Più volte abbiamo usato, per descrivere la situazione in cui entrammo con la chiusura del ciclo offensivo (che possiamo individuare nel biennio 2005-2007) quella di un vascello che, nella sua traversata, fosse bloccato dalla bonaccia. Senza il vento in poppa avevamo solo due scelte: o remare, per procedere molto lentamente al costo di dure fatiche, oppure accettare di stare fermi.

Scegliemmo la prima via, ma le nostre fatiche sembrarono quelle di Sisifo. Il disincanto e il pessimismo soverchianti presero il sopravvento, anche tra noi. Servivano forze fresche per dare il cambio ai soliti rematori, che non giunsero. Per quanto minoritari e con idee diverse, eravamo pur sempre della stessa pasta di coloro i quali erano stato protagonisti delle imponenti mobilitazioni contro le guerre imperiali e l’attacco liberista ai diritti sociali. Eravamo pur sempre una particella di quella grande ondata anti-sistemica che attraversava il mondo, dal Nepal al Venezuela, passando per l’Europa, e che aveva nelle resistenze irachena, palestinese e libanese la sua punta di diamante.

Resistevamo indebolendoci, malgrado la vittoria della Resistenza libanese su Israele, nonostante l’eroica resistenza di Gaza. Cessammo così di organizzare il tradizionale Campo di Assisi, evento che ci costava un enorme dispendio di energie, energie che non avevamo più a sufficienza. Passammo ad una formula più modesta, quella degli incontri estivi sull’Isola Polvese, che si combinava con le missioni estive di volontariato antimperialista. Resistevamo ma indebolendoci.

Poi sono sopraggiunti due fatti che fanno da spartiacque: il 15 settembre 2008, la bancarotta della principale banca d’affari nordamericana, la Lehman Brothers e, nel dicembre 2010 l’innesco in Tunisia della sollevazione dei popoli arabi. Due fatti di cui mettemmo subito a fuoco la straordinaria importanza, fatti che hanno scombussolato la situazione e che ci obbligarono a rimodulare posizioni e posizionamento.

Non tutti fummo d’accordo che la crisi finanziaria esplosa negli Stati Uniti era il sintomo di una crisi storico-sistemica, l’inizio di una crisi di carattere epocale. E non tutti furono d’accordo con le conclusioni politiche che ne traemmo in occasione della nostra X. Conferenza nazionale del dicembre 2009. La Risoluzione, tra l’altro recitava:

«Ma che vuol dire in sostanza “prepararci” [alla mutata situazione, Nda]? Vuol dire in prima battuta che non possiamo più limitarci ad una pratica antimperialista che guarda all’esterno, che dobbiamo passare ad una pratica strategica rivolta anche all’interno. Che dobbiamo invertire l’ordine dei fattori: per un decennio abbiamo subordinato l’esterno all’interno, ora dobbiamo fare il contrario. La pratica antimperialista va incorporata in una pratica rivoluzionaria più complessiva. In termini strategici dobbiamo riarticolare la divisione nei tre fronti non come divisione rigida e pietrificata, ma flessibile e liquida. La catastrofe imminente al centro abbatte le paratie tra i tre fronti, cosicché nel primo (e per primo abbiamo inteso quello a decisiva conflittualità strategica) potrebbero venire e trovarcisi paesi fino a ieri stabili o a bassa conflittualità strategica».

Non senza contrasti, abbiamo quindi aggiustato la direzione di marcia, focalizzandoci sulla crisi, per comprenderla, capirne le conseguenze e indicare un’alternativa e, quel che più conta, compiendo i primi passi nella costruzione di un nuovo soggetto politico rivoluzionario, partecipando attivamente ai primi tentativi di agglutinazione di forze nuove che superassero sindacalismo e movimentismo, mettendo al centro l’uscita dall’euro e dall’Unione europea. Si trattava di conficcare nel perimetro tradizionale della sinistra anticapitalista, una forza politica che fosse al contempo sovranista e proletaria. Un’operazione che noi sapevamo difficilissima, ma di rilevanza strategica. Dopo l’iniziale solitudine giunsero i primi frutti, i quali non ci fecero mai abbandonare lo sguardo verso le Resistenze e il Medio oriente.

Siamo dunque al secondo evento spartiacque, la sollevazione popolare e democratica iniziata in Tunisia. Scrivevamo nell’aprile 2011, poco dopo la caduta di Ben Alì e Mubarak:

«Le rivolte sociali e politiche nel Maghreb, in Egitto e in Medio Oriente ci confortano nel pensare che iniziano a cadere le paratie tra i “Tre fronti”, che l’onda d’urto si va pur faticosamente propagando, che quanto accade nel “Primo fronte” è destinato a riverberarsi sugli altri due. Con questa peculiarità: che il Mediterraneo è quel luogo nevralgico dove il “Primo” entra a diretto contatto col “Terzo”, dove la spinta antimperialista può incunearsi se non proprio demolire le barriere difensive erette dall’Impero».

Come tutti gli eventi sociali e politici di grande rilevanza essi non sono mai univoci, fanno emergere forze potenti che fino ad allora agivano nel sottosuolo. Le “Primavere arabe”, ancor più della crisi sistemica occidentale, produsse tra noi accese discussioni che sfociarono poi in fratture. Anche tra noi c’è stato chi, in base all’esito della rivolta libica e poi di quella siriana, è giunto alla conclusione che le sollevazioni erano in buona sostanza “rivoluzioni colorate”, frutto di una presunta saldatura tra gli Stati Uniti e il mondo islamico sunnita, precisamente con la Fratellanza musulmana. Molti nostri amici ci hanno lasciato ritenendo inaccettabile considerare legittime le rivendicazioni e le rivolte popolari in Libia e in Siria. Il geopoliticismo real-politico prese il sopravvento, i grandi movimenti di massa, le istanze popolari più profonde, sbeffeggiate, considerate come plastilina tra le mani di cinici demiurghi, la battaglia decisa solo dalle potenze e dai loro capi.

E’ in questo contesto che, già nel dicembre 2011, decidemmo di ritornare ad Assisi, organizzando un Campo che, sulla scia della linea politica generale, desse voce ai protagonisti delle rivolte arabe e a quelle in Grecia e in Italia.

Sapevamo che la sfida era quasi impossibile. E non perché non avessimo la capacità di invitare quei protagonisti, no. Occorreva piuttosto vincere il pessimismo, liberarsi dal senso di impotenza. Mesi di duro lavoro preparatorio. Alla fine ce l’abbiamo fatta. Il bilancio non è tutto rose e fiori. La partecipazione non è stata massiccia. Ma è stata sufficiente a fare da cornice ad un sostanziale successo. Un successo politico anzitutto, ma anche organizzativo, e ciò non solo secondo noi, ma secondo tutti quelli che hanno vissuto il Campo di Assisi.

Un successo perché? Penso per tre ragioni.
La prima è che il Campo, oltre ad aver dato la parola ai protagonisti delle rivolte arabe, ha permesso un reale dialogo tra di esse, anche le più dissonanti e, per quanto concerne la Siria, dato una spinta al dialogo tra i settori antimperialisti dell’opposizione e quelli che sono incorporati nell’area politica del regime. Per quanto ne sappiamo quello di Assisi è stato l’unico luogo al mondo in cui ciò sia avvenuto, e ciò ci rende fieri. Fermare la guerra civile e la fitna tra sette religiose è imperativo, a patto di andare incontro alle istanze popolari e respingere ogni intromissione dell’imperialismo e delle sue satrapie regionali.

La seconda, e ciò grazie alla presenza di una nutrita delegazione greca, è che si cercherà adesso di procedere per mettere in stretto contatto le forze politiche e sociali ribelli, greche e italiane, con uno sguardo alla Spagna. Ciò nella prospettiva di costruire un vero e proprio coordinamento dei paesi dell’Unione vittime della crisi dell’eurozona e dove procede più speditamente il massacro sociale. E questo con uno sguardo alle forze amiche nella sponda sud del Mediterraneo.

Il terzo infine. La giornata della domenica, dedicata alla situazione italiana e organizzata dal Mpl, quella forse più emozionante, ha fatto toccare con mano, anche agli increduli, quanta strada si sia fatta nell’ultimo anno e mezzo, che non consiste solo in analisi lucide e posizioni lungimiranti, ma in relazioni politiche e umane fraterne con alcuni dei protagonisti della resistenza sociale nel nostro paese.

L’albero buono, disse il Cristo, non può che dare buoni frutti. Essi verranno.