Un aspetto meno noto dell’occupazione sionista

Grazie a un accordo bilaterale squilibrato, le aziende farmaceutiche israeliane e multinazionali vendono i loro prodotti sul mercato palestinese e ne traggono lauti profitti senza pagare alcun prezzo per l’occupazione e i danni da essa procurati.

Uno studio recente dal titolo “Captive Economy – The Pharmaceutical Industry and the Israeli Occupation”[1], descrive la complicità delle industrie farmaceutiche israeliane e multinazionali in un sistema perverso e rivela alcuni dei meccanismi con cui l’occupazione israeliana del territorio palestinese permette lo sfruttamento del suo mercato interno, in presenza di una fiorente industria locale che tuttavia stenta ad affermarsi. Per la stragrande maggioranza della popolazione palestinese questa situazione genera un aumento dei prezzi particolarmente preoccupante alla luce del fatto che la condizione economica del territorio palestinese occupato continua rapidamente a deteriorare.


Il Protocollo di Parigi e il “pacchetto doganale”

Il Protocollo di Parigi (PP)[2] costituisce una parte rilevante degli accordi di Oslo che hanno visto la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) ed è il documento più significativo per comprendere alcuni dei meccanismi economici che hanno luogo nel contesto di una prolungata occupazione. Il PP regola i rapporti economici tra Israele e l’ANP e, almeno sulla carta, affida a quest’ultima “tutti i poteri e responsabilità in materia d’importazione, di politica e di procedure doganali” su determinati beni e limitatamente a determinati quantitativi. Il governo israeliano, tuttavia, ha pieni poteri su “tutto il resto”, ossia sulla stragrande maggioranza dei prodotti. Il modo in cui le relazioni economiche tra il TPO (Territori palestinesi occupati, ndr) e Israele sono state stabilite nel Protocollo di Parigi ha significato che i palestinesi continuano a dipendere, per l’importazione e l’esportazione di merci, dalle politiche, dalle leggi doganali e dai servizi israeliani[3].

L’unificazione formale delle due economie riguardante il settore import-export, il cosiddetto “Pacchetto Doganale”, ha fatto sì che il libero flusso di merci e persone è stato a senso unico, da Israele verso il TPO, mentre il movimento di persone provenienti dal TPO in Israele è stato limitato in nome della sicurezza e in seguito interrotto quasi completamente dopo lo scoppio della Seconda Intifada nel 2000. Anche il movimento delle merci verso Israele è stato sottoposto a restrizioni, sempre nel nome della sicurezza, spesso oscurando la reale natura economica di tali restrizioni. In effetti, “motivi di sicurezza” hanno autorizzato e legittimato la richiesta israeliana di un controllo sulla circolazione delle merci, e delle persone, da e verso il TPO, rafforzando nello stesso tempo la condizione di “prigionia” del mercato israelo-palestinese per i prodotti israeliani. Dal 2000 al 2008, infatti, la dipendenza palestinese dall’economia israeliana è aumentata del 52%, passando dal 29% del suo reddito nazionale lordo nel 2000 al 44% nel 2008. Allo stesso tempo, l’importazione da Israele nel TPO ha raggiunto circa l’80% del totale delle importazioni di quell’anno[4].


Implicazioni per l’industria farmaceutica

Il “Pacchetto Doganale” ha avuto importanti ripercussioni sul mercato farmaceutico palestinese. Da un lato, questo sistema ha assicurato l’esenzione doganale per i produttori israeliani e i titolari di licenze estere nel mercato palestinese, impedendo così lo sviluppo del settore locale. Dall’altro lato, ha fatto si che le politiche e gli standard di importazione dei medicinali del TPO hanno dovuto praticamente adeguarsi a quelli di Israele.

Il “Pacchetto Doganale”, inoltre, ha fatto aumentare i prezzi dei farmaci, poiché il TPO è stato collocato nella stessa “price zone” di Israele, ossia in una delle aree geografiche in cui viene suddiviso il mercato mondiale dalle aziende multinazionali. A queste “price zones” le multinazionali applicano una politica di prezzi differenziati in base al diverso status socio-economico e alla capacità di acquisto sul mercato. Questa politica, chiamata appunto di “discriminazione dei prezzi”, non tiene conto evidentemente della situazione del TPO. Ne consegue che i prezzi dei farmaci per gli acquirenti del TPO sono fissati in base ai prezzi che vigono in Israele, il quale a sua volta appartiene alla stessa categoria dei mercati ad alto reddito dei paesi dell’UE. Questa situazione è chiaramente assai problematica alla luce del fatto che parametri economici come PIL e reddito medio del TPO sono notevolmente sotto a quelli d’Europa e di Israele[5].

Come risultato del Protocollo di Parigi, inoltre, i farmaci venduti nel TPO, con l’eccezione di quelli fabbricati in loco, devono essere approvati in Israele. Al contrario, nonostante il carattere bilaterale del Pacchetto Doganale, i prodotti farmaceutici palestinesi non possono essere registrati in Israele per “motivi di sicurezza”. La “libera circolazione” delle merci, quindi, è unilaterale, da Israele al TPO, e gli standard sono fissati secondo gli interessi di Israele.

Il fatto che l’importazione di farmaci in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza sia consentita soltanto per i medicinali registrati in Israele implica che tutto il mercato arabo (tranne rari casi) è inaccessibile alla popolazione e all’industria farmaceutica palestinese. Il mercato palestinese non è quindi in grado di mantenere relazioni di importazione o di esportazione con i suoi mercati più vicini e naturali. Altri importanti prodotti farmaceutici cui è negato l’accesso nel TPO sono i farmaci generici a basso prezzo prodotti in gran parte in India, Cina e negli Stati della ex Unione Sovietica. Tale esclusione deriva dal fatto che i farmaci registrati in Israele sono principalmente importati dall’UE, Nord America e Australia.

Il caso della Striscia di Gaza
, sottoposta a un rigido blocco e al controllo israeliano su tutti i prodotti che entrano ed escono dalla Striscia, configura una situazione assurda in cui i farmaci, sia sotto forma di donazioni sia medicinali commerciali, possono in realtà entrare nella Striscia di Gaza; tuttavia, secondo i rigidi regolamenti di sicurezza di Israele, nessun farmaco può uscirne. Tutti i prodotti scaduti, quindi, sono lasciati sotto la responsabilità delle istituzioni sanitarie e del Ministero della Salute di Gaza. Questo costituisce un pesante fardello che richiede interventi specializzati, comprese adeguate discariche di rifiuti tossici e personale qualificato. Inoltre, molte aziende farmaceutiche multinazionali e ONG preferiscono, per varie ragioni, inviare aiuti sotto forma di farmaci, alcuni dei quali vicini alla data di scadenza nel momento in cui raggiungono la loro destinazione. Nonostante le buone intenzioni, questa tendenza fa ricadere tutto l’onere sulle autorità di Gaza che devono gestire lo smaltimento di enormi quantità di rifiuti bio-medici in una delle zone più densamente popolate del mondo.

Chi ci perde e chi ci guadagna

L’industria farmaceutica, soprattutto quella multinazionale, rappresenta una delle sfere di maggior successo delle esportazioni di Israele (circa il 10% dell’intero export industriale)[6] e svolge un ruolo importante nel mercato mondiale dei farmaci generici. Attualmente in Israele operano circa 30 società farmaceutiche, di cui Teva, il maggiore produttore mondiale di farmaci generici, è senza dubbio la più grande e con maggiori collegamenti multinazionali.

L’industria farmaceutica palestinese, d’altra parte, soffre di vari impedimenti, i principali dei quali sono il fardello di dovere ottenere una licenza annuale per le materie prime importate
; i costi delle operazioni di carico e scarico ai posti di blocco e delle consegne da e per la Cisgiordania e tra Cisgiordania e Striscia di Gaza; i costi di spedizione dei farmaci in grossi carichi attraverso la Giordania; l’esclusione dei grandi mercati arabi nei paesi vicini così come in Israele; e l’incapacità dell’industria di Gaza di svilupparsi ed espandere a causa del divieto di esportazione. Tutti questi ostacoli generano costi aggiuntivi che danneggiano lo sviluppo dell’industria farmaceutica palestinese.

Al contrario, le società israeliane e le multinazionali farmaceutiche beneficiano della situazione sopra descritta in diversi modi.
In primo luogo, dalle quattro imprese maggiori, originariamente israeliane (Teva, Perrigo Israele – ex Agis, Taro e Dexcel Pharma) a quelle più piccole (come Trima), tutte le aziende israeliane hanno un facile accesso al mercato palestinese, senza grossi problemi alle dogane e ai checkpoint, come le operazioni di carico e scarico delle merci con cambio di camion ai posti di blocco; inoltre, non devono apportare modifiche a nessuno dei loro prodotti per venderli nel Territorio palestinese occupato. Per esempio, nonostante qualsiasi prodotto medico venduto in Israele debba essere etichettato in tre lingue (ebraico, inglese e arabo), nel TPO le aziende e multinazionali israeliane possono vendere i farmaci non etichettati in arabo[7]. Le multinazionali farmaceutiche, come Pfizer, AstraZeneca e Bayer per citarne solo alcune, incontrano poca o nessuna concorrenza dal settore dei farmaci generici molto meno costosi, a causa delle restrizioni imposte dal Ministero della Salute israeliano sulla registrazione dei farmaci in Israele e l’attuazione di tali restrizioni sul mercato palestinese.

Come a volte succede nel conflitto israelo-palestinese, gli interessi economici sono spesso camuffati da ‘motivi di sicurezza’.
Lo dimostra l’impossibilità dell’industria farmaceutica palestinese di inviare farmaci in grandi quantità (di solito a grandi catene di farmacie in Europa e Nord America) attraverso il vicino aeroporto di Ben Gurion (pochi km da Tel Aviv). Di conseguenza, i carichi sono fatti passare attraverso la Giordania, con pesanti costi aggiuntivi. Nel caso di prodotti farmaceutici succede anche che ‘motivi di qualità’ siano a volte utilizzati in combinazione con scusanti economiche e politiche. Una di queste, per esempio, è il rifiuto di consentire l’arrivo di prodotti farmaceutici palestinesi alle istituzioni mediche – ospedali e farmacie – di Gerusalemme Est occupata, compresi i vaccini destinati alle scuole pubbliche palestinesi.

In altri momenti, motivi politici ed economici si intrecciano con l’umiliazione di un popolo occupato. Questo è evidente nell’obbligo imposto ai rappresentanti palestinesi di grandi multinazionali di fare richiesta di una lettera di “nulla osta” (chiamata “non-objection letter”) da parte dei loro colleghi israeliani per ottenere la licenza di importazione del Ministero della Salute israeliano. Tale richiesta è necessaria nonostante gli agenti palestinesi siano i legali rappresentanti di compagnie multinazionali con cui hanno firmato regolari contratti, e in assenza di tale requisito per le loro controparti israeliane.


Conclusione: neo-colonialismo all’opera

Il caso dell’industria farmaceutica dimostra come un piccolo paese come Israele possa generare un’industria forte, stabile, multinazionale e assai redditizia, con un enorme impatto sulla propria economia. Esso rivela come la “mano invisibile del mercato” sia in realtà un meccanismo efficacemente manovrato, travestito da preoccupazioni per la ‘sicurezza’ e la ‘qualità’.

Tutto può avvenire grazie al Protocollo di Parigi che ha di fatto privilegiato gli interessi dell’economia israeliana, creando così una situazione di neocolonialismo, spesso sotto la forma di accordi bilaterali che, in situazioni di ovvia diseguaglianza, servono a consolidare il controllo economico del Paese più forte. Chi ci guadagna sono le aziende farmaceutiche israeliane e multinazionali che vendono i loro prodotti sul mercato palestinese e ne traggono lauti profitti senza pagare alcun prezzo per l’occupazione e i danni da essa procurati.

Angelo Stefanini
– Centro Salute Internazionale. Alma Mater Studiorum Università di Bologna

Bibliografia
1. Who Profits (Coalition of Women for Peace). Captive Economy – The Pharmaceutical Industy and the Israeli Occupation. July 2012 [PDF: 695 Kb].
2. The Palestinian-Israeli Interim Agreement on the West Bank & The Gaza Strip Protocol on Economic Relations (ANNEXes IV&V). Sottoscritto a Parigi in Aprile-Maggio 1994.
3. Tillekens N. La dipendenza economica palestinese da Israele. Associazione di Amicizia Italo-Palestinese 23.09.2010.
4. Tillekens N. Palestinian Economic Dependency on Israel. Alternative Information Center (AIC), 23.09.2010.
5. Il reddito medio annuale di un palestinese e’ di circa 1230$ (Banca Mondiale, 2007), mentre quello di un israeliano e’ di 26.000$ (CIA Factbook).
6. Atad, Amnon, The Israeli Pharmaceutical Empire. The Medical Website, 11.09.2008.
7. Secondo i regolamenti del Ministero della Salute israeliano, qualsiasi prodotto medico venduto in Israele deve essere etichettato in tre lingue: ebraico, inglese e arabo.

da Saluteinternazionale.info