffusa e inutilizzabile e in generale dell’ entropia, biologicamente dannosa, anche in seguito al loro impiego: contrariamente ai vaneggiamenti di molti apologeti del capitalismo e dello scientismo, non esiste e non potrà mai esistere alcuna “energia integralmente, perfettamente pulita”, oltre che “illimitata”, come caso particolare della regola generale secondo cui non esiste la perfezione!).

Voi affermate ripetutamente e con forza il concetto dell’indefinito sviluppo, accumulo e miglioramento delle conoscenza scientifiche e tecniche e del “lavoro universale” che non sarebbero soggetti a logorio o deterioramento: “Il lavoro universale non possiede pertanto solo la “magia” di svilupparsi e di accumularsi via via nel tempo, ma anche quella di non deteriorarsi (anzi, il contrario) durante il suo processo sociale di utilizzo, mentale e pratico-produttivo”.

In realtà credo sia necessario distinguere fra conoscenze teoriche o “mentali” (non solo scientifiche pure, ma anche tecniche) e lavoro pratico-produttivo “materiale” (nel quale le conoscenze vengono praticamente applicate): per le prime (a parte possibili considerazioni puramente teoriche astratte ma praticamente trascurabili circa l’inevitabile deterioramento entropico nella trasmissione delle informazioni) sono d’accordo circa la possibilità di crescita illimitata e la scarsa deteriorabilità (scarsa ma non assoluta: vi furono conoscenze della scienza e della tecnica ellenistica che andarono perdute nel medio evo; per non parlare della filosofia e delle arti antiche); invece per quel che riguarda il secondo non credo si possa ignorare il fatto che i materiali grezzi, le materie prime alle quali si applica (e dunque inevitabilmente i risultati quantitativi, le produzioni che se ne possono ricavare, i valori d’uso che se ne possono ottenere) sono passibili solo di una crescita limitata e asintotica, che potrà indefinitamente avvicinarsi ma mai raggiungere un tetto invalicabile, per quanto difficilmente calcolabile, costituito dalla loro entità reale nel tratto dell’universo materiale che è umanamente praticabile (realisticamente).

E’ ben vero che esistono altri pianeti oltre alla Terra e altri sistemi stellari con pianeti oltre a quello del sole, ma a distanze tali e con caratteristiche fisiche tali che l’energia necessaria per raggiungerli e sfruttarne le risorse (energia di cui sarebbe necessario disporre sulla terra, dalla quale sarebbe ovviamente inevitabile partire) è incomparabilmente maggiore di quella disponibile, secondo qualunque calcolo ipotizzabile, anche il più ottimistico, purché dotato di un minimo di realismo (senza contare che un atteggiamento razionale e prudente imporrebbe di attenersi ai calcoli più pessimistici, data l’enormità di ciò che si rischierebbe di perdere nel caso quelli più ottimistici si rivelassero errati: molto meglio accorgersi che si sarebbe potuto fare un sorpasso che si è evitato, piuttosto che accorgersi che il sorpasso che si sta facendo è impossibile e uno scontro frontale inevitabile! E a differenza di questa metafora del sorpasso, qui si rischierebbe non la vita nostra propria di singoli uomini ma la sopravvivenza dell’umanità intera!).

Il pensiero (umano) non ha limiti, ma non così la materia (di fatto, realisticamente) disponibile all’uomo: essa è inesorabilmente limitata, di entità finita.

Dunque il possibile (a determinate condizioni delle quali non v’é certezza!) progresso indefinito della civiltà umana non potrà mai portare alla società dell’abbondanza illimitata di beni materiali (ma casomai di conquiste culturali) vagheggiata dai classici del materialismo storico (“a ciascuno secondo i suoi bisogni”).

Questo mi sembra vero in generale, in astratto.

Ma voi proponete alcuni interessanti esempi di potenzialità di crescita quantitativa di produzioni e consumi, che però mi sembra che questo dato di fatto generale della limitatezza di ogni possibile trasformazione materiale non possano comunque eludere.

Delle energie rinnovabili ho già detto: l’enorme, spettacolare – ma finito! – incremento in corso del loro impiego non può essere confuso con un’impossibile crescita infinita.

Questo lo si tende a credere sempre all’inizio dell’impiego industriale di ogni nuova risorsa naturale: anche il carbone nel XVIII° secolo e il petrolio nel XIX°, dato che appena si cominciava ad utilizzarli in proporzioni infime rispetto alle quantità disponibili, sembravano praticamente inesauribili (e le conseguenze del loro uso, a cominciare dall’incremento dell’anidride carbonica dell’atmosfera con tutte le sue conseguenze climatiche e geologiche, sembravano praticamente irrilevanti); ora siamo nei pressi del picco dell’estrazione del secondo e probabilmente oltre quello del primo (e gli effetti “collaterali” e “indesiderati” del loro uso sono drammaticamente sotto gli occhi di tutti; anzi: lo sono soltanto i primi, relativamente modesti di questi effetti).

Lo stesso vale a maggior ragione per la fusione nucleare, che definite “una fonte quasi inesauribile”: lo sembra allo spesso modo in cui all’inizio del loro impiego potevano apparire (e di fatto apparvero a quasi tutti) “quasi inesauribili” il carbone e il petrolio (e potrebbe apparire quasi inesauribile ogni e qualunque nuova fonte di energia o materia prima all’inizio del suo utilizzo).

Fra l’altro non mi sembra proprio che gli investimenti operati in questo settore possano essere definiti “quasi ridicoli”, in particolare nel mondo capitalistico, anche se come sempre qui vengono accollati in misura strabordantemente preponderante agli stati (cioè alla società, attraverso il fisco) e non certo ai capitali privati (sono ridicoli, come in molti altri campi, gli investimenti privati, non certo quelli pubblici, a spese della collettività lavoratrice!).

L’acqua necessaria per la fusione nucleare sembra “quasi inesauribile” (e l’elio che produrrebbe un problema “irrilevante”, così come quello dell’inevitabile dispersione di calore a bassa temperatura), ora che non si è nemmeno iniziato a usarla, esattamente come sembravano inesauribile il carbone all’inizio della prima rivoluzione industriale e il petrolio all’inizio della seconda (e “irrilevante” la conseguente produzione di anidride carbonica): la storia dovrebbe averci insegnato qualcosa, innanzitutto l’assoluta necessità di evitare di correre il rischio di ritrovarci fra qualche secolo con oceani drammaticamente ridimensionati e quantità mostruose e dannosissime di elio in atmosfera e di calore sulla terra (chi avrebbe immaginato la fine della disponibilità di carbone e di petrolio e l’effetto serra all’inizio del loro impiego industriale, allorché sembravano a tutti rispettivamente “quasi inesauribili” e “praticamente irrilevante”?).

Tutto questo anche senza considerare l’ottimismo ridicolmente sfrenato, con gli strampalati pronostici, tipicamente americani, in termini di decenni che già venivano fatti – in America – quarant’anni fa, all’epoca del glorioso Tokamak sovietico (dal quale ben poco si è progredito), e stando ai quali oggi dovremmo godere già per lo meno da qualche lustro dell’energia nucleare di fusione.

E comunque se e quando mai si riuscisse ad ottenere energia utilizzabile per scopi civili dalla fusione nucleare non si dovrebbe mai dimenticare che non sarà affatto una fonte illimitata e che produrrà inevitabilmente anch’essa (come ogni e qualsiasi tecnica, quale più, quale meno) effetti “collaterali” negativi da prevedere e calcolare per quanto possibile e da valutare con la dovuta prudenza, stante l’inevitabile, cospicua approssimazione e il mai completamente eliminabile margine di incertezza di questi calcoli (metafora del sorpasso!); e soprattutto che le produzioni umane complessive alle quali essa non poco potrebbe eventualmente contribuire non possono essere illimitate, che già ora lo sfruttamento complessivo delle risorse naturali e la pressione negativa delle produzioni e consumi umani sulle caratteristiche fisico-chimiche e biologiche della terra, tendente a renderle incompatibili con la sopravvivenza della specie umana (e ancor più di molte altre) ha raggiunto livelli quasi catastrofici anche a breve termine cronologico; che per sopravvivere come specie dobbiamo ineluttabilmente porci fin da ora il problema di ridimensionare sia il nostro numero di individui umani presenti nel mondo sia il nostro “impatto ambientale pro capite” (sia pure medio; e a tutt’oggi iniquissimamente distribuito): cosa oggettivamente non compatibile con la persistenza di rapporti di produzione capitalistici, ma compatibilissima con un ulteriore indefinito sviluppo della civiltà umana, purché fondato su basi e con caratteristiche profondamente diverse da quelle che vi hanno prevalso dalla svolta rivoluzionaria del neolitico in poi e caratterizzate da un incremento qualitativo illimitato del pensiero e della cultura (e di un’ autentico benessere di massa) ma da una rigorosa autolimitazione e in qualche misura anche da una vera e propria “inversione di senso”, da un ridimensionamento (complessivo; oltre che da una profonda ridistribuzione) dell’entità quantitativa di produzioni e consumi materiali; e necessariamente implicanti il predominio di rapporti di produzione collettivistici.

Ribadisco il concetto che il pensiero è illimitato, la materia – quella di fatto a nostra disposizione; ovvero la nostra “potenza trasformatrice” – no: il destino di Icaro ci attende inesorabilmente se la nostra hybris prometeica ci indurrà a persistere nell’attuale irrazionalistissimo delirio di onnipotenza tipicamente capitalistico, magari nella forma di un altro mito antico, sia pure solo per pochi privilegiati, quello di re Mida.

Concludo dunque ribadendo la necessità di essere pienamente consapevoli che le risorse materiali sono limitate, che la perfezione in natura non esiste, che si potrà forse realizzare il comunismo (è la massima aspirazione che – nel mio piccolo! – sento dentro di me), ma certamente non il paradiso in Terra; che dolore e morte possono si essere combattuti ma non mai evitati, secondo il grande insegnamento del “marxismo leopardiano” di Sebastiano Timpanaro, che ho avuto la fortuna di conoscere epistolarmente nei suoi ultimi anni e che considero un maestro di conoscenza e di vita, fra l’altro anche da voi ripetutamente citato (con grande mia soddisfazione, che non vi nascondo).