Dedicato alla «sinistra» che ama Vendola, ma non vorrebbe comtaminarsi con Casini. E che non ha ancora capito che l’inciucio dovrà andare ben oltre.

Lo confesso: certi lamenti usciti, sul web e non solo, sulla «svolta» di Vendola (abbandono di Di Pietro ed abbraccio con Casini) mi hanno fatto tornare in mente i «militonti», una figura assai in voga dalla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso. Ma è stato solo un attimo: coloro che amano la retorica del parolaio pugliese, ma la vorrebbero disgiunta dall’alleanzismo subalterno con le forze che sostengono il governo Monti, o sono solo tonti (ce ne sono), o più probabilmente sono invece dei finti tonti.

Il finto tonto è un furbastro che sa come vanno le cose del mondo, ma non ama riconoscerle appieno, né a se stesso né agli altri. Il finto tonto è dunque cento volte peggio del tonto vero, non fosse altro per la sua congenita disonestà intellettuale.

Il finto tonto non ha proprio niente a che fare con la figura del «militonto», un termine spregiativo, coniato trentacinque anni fa dalla «sinistra» fricchettona e americaneggiante, per la quale il militante – specie se proletario e comunista – era semplicemente un tonto che continuava a credere ad una prospettiva (la rivoluzione, il socialismo, eccetera) ormai cancellata dalla storia.

Agli occhi di costoro – gentaglia che scambiava la trasformazione sociale con il diritto alle droghe libere e a farsi i fatti propri fregandosene di tutto il resto – il sottoscritto è stato certamente un «militonto» nel senso di cui sopra. Ma il «militonto» era almeno un militante, e già questo posiziona questa figura a qualche anno luce di distanza dai vendoliani di ogni ordine e grado.

Il termine «militonto» ha però assunto anche un altro significato, quello riferibile al militante di una formazione di sinistra (comunista ma non solo) che ha continuato a credere alle frasi scarlatte (di un leader o di un documento politico), quando ormai era evidente anche ai ciechi che quelle frasi niente avevano a che fare con la linea politica effettiva del partito di appartenenza. Guardando agli anni più recenti, ogni riferimento al bertinottismo non è per niente casuale. Ecco perché, considerato anche che il vendolismo da lì proviene, ci è tornata in mente per un attimo la penosa figura del «militonto».

Avrete capito che se Vendola ci è insopportabile, coloro che lo seguono credendolo non-si-sa-bene-che-cosa, lo sono ancor di più. Il perché è presto detto: il vendolismo ha una sua precisa matrice culturale e una sua chiara linea politica, ed oggi entrambe rendono pressoché obbligato sia il patto con Bersani, sia quello via Pd con Casini. Chi non lo capisce è bene che smetta di occuparsi di politica, anziché versare lacrime del tutto inutili. Questo per l’oggi, che il domani riserverà probabilmente ben altre «sorprese».

Il vendolismo nasce infatti da un preciso filone politico-culturale, che in Italia (paese del trasformismo per eccellenza) ha una lunga tradizione:  quella dei «comunisti anticomunisti». Questa tradizione ha raggiunto il suo culmine, pratico e teorico, in due personaggi, diversi ma paralleli, finiti entrambi a fare i segretari delle due forze politiche derivate dal Pci nel 1991. Stiamo ovviamente parlando del duo Veltroni-Bertinotti, espliciti nel loro anticomunismo nonostante il loro ruolo di dirigenti di formazioni sedicenti comuniste (il primo nel vecchio Pci, il secondo come segretario e lider maximo del Prc).

Ora, per non dilungarci troppo su queste radici del vendolismo, basti ricordare l’atto di nascita di Sel (la formazione del padre-padrone pugliese). Esso ha luogo al congresso di Rifondazione Comunista di Chianciano Terme (estate 2008), ed ha al centro tre pilastri: 1) la prosecuzione del tentativo dell’Arcobaleno, implicante la diluizione (meglio dire la cancellazione) progressiva di ogni elemento antagonista e di classe; 2) la ricollocazione strategica in un centrosinistra da cui si era stati da poco espulsi; 3) la riconquista (anche grazie a quel che consegue dai due punti precedenti) della presenza parlamentare.

Per Vendola, e per i suoi seguaci (parlare di partito in senso proprio sarebbe un po’ troppo), conta lo schieramento, non la politica concreta dell’azionista di riferimento della coalizione. Se la cosa poteva essere un po’ occultata ai tempi di Berlusconi, oggi con un Pd ultras del montismo non è più possibile nascondere la verità. E questo provoca qualche mal di pancia, ma vedrete che verrà riassorbito in nome dell’antiberlusconismo.

Eh già, perché quel comodo spauracchio mica è morto. E se per caso morisse se ne inventerebbero un altro alla svelta. E visto che la rappresentazione della realtà, ad uso e consumo dei gonzi che devono dargli il voto, è sempre quella, come condannare l’alleanza – per quanto «sofferta» e solo «post-elettorale» con Casini? In fondo, se il nemico è sempre e solo il Cavaliere, o più genericamente la destra, non è forse necessario un patto con l’Udc?

Sissignori, se quella è la prospettiva, è necessario. Ma bisogna dire la verità: esso è necessario, ma probabilmente non sarà sufficiente. I delicati palati trasmigrati dai salotti bertinottiani a quelli vendoliani sono avvertiti: bisognerà quasi certamente andare un po’ oltre il semplice aiutante di Forlani, il quale in fondo è pronto ad adattarsi a tutto, perché il Quirinale può tranquillamente valere un matrimonio gay. L’importante è che non si tocchino gli imperativi economici e sociali, nonché la politica estera, ma su questo Nichi Vendola dice forse qualcosa?

Ecco, si occupassero di questo – della sostanza delle cose -, i malpancisti meriterebbero forse un minimo di rispetto. Ma no, si preoccupano di Casini, come se esprimesse una politica davvero diversa da quella del Pd. Qualcuno ha addirittura riscoperto il «non vogliamo morire democristiani». Non scherziamo: magari avessimo la vecchia Dc costretta a tanti compromessi dai rapporti di forza di un’epoca che fu. Oggi abbiamo solo dei finti partiti, guidati da finti dirigenti appesi ai fili dei padroni della finanza. E il centrosinistra non sarà mai il «Polo della speranza», come pretenderebbe Vendola, ma quello delle banche, dei tecnici alla Fornero e alla Di Paola, quello che osanna Draghi e le oligarchie europee. Questo è il punto, ben più che la faccia un po’ melensa del leader dell’improbabile mini-Dc del duemila.   

Ma chi ce l’ha detto che bisognerà andare un po’ oltre Casini? Semplice, signori: la calcolatrice. Secondo l’insospettabile Repubblica – la citiamo non perché necessario ma proprio perché insospettabile – l’alleanza Pd-Sel-Udc varrebbe ad oggi il 40% dei voti. Ne dubitiamo, ma prendiamo per buono il dato. Ora, il 40% è ben al di sotto del fatidico 50%+1, perché dunque tanto entusiasmo in casa Repubblica?

Certo, costoro ragionano in base al premio di maggioranza – o quello attuale del Porcellum, o quello futuro (e più probabile) del super-Porcellum – ma si può governare l’Italia, con le pesantissime misure che verranno imposte dai sacerdoti dell’euro, con il 40% dei voti? Evidentemente no. Ed allora non è difficile immaginarsi un ulteriore allargamento al Pdl, od almeno ad una parte di esso.

Sì, signori dai palati fini, è proprio così. Certo, ci sono molte variabili, ma in fondo riducibili a due.

Nella prima si vota con l’attuale legge elettorale, il centrosinistra (Pd, Sel, «lista dei sindaci» o qualche trovata del genere) vince, ma per governare deve allargare la maggioranza all’Udc e ad almeno una parte (quella più montista ed europeista) dell’attuale Pdl. In teoria potrebbe esistere una variante, quella della semplice riproposizione dell’attuale maggioranza ABC. Ma come potrebbe Vendola sganciarsi da Bersani dopo essere andati insieme alle elezioni?

Nella seconda si vota con il super-Porcellum (più o meno il cosiddetto ispano-tedesco), il Pd vince, ma da solo non può governare, e si forma di nuovo (per salvare il Paese, ci mancherebbe!) una maggioranza identica all’attuale. Bene, diranno i malpancisti vendoliani, in questo modo rientriamo in parlamento, ma non al governo e così riprendiamo a «sognare»! Eh no, non è così semplice «sognare»!

Di nuovo ci vuole la calcolatrice. Con il super-Porcellum il premio di maggioranza se lo aggiudica il partito non più la coalizione, ma il Pd da solo è così sicuro di farcela? Ahimè, per Bersani si intende, così sicuro non è. Ecco allora che dalle parti di Sel l’ipotesi di una confluenza diretta nelle liste del Pd, oggi ovviamente esclusa, prenderebbe certamente quota, come lasciano intendere anche alcune cronache del Manifesto.

Insomma, comunque la si rigiri il ruolo del parolaio pugliese è segnato. In un modo o nell’altro, sarà solo la ruota di scorta dell’asse dell’euro destinato a continuare il montismo, con il massacro sociale che ne consegue.

Non abbiamo mai creduto ad una rottura di Vendola con il Pd, mentre semmai dobbiamo ammettere che il suo voltafaccia nei confronti dell’amico Tonino è stato davvero più fulminante del previsto. E non abbiamo mai creduto che il Pd potesse rinunciare alla copertura a «sinistra» offerta a buon mercato dal leader di Sel.

I conti dunque tornano. Gli torneranno anche nelle urne? Ci auguriamo di no. Lasciamo però da parte le piroette del governatore, dalle mezze smentite – «Nessuna apertura all’Udc», la Repubblica 1 agosto – agli appelli demenziali – «Il liberismo è il diavolo, Casini convertiti o tra di noi non si fa nulla», la Repubblica 4 agosto – e consideriamo solo i dati di fatto. Quei dati di fatto che soltanto i finti tonti del vendolismo possono (fingere di) non vedere.