In molti si scrutano pensosi il naso chiedendosi chi ci sia realmente dietro alla pellicola anti islamica. Chi c’è davvero dietro a tal Sam Bacile, il produttore israelo-americano del lungometraggio dello scandalo? C’è il Mossad? C’è la Cia? C’è Romney? C’è la Spectra? C’è Pincopallo?

C’è, sotto i nostri occhi, una potentissima ondata di proteste islamiste, una mobilitazione che ha attraversato tutto il mondo islamico, dal Marocco all’Indonesia. Ci pare più importante interrogarsi sul suo significato e le sue implicazioni, piuttosto che elucubrare su un piano del discorso sul quale, al massimo, si possono fare solo illazioni e astratte speculazioni.

L’uccisione a Bengasi dell’ambasciatore in Libia Chris Stevens è certo uno smacco pesante per gli Stati Uniti (e per i loro alleati NATO). Se la cosa fosse finita lì si sarebbe parlato di uno dei tanti attacchi terroristici, più o meno made al-Qaeda, che ad intermittenza colpiscono gli americani. Ma la cosa non è per niente finita lì. E’ la fiammata d’indignazione, quindi le sue enormi dimensioni, che debbono preoccupare gli Stati Uniti e la Casa Bianca.

E perché? Perché sanciscono il totale fallimento della nuova politica statunitense nel Vicino oriente, quella che venne inaugurata da Obama nel suo famoso discorso all’università del Cairo [http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/esteri/obama-presidenza-8/discorso-italiano/discorso-italiano.html] il 3 giugno 2009. Chi può dimenticare la zelante apologia dei media occidentali (e mondiali) sul “nuovo corso obamiano”? Si trattava in verità di una rimodulazione della medesima politica imperiale di Bush, una rimodulazione che faceva perno tuttavia su una apertura di credito al mondo islamico, ferma restando, appunto, la strategia di fondo. Una rimodulazione che faceva perno sulla pretesa di separare l’Islam moderato da quello jihadista e radicale, con un’inedita apertura di credito a quell’internazionale islamica che va sotto il nome di Fratellanza musulmana.

Ecco cosa muore in questi giorni coi funerali in pompa magma dell’ambasciatore e sotto le macerie delle ambasciate assaltate in diversi paesi: muore la pretesa americana di addomesticare l’Islam politico e di afferrarlo nella sua sfera d’influenza. Chi non vuole riconoscere questo scacco, prima ha parlato di sparuti gruppi terroristici qaedisti dietro alle proteste, poi, viste le dimensioni di massa della fiammata antiamericana e antimperialista, ha inalberato il solito spauracchio del salafismo. Una maniera di cavarsela, furbesca e consolatoria.

Bisogna avere delle fette di prosciutto sugli occhi per negare l’evidenza, l’evidenza di una rivolta di massa, che ha coinvolto la gioventù diseredata delle grandi metropoli arabe e non solo. Una rivolta che ha fatto saltare le paratie immaginarie tra jihadismo salafita (i cattivi), da una parte, e dall’altra l’Islam buono, dialogante con l’Occidente imperialista. Per le grandi masse oppresse evidentemente non valgono i confini divisori e aleatori tracciati dai politicanti. Che la rivolta sia scoppiata al Cairo, prima ancora che a Bengasi; che sia scoppiata proprio l’11 settembre, nell’anniversario della più grande umiliazione che gli Usa abbiano mai subito, dopo la sconfitta in Vietnam, e che abbia visto nuovamente Piazza Tahrir come epicentro, simbolicamante e politicamente, ha una straordinaria importanza. In Egitto, non meno che in Siria, si giocano infatti i destini del mondo arabo e islamico.

Chi andava farneticando (disvelando una sorda islamofobia) che oramai si era aperta una nuova fase, segnata dall’alleanza strategica tra gli Usa e l’islam sunnita; chi era giunto a screditare le “primavere arabe” (a causa della caduta di Gheddafi prima e della guerra civile in Siria poi) addirittura come “rivoluzioni colorate” e “regime change” a stelle e striscie ha oggi molto materiale su cui riflettere e per fare autocritica.

La fiammata di questi giorni è come una cartina di tornasole che ci aiuta a capire la reale natura delle sollevazioni arabe iniziate in Tunisia nel dicembre 2010. Le attuali proteste sono figlie legittime delle rivolte che hanno scombussolato l’intero medio oriente e ne confermano il segno antimperialista. Non sono solo gli Stati uniti che vengono messi sotto attacco. Bersaglio delle proteste di questi giorni sono le forze “islamiche moderate”, sia quelle manovrate da sauditi ed emiri del Golfo, sia quelle vicine alla Turchia di Erdogan. Questi pensavano di potere cavalcare la tigre delle sollevazioni per poi ricondurle nell’alveo che essi avevano predisposto di concerto con la Casa Bianca. Questo disegno è saltato, affossato. Tenteranno nuovamente, i nuovi regimi, di riportare l’ordine, di ripristinare gli equilibri, ma essi saranno fragili, condannati a perire. Non si governa contro le masse, a prescindere dalle masse, imbrogliando le masse. La fiamma che si è accesa nell’inverno 2010-2011 in Tunisia ed Egitto è accesa e potrà divampare in ogni momento, almeno fino a quando nel Vicino oriente non sarà risolta la questione palestinese, e fino a quando la maggioranza del popolo dovrà subire condizioni di miseria, corruzione, vessazione da parte di ristrette oligarchie.

I media americani parlano di una inattesa rivincita del jihadismo. Non hanno torto. Trucidato il corpo di Osama Bin Laden, il suo fantasma aleggia più che mai se, come è evidente, il messaggio principale del jihadismo “colpire anzitutto la bestia imperialista americana” è passato, da idea di piccole sette militariste a pratica di masse sterminate. C’è, in questa consapevolezza generale, non solo l’odio sordo per l’impero a stelle e strisce, c’è intelligenza politica, la consapevolezza che non solo Israele ma le stesse satrapie arabe crollerebbero se dietro non avessero, appunto, il sostegno dell’Impero. Quello va dunque colpito, è a quello che non va data tregua.

Ci sia consentita infine una digressione sulla Siria, ovvero come la fiammata dei giorni scorsi impatta sulla guerra civile. I circoli guerrafondai occidentali (in primis i francesi) ci penseranno non due ma tre volte, adesso, a proseguire sull’idea di un intervento esterno. Rovescerebbero Assad e il “regime alawita”, ma si troverebbero con uno scenario libico alla decima potenza, ovvero alle prese con una situazione ingovernabile. Come mostra la Libia, Impero e Nato hanno fatto loro … la guerra per il Re di Prussia. Hanno tolto di mezzo un autocrate oramai sostanzialmente addomesticato per trovarsi alle prese con l’anarchia militare e una resistenza islamista più forte che mai. I sionisti avevano messo in guardia gli americani e gli europei: “State attenti che rischiate di aprire il vaso di Pandora, che al potere potrebbero andare forze ancor più ostili”. E avevano ragione.

Coloro che da mesi ce la menano sul fatto che i ribelli siriani, salafiti in testa, non sarebbero che fantocci dell’Occidente, che se prendessero il potere in Siria questo paeese diventerebbe una provincia dell’Impero, dovrebbero ricredersi, cambiare registro, raccontarci un’altra storia. Se ne saranno capaci. Di certo delle vicende siriane e mediorientali non c’hanno capito un’acca. Quella in coso in Siria, purtroppo, è un fitna, una resa dei conti in seno all’islam tra sunnismo e shiismo. Che gli imperialisti tentino di ficcarci il naso è indubbio, le probabilità che ottengano i risultati sperati quasi nulle.

A Tripoli del Libano ne abbiamo avuto una prova. La città da cui passano flussi di armi e appoggi ai sunniti siriani, la città segnata da scontri sanguinosi tra le comunità sunnite e alawite, tra filo Assad e anti, è stata quella più toccata dalla fiammata antiamericana di questi giorni. Proprio i sunniti anti-Assad sono stati quelli che hanno preso d’assalto e fatto a pezzi tutti i simboli, commerciali e politici, americani e occidentali. Questo non si spiegherebbe se i gruppi radicali sunniti fossero davvero, come si vuole far credere, manovrati dalla potente famiglia Hariri.

Nella riprovevole fitna, nella contesta tra sunniti e shiiti, ce n’è un’altra, tutta interna al sunnismo, tra i gruppi radicali, integralisti ma antimperialisti (l’antimperialismo, repetita juvant, non ha per forza un segno univoco), e quelli al servizio delle satrapie arabe e dei notabili capitalisti locali. Ognuno combatte, in una guerra di movimento dagli esiti imprevedibili, la sua propria battaglia, per i suoi propri scopi. E ognuno, compreso il regime di Assad, cerca di accattivarsi, se non le simpatie, almeno l’avallo di questa o quella grande potenza. Che gli imperialisti tentino di metterci lo zampino è addirittura ovvio, ma che essi siano demiurghi che tirano tutti i fili, è una patetica ed evidentissima idiozia. La sollevazione antiamericana di questi giorni, se non fa dormire sonni tranquilli ad Assad, di certo è un incubo per quei circoli imperialisti che pensano all’intervento. Meglio di così….