Riflessioni sul socialismo

Domenica 7 ottobre 2012 è una data che resterà nella storia del Venezuela. Con un robusto 54% dei voti (contestualmente ad una percentuale di votanti superiore all’80%!) Hugo Chavez ha battuto l’avversario Henrique Capriles, che si è fermato al 45%. In un sistema, e questo va detto, fortemente presidenzialista, Chavez si appresta così al suo quarto mandato — nel febbraio 2009 il referendum vinto per un pelo rendeva illimitati i mandati di un Presidente. Si tratta di una vittoria che ha del miracoloso e per diversi motivi.

Il primo è che questa volta il coacervo delle opposizioni non aveva presentato uno stupido reazionario, rampollo della decrepita oligarchia di origine europea (particolarmente conservatrice quella italiana) scalzata dal potere, né ha suonato il solito spartito del “pericolo rosso”. Dopo anni di batoste questa volta l’opposizione ha scelto un profilo più accettabile, più ingannevole: Capriles è stato presentato come il Lula venezuelano. Un illuminato progressista. I venezuelani non hanno abboccato, hanno capito bene che si trattava di un trucco. Un trucco che i media occidentali e imperialisti (meno quelli latino-americani) hanno invece pompato quasi allo spasimo. Fino a che punto le borghesie occidentali hanno sperato di far finalmente fuori Chavez lo ha dimostrato la stampa italiana, che per giorni non ha fatto che gettare fango sull’esperienza bolivariana nella quasi certezza che il giovane avvocato Capriles, l’avrebbe spuntata. Resta a questi pennivendoli (segnaliamo su tutti quanti l’insulso Gianni Riotta, vedere il suo articolo su La Stampa del 8 ottobre) l’amaro in bocca.

Il secondo motivo attiene alle difficoltà del modello di democrazia partecipativa bolivariana. Far partecipare grandi masse plebee alla gestione della cosa pubblica si è rivelato, anche in questo caso, molto, molto più difficile del previsto. La nuova Costituzione venezuelana ha un’architettura che concepisce la coabitazione di un forte centralismo presidenzialista con dispostivi di decentramento orizzontale e con organismi di base concepiti per la più larga e fattiva partecipazione delle masse. Queste reti orizzontali funzionano poco e male. Permane lo spirito di delega ai funzionari, la qual cosa lascia largo spazio ad una burocrazia onnipotente (impropriamente chiamata “borghesia bolivariana”) che alimenta la piaga estesa della corruzione nella pubblica amministrazione. Infatti, Capriles ha fatto di questo vero e proprio cancro, un suo cavallo di battaglia.

Il terzo motivo è che malgrado le ampie riforme sociali, l’aumento del benessere per gli strati più poveri, il Venezuela resta uno dei paesi con la più alta microcriminalità dell’America latina. Una patologia che pare difficilmente curabile e che alimenta il consenso di ampi strati del ceto medio verso l’opposizione.

Tab. 1: Settori pubblico e privato in Venezuela

Il quarto motivo è che malgrado gli introiti dovuti all’estrazione del petrolio, il Venezuela resta un paese fortemente dipendente dal mercato mondiale. Il principale obbiettivo di Chavez e del governo bolivariano, quello di costruire un modello economico e sociale alternativo, non ha ancora visto la luce. Pesa il sabotaggio della borghesia imprenditoriale di origine europea, questo è certo, ma si poteva forse fare affidamento sulla classe capitalista per edificare un modello, se non socialista, che avanzasse verso il socialismo? Certo che no. Occorreva che il settore pubblico, che prevale oramai su quello privato [vedi tabella n.1], fosse la forza motrice delle promesse trasformazioni che dovevano strappare il paese dalla dipendenza. A parte l’industria petrolifera lo Stato contribuisce sì molto al Pil, ma perché maneggia la spesa pubblica (su come essa viene utilizzata e distribuita torneremo più avanti). In quindici anni non sono stati compiuti grandi passi avanti nella costruzione di un settore industriale e agroalimentare socialista. Il fatto che si debbano importare molte merci, anche di prima necessità, è ciò che poi alimenta l’inflazione (che borghesia e classe media sentono di più perché sono quelle che consumano prodotti d’importazione, mentre è mitigata per le classi meno abbienti perché lo stato sovvenziona i beni primari).

Tab. 2: Il Pil pro-capite venezuelano comparato a quello della Colombia

Il quinto motivo è che la grande crisi economica del 2008-2009 (a dimostrazione di questa internità dell’economia venzualena al mercato mondiale) ha colpito anche il Venezuela.

La crescita del Pil procapite, forte dopo il 2004, si è arrestata negli ultimi anni [vedi Tabella n.2] e solo grazie ad una decisa politica di redistribuzione del reddito (appunto la leva della spesa pubblica) a favore dei settori più poveri ha evitato che la situazione sociale diventasse esplosiva. Ciò ha infatti accresciuto il livello e la qualità della vita dei venezuelani poveri, che infatti hanno continuato a votare in massa per Chavez. La velenosa propaganda delle opposizioni (anche in questo sostenuta dalle centrali occidentali della disinformazione) ha sbraitato e sbraita contro il “populismo” e l’uso “spregiudicato e clientelare delle risorse pubbliche”. Ma proprio questo uso delle risorse pubbliche, ovvero la priorità data ai bisogni della gente più povera, va a merito del governo bolivariano, e attesta la sua natura popolare, in barba alle velenose accuse dei reazionari.

Tab. 3: La curva della produzione petrolifera venezuelana 

Seguendo questa falsariga la stampa occidentale ha parlato di “enorme dissipazione delle ingenti risorse petrolifere”. Come a dire, elevare la condizione dei settori più umili penalizza la “crescita” e gli affari della classe capitalista. E questo è forse vero. Ma è interessante notare [vedi Tabella n.3] che da quando Chavez è al potere l’estrazione del petrolio è scesa in maniera molto consistente. Dai 3 milioni e 500mila barili al giorno dell’anno 2000 è scesa agli attuali 2 milioni e 500mila. Ciò ha evidentemente diminuito grandemente gli introiti e le risorse a disposizione del governo (che ricordiamo nazionalizzò l’industria petrolifera), per il quale non è stato facile tenere ferme le sue promesse sociali, e dunque è falsa l’acccusa secondo cui il governo venezuelano avrebbe scialacquato nel petrolio e dissipato ingenti risorse finanziarie. Del resto [vedi Tabella n.4], a riprova che un paese che voglia costruire il socialismo deve necessariamente ridurre al minimo la sua dipendenza dal mercato capitalistico mondiale, il Venezuela, come tutti gli altri paesi produttori, ha pagato a caro prezzo la recessione avviatasi nel 2008. Con il costo di un barile più che dimezzato.

Per concludere. 
La costruzione di una società socialista è un compito molto difficile, forse il più arduo che la umanità si sia mai posto. Esso implica come minimo che i lavoratori siano in grado di amministrare razionalmente gli affari sociali senza delegarli ad una classe che li domini e li sfrutti. Questa capacità non si ottiene dall’oggi al domani ed implica un lungo e doloroso processo storico. Compito tanto più difficile e transizione tanto più lunga in paesi dove le classi lavoratrici e oppresse subiscono un più profondo differenziale di saperi e conoscenze rispetto ai dominanti. 

Per costruire il socialismo (premesso che prima di tutto occorre avere il potere politico statuale) non basta quindi collettivizzare l’economia, sottoporla al comando pubblico, occorre che la comunità sia in grado di esercitare questa funzione. La liberazione è anche questo, non è solo l’atto con cui ci si sbarazza della borghesia. La borghesia va superata, non solo abolita. Solo quando i lavoratori associati sapranno fare meglio del capitalismo esso potrà dunque essere soppiantato.

Non fosse che per questo abbiamo apprezzato, sin dalle prime battute, il tentativo chavista, che ha provato e prova ad oltrepassare il capitalismo (in un contesto storico avverso) senza salti nel buio, mantenendosi in un quadro democratico di confronto, aspro e conflittuale, con le vecchie forze borghesi.

E’ perché i compagni venezuelani erano consapevoli che il socialismo in un solo paese conduce ineluttabilmente ad un regime autarchico di caserma, che essi hanno tentato e tentano ancora di coniugare la democrazia e il socialismo, ovvero di far avanzare il socialismo attraverso la porta della democrazia.

Questa non è una colpa è un merito. Basta sapere che la borghesia come classe, non fosse che per i suoi interessi, si opporrà evidentemente alla sua estinzione, sempre si metterà di traverso. Mai abbandonerà la lotta, tanto più se potrà godere del sostegno di quella internazionale e grazie a quel sostegno potrà sempre risorgere, come insegnano le esperienze, pur diverse, dell’Urss e della Cina.

Per un paese che si avvii sulla strada del socialismo e che si trovi isolato il compito è quindi immane, deve camminare, fino a quando il socialismo non si estenda a molti altri paesi, sul filo del rasoio, in difficile equilibrio tra l’andare avanti e l’essere risospinto indietro. Due i pericoli: non solo la “furia del dileguare”, anche la tendenza al cedimento.

Solo una direzione politica determinata e audace, che goda di ampio consenso e sappia far leva sulle contraddizioni del campo nemico, è garanzia di successo.