Sulla questione del fronte e delle alleanze per salvare questo paese
In risposta a Quadrelli e Bausano
Noi pensiamo — parlano la storia e l’esperienza empirica — che i rivoluzionari debbano congedarsi una volta per sempre dall’idea per cui più alto sarebbe stato lo sviluppo capitalistico più compiutamente esso avrebbe dato forma alla soggettività di classe rivoluzionaria.
L’astratto pensiero non sempre si sposa col concreto, tantomeno esso produce i suoi concetti come puro rispecchiamento del secondo, di qui la sua vana pretesa d’intrinseca e oggettiva validità. Quando il pensiero non riesce a cogliere il dinamismo del reale, esso finisce per restare prigioniero delle proprie astrazioni. Questo è quanto accaduto al marxismo il quale, sulla scia della teleologica filosofia della storia hegeliana, ha immaginato che il proletariato fosse, per sua essenza, una classe destinata, anche a dispetto della sua coscienza, a compiere la missione di condurre l’umanità verso il comunismo.
Non lo sviluppo del capitalismo ma il suo declino catastrofico, semmai, produce le condizioni obiettive del trapasso ad un alternativo e superiore modello sociale, poiché spinge i contrasti sociali al loro limite estremo, al punto in cui si decide chi debba avere il potere totale. Col che, beninteso, non stiamo compiendo l’errore opposto, quello di pensare che la crisi sistemica, motu proprio, sforni una classe rivoluzionaria bell’e pronta. No, noi stiamo solo dicendo che la crisi sistemica crea le condizioni oggettive che rendono pensabile la sfida rivoluzionaria. Questa può essere vinta solo a patto che in seno alla classe oppressa una maggioranza comprenda e accetti questa sfida, e non esiti ad abbattere gli ostacoli che ostruiscono la trasformazione. Ogni maggioranza è a sua volta plasmata dall’azione combinata dalla pressione esterna delle convulsioni sociali e dalla pressione interna educatrice della minoranza rivoluzionaria.
L’operaismo italiano, che condusse alle sue estreme conseguenze l’idea che il proletario fosse una classe rivoluzionaria per sua essenza, ci ha almeno insegnato a tenere nella debita considerazione l’analisi della cosiddetta “composizione sociale e di classe”. Chiediamoci: esistono oggi le condizioni per una rivoluzione sociale? O, nei termini dell’operaismo, la “composizione sociale e di classe” oggi esistente in Italia tiene in grembo la rivoluzione socialista? La nostra risposta è no. Ne abbiamo dato conto, di passata, nell’articolo Perché questo mortorio sociale, e quindi non ci torniamo.
Vogliamo invece commentare un articolo di Emilio Quadrelli e Giuliana Bausano, Un passo avanti, molti indietro, apparso su Contropiano.org l’11 novembre scorso. Il titolo, forse un po’ logoro, nasconde ragionamenti che meritano invece la massima attenzione.
I due autori ci perdoneranno se, per aiutare i nostri lettori a capire con chi abbiamo a che fare, estrapoliamo da un loro recente intervento, una frase che non lascia dubbio alcuno su quale sia il loro posizionamento ideologico:
«Ciò che va immediatamente posto all’ordine del giorno è un programma politico in grado di offrire uno sbocco storico alla condizione proletaria contemporanea. Sotto tale aspetto, con ogni probabilità, la “vecchia” parola d’ordine della dittatura proletaria si mostra ben più fresca delle tante alchimie innovatrici elaborate dal ‘89 in poi dalla cosiddetta sinistra post-comunista. Al nuovo proletariato occorre dare una prospettiva politica non effimera, una prospettiva politica al centro della quale si pone, senza malintesi di sorta, la questione del potere politico e dell’esercizio della dittatura rivoluzionaria». [Al voto! Al voto! Ieri in Sicilia domani…]
Siamo quindi all’incipit. La visione di Quadrelli e Bausano è plausibile solo a patto di considerare valido il dogma che il proletariato sia una classe rivoluzionaria in sé, dotata quindi non solo della forza auto-sufficiente a cambiare il mondo, ma di una natura per cui esso non può sfuggire al compimento della sua missione. Che è cosa ben diversa dal sostenere, come noi in effetti sosteniamo, che sono principalmente le condizioni materiali d’esistenza a determinare la coscienza e l’azione (o l’inazione) delle larghe masse popolari.
Se questo è vero a queste condizioni materiali d’esistenza va prestata la massima attenzione. Per dire che occorre mettere bene a fuoco cosa s’intenda per proletariato. Per Marx è quella classe la cui sola fonte di reddito viene dalla vendita della sua forza-lavoro. Nelle metropoli imperialistiche è così solo per esigui strati del proletariato — che certo la crisi tende nuovamente a dilatare. Per la maggioranza “proletaria” il reddito è un combinato composto, ovvero concorrono alla sua formazione (soprattutto nelle famiglie plurireddito) varie forme: pensioni o cosiddetto “salario differito” (che è una rendita creata sì col lavoro ma che è una sottrazione al plusvalore), salario cosiddetto “sociale” e welfare (idem), risparmio, redditi da commercio, e quant’altro. Questo reddito composto, o eterogenesi del reddito, va preso nella dovuta considerazione, non fosse perché spiega l’affievolimento della lotta di classe, l’imbastardimento della coscienza, la promiscuità sociale e ideologica (non esistono paratie rigide tra le classi sociali), quindi il decesso del vecchio movimento operaio.
Con questo sarà più agevole comprendere il senso di quanto i nostri sostengono nell’articolo Un passo avanti e molti indietro. Essi, svolgono le loro considerazioni a partire dal bilancio della manifestazione nazionale del 27 ottobre scorso. Se la prendono con le due posizioni che essi ritengono, forse non ha torto, le due principali in seno all’opposizione anticapitalista. Quella espressa da Giorgio Cremaschi nel suo intervento E’ l’ora delle scelte, e quella del Collettivo Militant nell’articolo Gli stanchi rituali di una certa sinistra.
I nostri contestano a Cremaschi di pensare percorribile, qui in Italia, una “via latinoamericana” alla fuoriuscita dal capitalismo, ovvero: «… il parlamentarismo, come modello principe della politica; la difesa delle condizioni lavorative del “vecchio proletariato” (la centralità dell’art. 18 è quanto mai esemplificativo); la prospettiva di un nuovo “fronte popolare” nel quale dovrebbero convergere tutte le forze democratiche, progressiste, socialiste e antimperialiste del Paese. Questa, in sintesi, la proposta politica posta nero su bianco da Cremaschi. La prossima tornata elettorale ne dovrebbe rappresentare il primo banco di prova».
D’altra parte, i nostri, criticano la posizione che va per la maggiore in alcuni settori post-Autonomia operaia, quella del culto del riot e della spettacolarizzazione dell’evento sovversivo, quella per cui le rituali e tranquille manifestazioni come quella del 27 ottobre (che mettono in campo la vecchia e residuale composizione di classe novecentesca) non hanno più alcun senso, che occorre invece che esse servano da punto d’appoggio all’insorgenza sociale dei nuovi settori del nuovo proletariato precario giovanile.
Una critica al profilo e alla modalità con cui è stata promossa la manifestazione del 27 ottobre, in effetti, l’abbiamo compiuta anche noi, denunciando sia il minimalismo della piattaforma che la deliberata esclusione dei settori più combattivi della sinistra anticapitalista. [27 ottobre: non sia una passeggiata]
Il bilancio del 27 serve tuttavia ai nostri a mettere in luce la questione delle alleanze e del percorso che in questo paese un soggetto rivoluzionario può e deve immaginare come necessari per la fuoriuscita dal capitalismo. Così prendono di petto Cremaschi affermando:
«Partiamo con l’ipotesi Cremaschi iniziando ad affrontare l’orizzonte strategico in cui questa si colloca: la reiterazione di un Fronte popolare di tutte le forze oppositive ai diktat del liberismo. (…) Dobbiamo chiederci su quali alleanze di classe si danno le esperienze sudamericane e se, nei nostri mondi, il prospetto socio-economico racconta qualcosa di simile. Evidentemente no. (…) Nei nostri mondi non esiste una borghesia nazionale che si contrappone alla borghesia imperialista poiché, l’Italia e l’Europa, non sono Paesi sottoposti a dominazione imperialiste, non sono ex colonie dell’impero statunitense bensì, e almeno dai primi anni del ‘900, Paesi imperialisti i quali, nel contesto attuale, stanno realizzando la costituzione di un polo imperialista su scala Continentale. In tale scenario non vi è alcun settore di borghesia progressista poiché tutte le consorterie borghesi, pur con tenui differenze al loro interno, sono unite nel medesimo progetto strategico. Il “sostegno” parlamentare e istituzionale al Governo Monti, fornito da tutte le forze borghesi, non sembra aver bisogno di grandi commenti. Del resto, se come lo stesso Cremaschi riconosce, il PD è una forza a tutti gli effetti nemica non si capisce bene quale blocco sociale borghese dovrebbe incarnare lo spirito democratico, progressista, nazionale e antimperialista. (…) Nessuna frazione di borghesia locale, per dirla chiaramente, coltiva minimamente l’idea di chiamarsi fuori dalla BCE, dal FMI e tanto meno dalla NATO. Nessuna frazione di borghesia locale è estranea alle guerre di conquista e sottomissione varate dall’imperialismo ma, semmai, è fortemente interessata a spartirsi il bottino». [Un passo avanti, molti indietro]
Ci sentiamo chiamati in causa, e non tanto perché con Cremaschi militiamo tra le file del Comitato No debito, quanto perché, come Mpl, peroriamo in maniera decisa l’idea del fronte popolare, di un’alleanza ampia che non sia conchiusa entro i confini (immaginari) del vecchio e nuovo proletariato. E vogliamo difendere questa idea di fronte ampio proprio tenendo ferma la premessa a cui i nostri invece vengono meno: «L’ipotesi del fronte popolare, di per sé, non è né giusta né sbagliata poiché, ogni orizzonte strategico va collocato nella sua dimensione “concreta” e non astratta. L’orizzonte strategico non è un dogma ma una guida per l’azione».
Poniamoci subito una prima domanda: è vero quanto dicono i nostri che tutta la borghesia italiana è unita nella difesa del medesimo progetto strategico eurista e globalista? No, non è vero. I nostri, in questo, non tengono fede al principio dell’analisi concreta della situazione concreta, ma svolgono il loro ragionamento in base all’assioma che l’Italia non è un paese che subisca il giogo imperialistico ma vi partecipa, e da questo assioma derivano il teorema che non esiste alcuna frazione “progressista” della borghesia.
Ma qui il progressismo non c’entra un fico secco. Qui c’entra la questione concreta se il sistema di capitalismo-casinò (del quale l’Unione europea ad egemonia tedesca è asse portante) è funzionale a tutta la borghesia o solo ai suoi strati rentier dominanti. La nostra analisi del capitalismo-casinò fondato sullo strozzinaggio finanziario ci conduce ad affermare che quest’ultimo colpisce duro non solo il popolo lavoratore ma interi settori della borghesia capitalistica. Li colpisce anzitutto in Italia, dove il sistema produttivo è imperniato sulla piccola e media impresa. Solo i ciechi non vedono che, finita l’epoca delle vacche grasse, ovvero con il sopraggiungere della crisi sistemica, la comunione intra-borghese traballa. Aggiungiamo che il venir meno della “minaccia comunista” ha contribuito a porre fine alla vecchia comunanza d’interessi. Esistono e come settori della borghesia che iniziano a considerare necessarie l’uscita dall’Unione o quantomeno dall’eurozona e i cui interessi vitali configgono con i settori globalisti dominanti.
Questi settori non mancano di cercare una loro rappresentanza politica. La trovano in pezzi del morente berlusconismo, nella Lega e, anzitutto nel grillismo — che infatti non sostengono il governo Monti. Il sopraggiungere di quest’ultimo, lungi dall’aver attenuato il conflitto in seno alla borghesia, lo sta anzi approfondendo. Se n’è accorto l’establishment, che infatti si blinda e sbandiera lo spauracchio del populismo.
A noi pare che l’errore principale dei nostri è che essi non tirano tutte le conseguenze dal fatto che quella che il capitalismo vive è una crisi storico-sistemica, che questa crisi profondissima non solo scomporrà e riconfigurerà il mondo del lavoro dipendente, ma è destinata a frantumare il vecchio blocco sociale dominante, spaccandolo anzi in modo devastante. Una crisi, quella attuale, imperniata sul debito, che taglia trasversalmente in due la società intera, ad esempio tra classi e strati debitori e classi e strati creditori. Ove i debitori, prime vittime del capitalismo-casinò, tendono a ribellarsi all’ordine di cose esistente e al Moloch euro, mentre i creditori sono la reale base sociale del sistema, spinti a difendere l’esistente, euro compreso. Occorre fare tesoro dell’esperienza storica, e di come crisi sistemiche, ad esempio quella tra le due guerre, non solo dividono la borghesia, ma spingono le sue diverse frazioni alla lotta frontale.
Poniamoci adesso una seconda domanda. Quale rango ha l’Italia nell’ambito del consorzio imperialista? Davvero il nostro paese non soffre di alcuna sostanziale subalternità? No, non è vero. L’Italia partecipa sì alla “spartizione del bottino”, ma vi partecipa come paese sub-imperialista a sovranità limitata, incapsulato in un’alleanza a ferrea dominanza americana. A questa sudditanza geo-politica se n’è aggiunta, con l’euro e la sua crisi, una seconda, quella alla Germania, simboleggiata dalla rapina colossale che fa leva sul debito sovrano. Nei piani strategici della borghesia globalista e rentier — in cui vi sono certamente pezzi tricolori che svolgono sostanzialmente una funzione predatoria da borghesia compradora —, la stessa che ha imposto Monti come curatore fallimentare, il nostro paese trova posto come paese marginale e semi-dipendente, produttore di semi-lavorati a basso costo per la locomotiva tedesca.
E’ una stupidaggine pensare che questo destino funereo del paese spinga le masse popolari alla sollevazione, ma lasci compatto lo schieramento dominante. Esso, ripetiamolo, andrà in frantumi e sarebbe sciocco se, chi pretende di strappare il paese a questo destino, facesse spallucce e, come un disco rotto, ripetesse a pappagallo lo slogan infantile “nessun compromesso con la borghesia ovunque essa sia”.
Il paese vive un crollo sistemico, esso è posto di fronte ad un bivio: o la catastrofe storica o la rinascita. E’ quindi in un larvato Stato d’eccezione. E da cosa è rappresenta la minaccia? Dalle frazioni globaliste del capitale finanziario le quali, poste davanti al collasso del loro sistema di rapina, vogliono uscire dal marasma esercitando la loro dittatura dispiegata spazzando via gli ultimi brandelli di sovranità nazionale e di democrazia. E’ entro la cornice di questo Stato d’eccezione che si decideranno le sorti del nostro paese, che va pensata la questione della funzione di un soggetto rivoluzionario e ripensata quella delle alleanze.
Il difetto dell’argomentare dei nostri, come detto, pecca di astrattezza. E’ fuorviante incardinare la possibilità di un fronte ampio al feticcio della “borghesia progressista”. La questione delle alleanze è anzitutto politica e programmatica. Qui casca l’asino dei nostri, che sulla questione dell’euro e dell’Unione europea sono reticenti ed anzi sembrano condannare da un punto di vista di ultra-sinistra l’idea che la sovranità nazionale vada difesa. Di sicuro non ci si può alleare con le frazioni sovraniste ma reazionarie, xenofobe e imperialiste. Ci si può invece alleare con quelle sovraniste democratiche non in una prospettiva meramente difensiva ma offensiva, che punti dichiaratamente alla guida del paese. Alla guida per fare cosa? Questo è il problema per nulla astratto.
«Abbiamo indicato quale dovrebbe essere, grosso modo, il programma del Fronte popolare, ovvero il suo programma di governo:
(1) Uscita dall’euro e dall’Unione europea; (2) Ricollocazione geopolitica dell’Italia accanto ai paesi emergenti e nel solco della civiltà mediterranea; (3) Default programmato e ripudio del debito verso la grande finanza speculativa globale; (4) Svalutazione unilaterale della lira e introduzione di dazi su tutti i prodotti di importazione; (5) Riportare la Banca d’Italia sotto controllo pubblico riconsegnandole la facoltà di stampare carta moneta; (6) Nazionalizzare il sistema bancario e assicurativo abolendo le banche d’affari, affinché l’erogazione del credito sia sottratto alla speculazione borsistica; (7) Lanciare un piano nazionale del lavoro per debellare la disoccupazione e riconvertire in modo ecocompatibile industria e agricoltura; (8) Un sistema fiscale che premi la creazione di ricchezza e aggredisca i grandi patrimoni parassitari, mobiliari e immobiliari; (9) Difesa della Costituzione repubblicana con la promozione di un’Assemblea Nazionale Costituente al fine di consegnare al popolo una fattuale sovranità politica». [Il fronte popolare secondo noi]
Aggiungevamo:
«Il Fronte popolare potrà avanzare solo se incontrerà il popolo insorgente, se saprà canalizzare il conflitto verso una generale sollevazione, fino ad una vittoriosa Rivoluzione democratica. Democratica poiché il suo primo stadio consisterà nel rovesciamento della dittatura mascherata delle oligarchie finanziarie, nella liquidazione delle loro cricche politiche, riconsegnando al paese la sovranità perduta, con la nascita di nuove istituzioni di potere popolare. In questo agone si deciderà quale delle forze componenti il Fronte popolare avrà l’egemonia, se quelle che puntano al socialismo o quelle che vogliono fermarsi ad un modello capitalista riformato. Sulla base del programma sopra abbozzato i rivoluzionari saranno una forza leale del Fronte, anche ove essi fossero una minoranza, ma terranno ferma la loro piena indipendenza politica.
Per uscire dal marasma del capitalismo-casinò e dalla crisi in cui esso ha fatto sprofondare il paese, dovrà vincere la sollevazione popolare, e questa potrà vincere soltanto se la forza d’urto decisiva l’avranno le masse proletarie e plebee. La nostra indipendenza è insindacabile, necessaria per dare ai poveri la speranza di una compiuta liberazione, per spingere la Rivoluzione democratica in avanti, fino a quella socialista».