Dal meno peggio al sempre peggio, dal tanto peggio al tanto meglio
Ma dalla Sicilia alla California l’astensionismo conquista o sfiora la maggioranza.

“Caro Lucio – recita l’e-mail – conosciamo i tuoi spunti critici sulla nostra opera di governo degli ultimi quattro anni e ne terremo conto nel nostro secondo mandato. Il tuo sostegno è comunque essenziale al fine di tradurre in realtà quei programmi che l’emergenza della crisi economica ereditata dalla precedente amministrazione e l’accanita opposizione repubblicana nella Camera dei rappresentanti ci hanno in parte impedito di attuare. Facciamo affidamento pertanto sul tuo voto il 6 novembre e prima ancora sul tuo contributo economico alla fase conclusiva della campagna elettorale. F.to: Barack Obama”.

Non ci siamo mai sognati di chiedere la cittadinanza statunitense nei trentotto anni trascorsi nella repubblica stellata e in quanto stranieri non abbiamo il diritto di voto nel grande impero d’occidente e anche se volessimo non potremmo contribuire un solo dollaro alla campagna di Obama o del suo avversario. Sospettiamo che più di un malinteso si sia trattato di uno scherzo fattoci da un caro amico newyorkese da anni residente in Italia, D.S., obamista di ritorno, che dopo averci fatto pervenire altri inviti dalla Casa Bianca (con soli 19 dollari il nostro nome sarebbe stato estratto a sorte per un invito a cena con il Presidente), ci abbia segnalato come cittadino americano “critico”, residente all’estero, a qualche funzionario democratico di Washington. Perché la tesi di D.S. è quella più semplice e più in voga da almeno due mesi a questa parte: definire Romney-Obama “un mostro a due teste” è da sofisti intellettualmente disonesti, perché Barack è meglio di Mitt e anche per i disillusi è il meno peggio dei due.

Ci risiamo: votare per il meno peggio, anche se l’esperienza degli ultimi quaranta anni negli Stati Uniti e in Europa ha dimostrato che il meno peggio ha portato sempre al peggio.

Per tornare all’e-mail di Obama, l’attribuzione della responsabilità della crisi solo a George W. Bush è in gran parte sballata. I veri presupposti della crisi sono stati scientemente creati dal superdemocratico per eccellenza, il presidente Bill Clinton che ha azzerato a tutti gli effetti il Glass-Steagall Act, la legge di Franklin D. Roosevelt contro la speculazione bancaria, che ha fatto approvare il Commodity Futures Modernization Act aprendo la porta al mercato fraudolento dei derivati, che ha deregolato corporazioni e istituti finanziari, mergers e acquisizioni, concentrando i poteri reali della finanza in mani non certo pulite. G.W.B. ci ha guazzato dentro, ma B.O. poco o nulla ha fatto per correggere quella catastrofica eredità e non è certo un caso che il suo più acceso sostenitore sia oggi Bill Clinton.

Il messaggio dall’indirizzo sbagliato (chissà quante decine di migliaia di copie hanno raggiunto i democratici disillusi residenti all’estero) sottintende il monito a lasciar perdere per il momento le critiche più o meno giustificate al “dear leader” perché l’orda dei barbari di estrema destra è alle porte ed è assetata di sangue. Una scelta netta dunque tra equità, giustizia sociale, democrazia e libertà da una parte e barbarie, persecuzione dei poveri a vantaggio dei ricchi e super-ricchi dall’altra? Perché allora Pennsylvania Avenue è diventata in meno di quattro anni “Il Viale dei Sogni Infranti”? Lo ha spiegato due anni fa Roger Hodge, l’ex-direttore del mensile “Harper’s”, nel saggio dal titolo significativo “La mendacia della speranza”: “Destra e sinistra oggi negli Stati Uniti – scriveva – sono termini del tutto inutili nel contesto della nostra economia, anzi sono deleteri in quanto rientrano nella disinformazione più totale. In realtà i due partiti con il pretesto fittizio di un’opposizione bipolare sono un partito unico al servizio del potere corporativo e si distinguono solo per l’ipocrisia con cui pretendono di servire interessi diversi da quelli del regime del profitto che investe più o meno lo stesso numero di milioni di dollari nelle loro campagne elettorali”. Come poi ampiamente dimostrato dall’ultimo dibattito di Romney e Obama sulla politica estera degli Stati Uniti, già due anni fa Roger Hodge aveva sottolineato l’identità di vedute su questo tema: “I due partiti e i loro due rappresentanti al vertice sono contraddistinti da un consenso totale in materia di sicurezza nazionale e cioè su un’espansione illimitata del “warfare state” al posto del “welfare state”, dell’incremento della spesa militare a fini di guerra e dell’imperialismo più aggressivo nel mondo intero”.

E il meno peggio sarebbe dunque un Obama, definito da Jeffrey St. Claire nel saggio “Senza speranza: B.O. e la politica dell’illusione” un Bush agli steroidi, un presidente che ha esteso molto più dei predecessori i poteri dell’esecutivo, che ha continuato a violare le convenzioni internazionali, a proseguire con la tortura e la detenzione preventiva e senza scadenze dei sospettati di terrorismo, che non ha chiuso il lager di Guantanamo e che si è arrogato il diritto di selezionare settimanalmente il numero e l’identità di chi deve essere assassinato all’estero con l’impiego di droni o di forze speciali.

Un record che potrà difficilmente essere superato da Mitt Romney, qualora dovesse emergere vincitore alle urne.

Chi scrive non crede a questo esito della contesa elettorale oltretutto in quanto Sandy, la “tempesta perfetta” che ha devastato e continua a devastare gli stati più popolosi sulla costa atlantica ha permesso ad Obama di continuare la campagna elettorale dal podio presidenziale della Casa Bianca.

Non mancano comunque i fautori del “tanto peggio, tanto meglio”, di coloro cioè che si augurano la vittoria di Romney che dovrebbe portare al risveglio dell’opinione pubblica, ad una catarsi salvifica che in tempi più o meno lontani dovrebbe cacciare i mercanti dal tempio e restituire il potere ai veri rappresentanti del popolo. Una vera rivoluzione dunque. Ma come tutti sanno gli Stati Uniti non hanno mai avuto una rivoluzione perché un fenomeno del genere è severamente proibito dalla polizia.

L’alternativa esiste e verrà sicuramente evidenziata il 6 novembre: vincerà il partito dell’astensionismo. Tutto il mondo è paese: quanto avvenuto in Sicilia potrebbe ripetersi nel Midwest, nel Sud, in California e negli altri stati sul Pacifico. Non basterà a delegittimare il mostro a due teste, ma sarebbe pur sempre un segnale se non della luce, almeno dell’inizio del tunnel.

Lucio Manisco
30 ottobre 2012