Incontro fra i protagonisti del movimento di solidarietà con la Palestina

Il sostegno alla lotta di liberazione palestinese è sempre stato proprio del Campo antimperialista. Pertanto il Campo di quest’anno, programmato ad Assisi dal 23 al 26 agosto, vedrà il seguente dibattito sul futuro del movimento di solidarietà con la Palestina:
Palestina: l’impatto della rivolta araba, la soluzione dell’unico stato democratico e il movimento di solidarietà.

Interverranno (venerdì 24 agosto, ore 10)
Zaher Birawi, attivista della Palestina Islamica, Londra
Attia Rajab, del Comitato per la Palestina di Stoccarda
Yoav Bar, promotore della Conferenza di Haifa per un Unico Stato Democratico in Palestina
Leo Gabriel, membro del consiglio internazionale del Forum Sociale Mondiale (FSM)

Gli ultimi anni hanno visto un cambiamento decisivo nel globale movimento di solidarietà, che ha riconosciuto sia il protagonismo della resistenza popolare che l’impossibilità di un compromesso con il sionismo.

Negli anni ’90 il mainstream del movimento di solidarietà fondava tutte le sue speranze sugli accordi di Oslo gestiti dal partito Fatah. Era l’epoca della più profonda depressione dei movimenti globali di liberazione contro l’imperialismo e il capitalismo. Da ultimo, si è perfino osato dichiarare la fine della storia. Ma il sionismo non è saltato sul carro post-moderno del globalismo clintoniano, che sosteneva di superare il nazionalismo come uno spettro del passato. Al contrario, il sionismo non ha mai avuto l’intenzione di rispettare gli accordi di Oslo, a dispetto del fatto che ciò avrebbe fornito una notevole legittimità politica al suo tentativo coloniale. Invece ha sempre avuto l’intenzione di annientare tutti gli arabi palestinesi come nazione per conquistare tutta la Palestina.

Tuttavia molte forze significative del movimento di solidarietà con la Palestina si sono attaccate alla posizione di Oslo per tutto il decennio della guerra al terrore di Bush. Nel frattempo Stati Uniti e Occidente hanno continuato a sostenere il sionismo, comprese le sue mosse sempre più estremiste.
Per il tradizionale movimento antiglobalizzazione e la sua ala filo palestinese, questo era solo un gioco, come al famoso guru Toni Negri è capitato di chiamarlo. Essi hanno rifiutato di sostenere i movimenti popolari di resistenza contro le elites imperialiste, nuovamente risorte. Questi movimenti sono stati ritenuti indesiderabili, specialmente quando erano armati o di ispirazione islamica, figuriamoci in entrambi i casi! Essi contro la resistenza irachena hanno considerato Obama come “L’America buona”, secondo una mentalità che comunemente chiamiamo Obamania.

Obama ha assunto una linea più appropriata per l’impero americano, visti i limiti dettati dagli attuali rapporti di forza. In una certa misura si è ritirato, ma la guerra al terrore è continuata sia pure con una minore carica ideologica. Anche la campagna islamofobica, messa in moto in Occidente dai Neo–Cons, è continuata: essa è ormai guidata da un’alleanza di quasi tutti i partiti e non ha più bisogno dei suoi originari promotori Neo-Cons.

Un evento decisivo per scuotere questo sogno della classe media liberale occidentale è stata la vittoria elettorale di Hamas, che essi, che hanno dichiarato di aver attaccato l’Iraq per portare la democrazia, hanno semplicemente rifiutato di accettare. Invece i vincitori democratici sono stati bombardati ed assediati con il blocco genocida contro Gaza.

Tale estremo doppio standard ha suscitato la protesta. Anche le componenti del mainstream del movimento filo palestinese hanno iniziato a capire che non basta solo opporsi alle guerre e combattere l’embargo, ma bisogna rompere l’isolamento politico imposto al movimento popolare di resistenza e al rappresentante eletto del popolo palestinese, cioè Hamas. Molti hanno iniziato a comprendere la trappola politica dell’islamofobia.

Il Campo antimperialista è stato in prima linea in questa lotta. Il movimento internazionale contro l’assedio di Gaza e le conseguenti flottiglie sono state emblematiche del più ampio cambiamento di mentalità nel movimento di solidarietà. Coloro che erano ancora attestati sulla linea degli accordi di Oslo hanno dovuto seguire l’esempio per non perdere anche gli ultimi residui di credibilità.

Dopo più di due decenni di manifesto fallimento, la posizione di Oslo è ormai del tutto logorata. Sarebbe comunque un errore ritenere che sia morta, poiché è la posizione ufficiale dell’imperialismo occidentale per coprire il suo incondizionato sostegno al sionismo.

In queste condizioni politiche, il progetto della Marcia Globale di Gerusalemme (GMJ) è arrivato al momento giusto. Esso è nato in Asia, ha ottenuto il sostegno di una serie di forze significative in Medio Oriente e in Palestina ed è arrivato in Europa e nel mondo. La Marcia è stata un successo perché ha superato il protagonismo europeo e ha cercato di costruire un ponte fra le forze di sinistra e quelle islamiche. La piattaforma politica era apertamente antisionista, senza presa di posizione esplicita sulla questione di Oslo. Purtroppo è stata turbata dalla rivolta siriana. In generale le organizzazioni palestinesi consolidate hanno avuta la tendenza al compromesso con i regimi arabi oggi contestati dalle masse popolari.

Un unico stato democratico in Palestina

Allora, quale è l’alternativa alla soluzione dei due stati del modello Oslo? Già negli anni ’60 la Carta Nazionale Palestinese conveniva su un modello di uno stato democratico palestinese, composto da musulmani, cristiani ed ebrei. Questo modello fu ispirato dai movimenti di liberazione contro il colonialismo in tutto il mondo, i quali non cercarono di cacciare i coloni bianchi ma offrirono loro di far parte delle nuove società democratiche e indipendenti, alla sola condizione che essi rompessero i loro legami organici con il colonialismo. L’esempio sudafricano è divenuto emblematico.

La sconfitta del movimento di liberazione in generale, al culmine nel periodo 1989 – 1991, ha generato un mainstream che va dal compromesso alla totale capitolazione. Per la Palestina ciò si è tradotto nell’accordo di Oslo. Ma, a differenza di altri punti cruciali di conflitto, i vincitori, cioè il sionismo, non hanno accettato neppure il minimo compromesso.

Così la resistenza palestinese non ha ceduto e ha manifestato un forte segno di vita con la seconda Intifada, scoppiata nel 2000. Allora sono state le organizzazioni islamiche a rappresentare la corrente principale del movimento di resistenza.

A livello di solidarietà internazionale, poche forze hanno assunto la posizione antisionista favorevole ad un unico stato democratico, comprensivo del diritto al ritorno degli espulsi; fra queste il Campo antimperialista e i suoi predecessori. Con la seconda Intifada e lo scontato fallimento di Oslo, l’idea ha iniziato a circolare di nuovo. Da allora ha guadagnato terreno e sono state organizzate varie iniziative. Fra queste, il Campo antimperialista è stato particolarmente coinvolto in due: la Conferenza di Haifa guidata da Abna el Balad nei Territori Palestinesi occupati nel 1948 oggi sotto il governo israeliano, e la conferenza di Stoccarda, diretta dal locale comitato per la Palestina. Sappiamo poi che ci sono state altre apprezzabili iniziative. Occorre che queste iniziative confluiscano in un movimento globale.

Restano comunque una serie di problemi politici e di sfide da affrontare, come ad esempio la denominazione nazionale dello stato democratico palestinese o i rapporti con i movimenti islamici della resistenza, che originariamente si pronunciavano per uno stato islamico ma che progressivamente hanno ammorbidito questo concetto. (Alcuni di essi cadranno durante la primavera araba?)

Siamo convinti che l’attuale movimento arabo popolare e democratico darà una grande spinta al movimento per lo stato democratico. Non è solo la pretesa di Israele di essere l’unica democrazia in un Medio Oriente ridotto in macerie, una pretesa che era una bugia già prima, dato che si trattava di una democrazia di tipo schiavista. Ma dato che il popolo arabo si sbarazza dei suoi dittatori, perché i palestinesi si debbono fermare? Perché vengono continuamente costretti non solo ad accettare il colonialismo sionista, ma anche a subire un embargo genocida solo per aver espresso democraticamente la loro volontà collettiva?

L’ideologia sionista e imperialista

Non dobbiamo dimenticare che il movimento per lo stato unico ha anche il compito di decostruire e annientare la narrazione sionista dominante in occidente. Secondo tale dogma, elevato a dottrina di  stato, il sionismo è legittimo a causa dell’Olocausto. Punto e basta. Il destino degli arabi non conta. Al massimo potrebbero ottenere uno staterello accanto ad un ben più grande Israele. Ma anche questa promessa è in realtà aria fritta.

Il paradigma dei due stati non solo recepisce pienamente questa visione sionista, ma è addirittura organicamente fondato su di essa, perché legittima lo stato esclusivamente ebraico e l’espulsione dei residenti autoctoni arabi. Pertanto non può sradicare la base ideologica del sionismo.

In realtà bisogna spezzare il ferreo legame  fra il genocidio degli ebrei europei e la legittimità di uno stato coloniale esclusivamente ebraico. L’imperialismo liberale sostiene di essere l’agente storico della democrazia universale. Allora perché questo non vale per i palestinesi? Questa evidente e spaventosa contraddizione ha scosso la gente anche in occidente e solleva proteste, nonostante la dittatura mediatica del dogma sionista. L’eccessiva tendenza a bollare qualunque critica al sionismo come antisemitismo sarà controproducente. C’è una maggioranza che non accetta questa palese menzogna.

In un certo senso la narrazione sionista è un fondamento della corrente di giustificazione ideologica dell’imperialismo in generale: l’Occidente è una vittima che esercita una mera autodifesa. Dato che ha espiato i suoi precedenti peccati (rappresentati dall’Olocausto) e ha abbracciato la democrazia universale, è nel pieno diritto di combattere i nemici della democrazia (rappresentati dal movimento di resistenza palestinese che minaccia un nuovo Olocausto).

La campagna per lo stato unico è un colpo al cuore per questa autocompiacente, aggressiva ed antidemocratica ideologia imperialista travestita da democratica, condivisa dal sionismo e dal mainstream occidentale liberale.


Traduzione di Maria Grazia Ardizzone